LA PRATICA DELLA GIUSTIZIA E L’AGIRE SINDACALE

Giornata di studio SPI CGIL, Roma 24 maggio 2011


Cercherò di individuare, a partire dal libro di Sen sulla giustizia, alcuni nodi problematici che meriterebbero di essere approfonditi. Sono solo degli spunti, delle tracce di lavoro, per il nostro dibattito odierno e per una ulteriore riflessione che dovrà essere affidata a momenti successivi di confronto.

Una prima questione riguarda direttamente il sindacato, il suo rapporto con la pratica di giustizia. L’assunto di questo nostro incontro è la possibilità di una corrispondenza e di una integrazione tra teoria della giustizia e pratica sindacale. Ma forse è bene domandarsi se questo assunto è teoricamente fondato, o se non è solo la proiezione di una aspirazione generosa, ma illusoria. Non dobbiamo evitare le domande scomode, o inquietanti, e lo spirito critico è tanto più necessario quando si tratta di noi stessi, per non scadere in una posizione di autocompiacimento. L’interrogativo è allora il seguente: il sindacato è in grado di perseguire un modello di giustizia, o non è destinato, per sua natura, in quanto rappresentativo di interessi parziali, ad una pratica di tipo corporativo? L’impegno della CGIL è quello di configurare il sindacato come un soggetto “generale”, capace di una visione di insieme, di un progetto politico complessivo, nel quale gli interessi parziali sono ricompresi e proiettati oltre la loro limitatezza. Tuttavia, l’obiezione ha un suo fondamento, se non altro perché le spinte corporative sono sempre presenti, e il sindacato si trova sempre in bilico tra due opposte possibili direzioni. In altri termini, si può dire che il rapporto con l’idea di giustizia è per il sindacato una delle possibilità, ma che essa non è affatto scontata. È tutta la relazione tra parzialità e interesse generale che deve essere attentamente indagata. Quando diciamo “sindacato generale” non intendiamo rinunciare alla nostra parzialità, ma pensiamo che essa possa aprirsi ad una visione più ampia, e consideriamo che comunque il cosiddetto interesse generale non è un qualcosa di superiore che prescinde dagli interessi parziali, ma è il modo in cui questi interessi riescono ad integrarsi attraverso un lavoro di mediazione e di sintesi. La pratica “giusta” può essere allora definita proprio come questo metodo di confronto, in cui tra le diverse parti si instaura un rapporto di reciproco riconoscimento.

Il secondo tema è quello della democrazia e della sua crisi. Nella teoria di Sen la democrazia è una condizione essenziale per una pratica di giustizia, proprio in quanto la giustizia non è concepita come un modello astratto, ma come il risultato di un processo sociale. È questo il tratto principale della posizione di Sen, in polemica con l’idea trascendentale di un contratto originario che definisce a priori le forme e le istituzioni della giustizia. Sen rovescia tutta una lunga tradizione, da Hobbes a Rawls, e nel suo pensiero il tema della giustizia si colloca tutto intero nella concretezza delle relazioni politiche e sociali, non essendo più possibile definirlo in termini assoluti ed astratti. Occorre quindi prendere in considerazione le condizioni concrete in cui si svolge tutto il processo politico. E la condizione principale è la possibilità di un libero confronto tra i diversi punti di vista, per rendere possibile, sulla base di un dibattito pubblico, la costruzione di una soluzione condivisa. Ma che cosa succede quando la democrazia si inceppa? Ora, la democrazia è messa in crisi non soltanto in quella parte del mondo che resta sotto il dominio di strutture politiche autoritarie, ma anche nei paesi di più forte tradizione democratica, dove è in atto una sorta di svuotamento delle istituzioni democratiche e di scollamento del rapporto tra istituzioni e società civile. L’impressione generale, in tutti i maggiori paesi europei, è quella di una stanchezza democratica, per cui la democrazia sopravvive solo come rispetto formale delle regole, ma ha perso la sua forza, il suo impulso partecipativo, e il gioco politico finisce nelle mani di sempre più ristrette oligarchie. E allora, se democrazia e giustizia vanno insieme, è indispensabile la pratica di una democrazia combattente, per riconquistare le condizioni di una effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche.

Il terzo punto riguarda il ruolo del conflitto. Nel processo sociale finalizzato all’obbiettivo della giustizia entrano sempre due momenti distinti ma non contrapposti, il momento del conflitto e quello della mediazione. Tutta la pratica del sindacato si fonda su questi due elementi, che possono dar luogo a diverse possibili combinazioni, ma sono sempre tra loro intrecciati. Il conflitto, quindi, non può che essere visto come un momento del processo, e non può essere assolutizzato. Il lavoro sindacale si svolge sempre sul terreno della relatività, e dovrebbe rifuggire, per principio, da ogni forma di fondamentalismo. Ma l’insidia oggi prevalente è quella della negazione del conflitto, l’idea cioè che l’interesse generale comporti il sacrificio dei punti di vista parziali, che si tratta ormai solo di adeguarsi alla presunta oggettività delle leggi economiche, per cui il sindacato viene riconosciuto solo nella misura in cui rinuncia a rappresentare la soggettività dei lavoratori. Per questo è importante pensare la giustizia come un processo, e pensare che questo processo ha in sé, necessariamente, il momento del conflitto.

Infine, mi piacerebbe che ragionassimo su un punto: il rapporto tra diritti individuali e diritti collettivi. L’idea di giustizia come si colloca in questo rapporto, come costruisce la relazione tra l’individuale e il sociale? Se l’obiettivo è la realizzazione della persona, della sua autonomia, nel lavoro e nella vita sociale, questa pienezza di vita può essere affidata solo a strategie individuali, o passa anche necessariamente attraverso un discorso sulla struttura sociale? L ‘attuale società viene spesso descritta come la società dell’individualizzazione. Fin dove è vera questa affermazione, ed entro quali limiti si produce un primato dell’individuale sul collettivo? C’è chi sostiene che è ormai compiuto un totale rovesciamento, per cui si può parlare di una vera e propria “fine del sociale”. È una formula inquietante, perché se la società fosse ormai solo un insieme di strategie individuali e se la persona può trovare la sua realizzazione solo in questo contesto, allora il destino dell’organizzazione sindacale sarebbe segnato, in una prospettiva di definitivo declino. Credo che un approccio solo individualistico ci impedisca di mettere a fuoco il tema della giustizia, il quale riguarda sempre la qualità delle relazioni sociali entro le quali si svolge la vita individuale. La “fine del sociale” trascina con sé anche la fine dell’idea di giustizia. In ogni caso, è evidente che c’è un sommovimento nel rapporto tra sfera individuale e sfera collettiva, e che tutto questo problema deve essere più attentamente approfondito.



Numero progressivo: D19
Busta: 4
Estremi cronologici: 2011, 24 maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza
Pubblicazione: Amartya Sen, “L’azione giusta. Una giornata di studio con il sindacato pensionati della CGIL”, Ediesse, Roma, 2012