PREFAZIONE A “IL PIPISTRELLO DI LA FONTAINE”
Bozza della prefazione di Riccardo Terzi al volume “Il pipistrello di La Fontaine” di Luigi Agosti.
Il tema di Luigi Agostini è il partito politico. Esso sta al centro, anche in modo ossessivo, di tutta la sua riflessione. Partito vuol dire democrazia organizzata, radicamento sociale, partecipazione consapevole, cultura politica, progetto. E, di conseguenza, il tramonto dei partiti politici trascina con sé, necessariamente, il tramonto di tutte le forme storiche in cui la democrazia si è realizzata. Al partito non subentra una forma più matura di partecipazione, ma subentra il vuoto, e nel vuoto c’è libero spazio per gli avventurieri del potere e per i falsi profeti.
Mi sento del tutto solidale con questa riflessione critica, con la denuncia appassionata di questo vuoto a cui la politica attuale si è ridotta, venendo anch’io dalla stessa storia, dall’esperienza straordinaria di un grande partito di massa che ha saputo tenere insieme il momento teorico e quello pratico, l’ideologia e l’azione concreta, gli obiettivi per l’oggi e per il domani, il suo carattere di classe e la sua apertura alle diverse domande sociali. Partito e sinistra sono due concetti strettamente legati, proprio perché sinistra vuol dire organizzazione di una parte, e vuol dire dare a questa parte, che ha nel lavoro la sua identità, la potenza politica necessaria per rovesciare i rapporti di forza e per dare un senso concreto, attuale, realistico, al tema dell’eguaglianza, facendolo uscire dal campo delle astrazioni etiche o filosofiche. Il partito è la forza che rende possibile questo passaggio dai principi alla realtà, dalla teoria alla concreta sperimentazione sociale.
Identità e organizzazione, dice Agostini. Non esiste l’una senza l’altra, così come non esistono i fini senza i mezzi, non esistono i valori senza la forza di farli valere nella realtà storica determinata. Oggi, tutta questa compattezza di pensiero politico si è frantumata, e ogni pezzo va per conto suo, con una dissociazione totale tra la teoria e la pratica, tra il politico e il sociale, tra il collettivo e l’individuale, tra il presente e il futuro. Ma il fatto più grave è che questa dissociazione non è solo subita, ma è voluta, teorizzata, per entrare finalmente nel regno glorioso dove non abbiamo più bisogno delle ideologie, questi vecchi rottami del Novecento, ma solo di una accorta gestione delle nostre individuali convenienze. Siamo passati, così, dal pensiero alla spensieratezza, dalla storia all’effimero.
C’è in questo un rovesciamento non solo politico, ma antropologico, perché l’io narcisistico si vuole affermare contro ogni appartenenza collettiva, ma con ciò la stessa dimensione individuale viene svuotata, perché non c’è l’io senza il noi, e l’individuo lasciato a se stesso finisce per essere del tutto manovrato, senza nessuna forza di resistenza, dalle potenze oggettive della tecnica e del mercato. L’età dell’individualismo trionfante è l’età della dissoluzione dell’autonomia della persona. La politica, che è la capacità di tenere insieme la dimensione individuale e quella collettiva, di offrire cioè alle persone una identità e un orizzonte di senso, si è, in questo senso, del tutto dissolta, e appare essere ormai solo il campo di una competizione senza principi e senza valori, senza che sia più visibile un rapporto tra il destino della politica e il destino della comunità, tra la sfera pubblica e il vissuto concreto delle persone.
Gli appelli alla coesione nazionale, alla stabilità, all’interesse generale, suonano ormai del tutto falsi e patetici, perché è chiaro che dietro queste solenni enunciazioni c’è la difesa, ad oltranza, di un assetto di potere che sancisce le disuguaglianze, di reddito, di status, di dignità, senza che più nessuno metta seriamente in discussione la gerarchia dei poteri. La politica appare solo come la tecnica di manutenzione del sistema. E, fuori dal sistema, ci sono solo velleità di contestazione, di rifiuto, o di moralizzazione, che fanno fatica a trasformarsi in proposta politica organizzata. E così il paese galleggia, sballottato tra i professionisti della governabilità, e i profeti di una futura palingenesi, senza trovare la bussola per una concreta ed efficace azione di rinnovamento del sistema politico e sociale.
