DI MAURIZIO FRANCO
Tutti conoscono Riccardo Terzi per le sue qualità di politico colto, riflessivo, capace di leggere la realtà in maniera originale, mentre solo coloro che lo hanno frequentato nel privato sanno che era un ascoltatore di musica competente, in particolar modo nell’ambito del jazz, musica che ha sempre amato e di cui aveva una conoscenza vasta.
Con lui ho condiviso vent’anni di proposte concertistiche realizzate dall’Associazione Culturale Secondo Maggio, di cui è stato per molti anni il Presidente e che aveva contribuito a fondare insieme a Gianni Bombaci, al direttore d’orchestra e compositore Giuseppe Garbarino, al compositore e pianista jazz Enrico Intra e al sottoscritto, che nella vita fa il mestiere un po’ misterioso del musicologo. Lui da appassionato e io da professionista della musica abbiamo vissuto insieme centinaia di concerti, quelli dell’Atelier Musicale, la rassegna che l’associazione organizza di sabato alla Camera del Lavoro, e alla fine di ogni spettacolo apprezzavo il suo senso critico, l’acume e l’ironia con cui, in una battuta, sintetizzava la sua opinione su quanto ascoltato.
Aveva dei gusti precisi e, al contrario di chi con la musica lavora, poteva permettersi di ascoltare solo quello che gli piaceva, ma in quel “solo” c’era un vasto universo sonoro. Contrariamente ai tanti che seguono la musica con la mentalità dei tifosi di calcio e prediligono solo uno stile, elevando i suoi musicisti al rango di semidei, Riccardo aveva gusti molto articolati. In primo luogo amava la melodia, poi la narrazione diretta tipica dei jazzisti che sanno raccontare una storia e non a caso amava il suono caldo e irripetibile di Gianni Basso, le costruzioni solistiche di Ornette Coleman, che non sfuggivano da quella linea narrativa, ma sapeva apprezzare anche il Jazz di New Orleans e le atmosfere evocative dell’oud del tunisino Anouar Brahem. Naturalmente il fulcro dei suoi ascolti era il jazz americano, soprattutto del periodo che va dal Bebop agli anni sessanta, ma seguiva con passione anche i musicisti italiani, con alcuni dei quali intratteneva rapporti di amicizia e frequentazione. Penso a Claudio Fasoli, a Luciano Invernizzi e, naturalmente, a Enrico Intra, del quale seguiva anche le performance di improvvisazione totale, nonostante preferisse il suo modo di suonare gli standard americani. Anche nell’ambito della musica classica si dimostrava ascoltatore attento, soprattutto delle pagine dei contemporanei, di cui coglieva al volo pregi e difetti, sempre mettendo al primo posto il pensiero, il ragionamento e mai il gusto personale o, comunque, non solo quello.
Riccardo amava la musica, è indiscutibile, e come scriveva Shakespeare sono le persone che non la amano quelle di cui si deve diffidare, mentre con lui tutto era trasparente, chiaro, soprattutto fondato sul rispetto. E poi il suo impegno nell’Associazione non era platonico e se l’Atelier Musicale ha superato la boa dei venticinque anni il merito è stato anche suo, oltre che del suo inseparabile amico Gianni Bombaci, un altro grande appassionato di musica. Ascoltavano spesso i concerti insieme e altrettanto frequentemente erano d’accordo su quanto avevano sentito e questa sintonia dimostrava che per loro la musica non rappresentava solo uno svago, ma entrava nel loro dialogo quotidiano, faceva (e fa, nel caso di Gianni) parte della propria vita.
Un altro aspetto che mi ha sempre colpito di Riccardo era la consapevolezza che essere Presidente di un’Associazione, tra l’altro venendo dalla parte “non musicale” dei soci, significava rispettare in primo luogo le scelte dei direttori artistici, magari chiedendone le ragioni, cercando di comprendere i perché, ma sempre senza imporre i propri gusti, lasciando il pregiudizio (abito mentale che non gli apparteneva in nessun campo) fuori dalla porta. Uno dei problemi della produzione della musica in Italia è quello che troppi dilettanti si sostituiscono ai professionisti; nel caso di Riccardo, pur non essendo un professionista del settore, si comportava come tale: e questa è una dote rarissima, una delle tante qualità che caratterizzavano una personalità di cui, oggi, ci sarebbe molto bisogno. Ovunque.
Maurizio Franco
Milano, 31 marzo 2019