Ma a questo punto, proprio perché è questa l’analisi cruda della realtà attuale, mi domando se sia giusto e utile partire dal tema del partito. Con questa mia introduzione, dunque, non voglio solo esprimere tutto il mio apprezzamento per il lavoro di Agostini, ma vorrei aprire una discussione, sapendo che questo è esattamente il suo intento, riaprire il campo di una comune ricerca e rimettere in discussione tutto il processo politico che ha portato la sinistra alla sua attuale condizione di marginalità e di irrilevanza. Dunque, il partito: il partito come architrave del sistema politico, come forza motrice della partecipazione democratica, come potenza organizzata, in cui si condensa tutto un patrimonio di idee e di azioni. Ma la domanda è la seguente: è visibile all’orizzonte una qualche concreta possibilità di rimettere in campo questa idea di partito? Io penso che sia una prospettiva del tutto illusoria, perché il corso delle cose continua a muoversi in una opposta direzione.
Prendiamo il caso del Partito democratico, l’unica formazione politica che abbia ancora mantenuto qualcosa della vecchia struttura di partito. Dove sta andando? Tralascio qui il giudizio politico sull’operazione “larghe intese”, voluta e benedetta dal Presidente della Repubblica, tralascio la troppo facile denuncia dei personalismi, dei correntismi, degli opportunismi, ma cerco solo di vedere qual è la tendenza di fondo. Non si può negare che l’unica vera novità è rappresentata dal sindaco di Firenze, dalla sua spregiudicata campagna propagandistica, dalla forza del suo messaggio, la quale consiste esattamente nel non dire nulla se non: con me si vince. E il popolo della sinistra sembra essere del tutto affascinato da questo nulla. Il PD sta diventando un partito nichilista di massa, dove le idee sono del tutto soppiantate dalla voglia spasmodica di vincere, a qualunque costo, nell’indifferenza per i contenuti, nella totale indeterminatezza dei programmi. La parola d’ordine è l’innovazione, il cambiamento, non importa in quale direzione. L’idea, insomma, è che la sinistra, per vincere, deve liberarsi della sua storia, della sua tradizione, delle sue rigidità teoriche, per mettersi al passo con i cambiamenti del nostro tempo. È questo il punto di approdo di tutta una lunga e spregiudicata manovra di revisione e di rimozione, e al termine di questo processo c’è una sinistra senza identità.
Non so dire se Renzi alla fine vincerà la sua partita, ma questa sembra essere la traiettoria. E in questa traiettoria la parola “partito” scompare, perché c’è solo la fascinazione ambigua di un leader, che parla e non dice, che comunica non la forza delle idee, ma la forza delle sue ambizioni. Accade a sinistra ciò che è già accaduto nell’altro campo. E forse è sensata la previsione che, messo fuori gioco Berlusconi, possa essere Renzi il nuovo profeta. Ma tutto ciò avviene dentro lo stesso campo di gioco, dentro le stesse regole, anche, possiamo dire, dentro lo stesso universo ideologico e simbolico. E il partito politico va definitivamente a farsi benedire, è esso il primo bersaglio della “rottamazione”. Non lo dico in polemica con Luigi Agostini, che so essere del tutto refrattario ad ogni forma di retorica populistica. Ma, questa è la domanda, come si arresta questa deriva? Come si può aprire un diverso scenario?
La mia risposta è un po’ contorta, perché non ci sono soluzioni immediate e sarà necessaria una lunga manovra di aggiramento, per restituire alla dimensione politica, oggi del tutto vanificata, il suo possibile significato. Non è possibile un ritorno, un ripristino di ciò che è andato perduto. Non si tratta di condurre una battaglia di resistenza, ma di concepire la politica come un orizzonte che deve essere del tutto reinventato.
Se oggi le condizioni non sono affatto mature, lavoriamo allora sulle premesse, sui presupposti, sul retroterra che può rendere possibile una ridefinizione del partito politico. Questa manovra non ci dice ancora nulla su quale potrà essere, alla fine, la forma-partito per il prossimo futuro, ma ci dice solo che un partito non nasce dal nulla, o da un gesto volontaristico, ma solo da una operazione allargata di bonifica e di riforma dell’intero sistema istituzionale. Siamo nel mezzo di una vera e propria crisi di sistema, e dalla crisi si può uscire solo con una nuova capacità progettuale, con un ripensamento radicale di tutte le forme della rappresentanza politica e della partecipazione democratica. In sostanza, la forma storica del partito politico si è consumata, e resta aperta la domanda su quali potranno essere nel prossimo futuro gli strumenti di un’azione politica organizzata.
Io indico, schematicamente, tre percorsi di ricerca e di iniziativa. In primo luogo, occorre riportare alla luce il conflitto sociale, nelle nuove forme che esso ha assunto, e occorre lavorare perché si possano costituire soggetti sociali, autonomi e consapevoli, capaci di iniziativa non solo sindacale ma politica. Non c’è sinistra senza un soggetto sociale e senza un ancoraggio nei conflitti e nelle contraddizioni di una società sempre più frammentata e diseguale. La costruzione di questo soggetto non è semplice, perché non può più funzionare la centralità del lavoro operaio nella grande impresa, ma occorre organizzare un campo assai più vasto e articolato, unificando in un progetto comune tutte le diverse forme del lavoro, dipendente o autonomo, tutte quelle diverse energie che oggi sono soffocate dentro una struttura di potere che non riconosce la soggettività del lavoro e la sua autonomia. Penso, in sostanza, che all’antica formula leninista del primato del politico sul sociale, della coscienza di classe che viene importata dall’esterno, si debba sostituire un processo inverso, che va dal sociale al politico, con una maturazione che avviene nel vivo dei conflitti sociali e che via via può raggiungere livelli più elevati di complessità e di consapevolezza. È il sociale che può dettare una nuova agenda alla politica, non l’inverso. L’autonomia del sociale può essere quindi una chiave con cui ripensare il futuro della politica, e questo futuro non potrà che essere il risultato di un movimento di autorganizzazione dei soggetti sociali, facendo così saltare i meccanismi di autoreferenzialità oligarchica che oggi caratterizzano il sistema politico in tutte le sue espressioni.
Le identità politiche sono ormai spente, perché esse non si basano su una analisi e su una interpretazione della struttura sociale, e non sanno quindi entrare in relazione con il concreto pluralismo degli interessi e con la materialità delle diverse e concrete condizioni sociali. La politica è appesa nel vuoto, e la società reale non è rappresentata. Il primo passo da fare è quindi un sistematico lavoro di scavo nel sociale, per farlo riemergere e per riportarlo al centro del dibattito politico.
In secondo luogo, la riconquista della politica presuppone una rivitalizzazione del processo democratico. Mentre nel passato i grandi partiti di massa erano lo strumento dell’allargamento della democrazia, di una mobilitazione democratica di tutti gli strati popolari, oggi assistiamo al processo inverso, con una democrazia che si riduce ai suoi aspetti solo formali e procedurali, con un accento che viene posto esclusivamente sul tema della governabilità, della stabilità, della decisione. Vanno dunque riattivati i canali della partecipazione democratica, sapendo che i partiti politici sono oggi in gran parte canali ostruiti, e cercando quindi nuove forme, nuovi strumenti, avendo comunque come bussola l’idea che la democrazia è il processo inclusivo e universalizzante che apre a tutti, e su tutte le questioni, il diritto di partecipare alla decisione. Alla decisione sul “che cosa”, e non solo sul “chi”, sulle scelte da proporre, e non solo sul leader che ci può rappresentare. Si potrebbe pensare a “primarie programmatiche”, dove il confronto sia finalmente sulle cose, sui progetti, sui diversi modelli di società, dove quindi sono le idee a dover vincere, e non la forza carismatica di un leader, che si tiene le mani del tutto libere sulle cose da fare, come è sistematicamente accaduto in tutti questi anni, a destra e a sinistra.
Il partito politico può riacquistare credibilità se si mette al servizio di un processo democratico allargato, se di quel processo diviene il promotore e il garante, in un rapporto aperto con tutti i diversi movimenti che attraversano la società civile, e nei quali prende forza una nuova domanda di partecipazione. Se all’inverso il partito rappresenta il comando, l’autorità, la decisione dall’alto, la frattura fra istituzioni e società è destinata a divenire irreversibile, aprendo così una crisi drammatica nel funzionamento della nostra democrazia.
Infine, ed è forse questo il punto centrale, c’è bisogno di un pensiero politico, di una cultura, di una visione di insieme con cui interpretare il mondo, le sue contraddizioni e i suoi conflitti. I partiti prendono senso da un orizzonte culturale, in assenza del quale c’è solo il lavorio delle piccole ambizioni personali, e c’è allora, inevitabilmente, un effetto di repulsione e di rifiuto, perché questa competizione non riesce a comunicare nulla alla nostra comune vita collettiva. Ora, tutte le culture politiche vanno ridefinite, aggiornate, alla luce degli straordinari cambiamenti del nostro tempo. Ma la tendenza che è stata vincente in tutti questi anni è quella di una loro generale dissipazione, in nome di un pragmatismo del giorno per giorno. E il quadro politico rispecchia esattamente questo svuotamento delle idee e dei progetti, perché c’è un superiore vincolo oggettivo a cui vanno sacrificate tutte le differenze, vedendo quindi nel conflitto non l’anima della democrazia, ma una forza distruttiva che deve essere estirpata. E senza conflitto, politico, culturale, sociale, è la democrazia stessa che viene del tutto prosciugata.
Da Monti a Letta, ci troviamo in un regime di democrazia sospesa, perché ciò che conta è solo la governabilità, la stabilità, la tenuta del sistema, e non c’è più spazio per la ricerca di possibili alternative. È questa miscela tecnocratica e autoritaria che deve essere rovesciata, e questo rovesciamento è la premessa indispensabile perché possa riprendere senso il discorso politico. Soggettività sociale, partecipazione democratica, cultura politica, sono questi i fondamenti su cui si può costruire un’azione politica rinnovata, che sia capace di coinvolgere le persone, i loro interessi e le loro emozioni. Io penso che questo sia un processo lungo, e che non possiamo attenderci a breve nessuna risposta conclusiva. La politica potrà tornare in campo solo quando avremo percorso tutto questo lungo cammino.
Ma possiamo permetterci questa dilatazione dei tempi? O non c’è piuttosto un’urgenza, una precipitazione della crisi che richiede risposte rapide ed efficaci? È un obiezione seria, a cui però non so dare, per ora, nessuna risposta. Questo scarto temporale, tra l’urgenza del momento e i tempi lunghi di una maturazione politica, mi sembra essere inevitabile. E ciò che maggiormente temo non è la lunghezza del processo, ma piuttosto l’illusione di una mossa tattica azzeccata, di una operazione d’immagine, con l’assillo di tornare a vincere, senza che sia per nulla chiaro su quali valori la sinistra può ricostruire la sua funzione di governo. Basta dire: il partito e non solo il leader, il collettivo e non solo l’individuale? È un punto importante, ma da solo è del tutto insufficiente, perché c’è anche la possibilità di una devastazione collettiva. La crisi attuale della politica non è solo l’effetto della personalizzazione, ma è il risultato di un processo assai più complesso nel quale siano stati tutti, individualmente e collettivamente, coinvolti. E allora, ripeto, dobbiamo ripartire dai fondamenti, senza cercare scorciatoie, e anche senza nutrire l’illusione di un ritorno al passato, di una rivitalizzazione di ciò che è storicamente tramontato. Nel mezzo dello sconvolgimento attuale, dobbiamo muoverci con la pazienza di chi cerca di costruire, faticosamente, e su nuove basi, una nuova dimensione della politica. La riconquista della politica è l’approdo, ma il cammino è ancora tutto da sperimentare.
Agostini è un esperto di arte militare. Ma per vincere basta disporre di un esercito organizzato, o non è piuttosto indispensabile aver chiaro per quali obiettivi dobbiamo combattere? È importante il mezzo, lo strumento, ma esso prende forza dalla chiarezza del fine. Per questo, oggi, mi sembra più urgente trattare del fine prima che del mezzo, del progetto politico, di cui il partito può essere solo lo strumento. Se riusciamo a rimettere in chiaro un nostro progetto di società, alla luce di questo progetto sarà possibile dare una risposta anche al problema degli strumenti e delle forme di organizzazione. Il processo inverso mi sembra destinato al fallimento.
Busta: 9
Estremi cronologici: 2014
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Recensioni
Serie: Cultura -
Note: Bozza
Pubblicazione: Luigi Agostini, “Il pipistrello di La Fontaine. Crisi Sinistra Partito”, Ediesse, Roma, 2013, pp. 11-17