PASSATO E FUTURO DEGLI OPERAI
Postfazione di Riccardo Terzi al libro di Damiano Tavoliere “La chiamavano la Stalingrado d’Italia”
Questo lavoro di Damiano Tavoliere ha in se stesso una grande forza comunicativa, e non ha bisogno di un commento, di una interpretazione, ha solo bisogno di un ascolto, di una attenzione partecipe alle tante voci che fanno la storia, passata e presente, di una comunità, quella di Sesto San Giovanni, che ha avuto un importante ruolo simbolico nella storia politica italiana. L’intento del libro è quello di entrare dentro il mito della “Stalingrado d’Italia”, per coglierne tutta la sua vivente dinamica, per capire di quali processi reali si è nutrito questo mito, che cosa esso rivela e che cosa occulta o travisa, e qual è infine il deposito che esso ci consegna per il futuro.
Le domande sul nostro futuro, sul possibile destino della nostra comunità nazionale, restano del tutto aperte, e sicuramente non potevano rientrare nelle finalità di questo lavoro. E tuttavia queste domande non sono assenti, ma attraversano tutto il libro, coinvolgono la coscienza di sé dei diversi protagonisti, e resta alla fine un grande e irrisolto interrogativo: come trovare un ponte che sia capace di traghettare verso il futuro quell’insieme di energie morali che ha fatto la storia di Sesto? Damiano sembra volerci dire questo: se cercate una chiave per il futuro, ripercorrete il senso di tutta la nostra storia, e rintracciate qui le risorse per andare avanti. Non è una posizione nostalgica, passatista, ma è la coscienza di un preciso nesso storico che va salvaguardato e riattualizzato, senza smarrire il cammino da cui veniamo, senza perdere il senso di una tradizione. Vale per Sesto, ma vale per l’Italia, per questa sua incerta transizione. Vale cioè il principio che l’innovazione è produttiva, è creatrice di una nuova sintesi, solo se non si risolve nella dissoluzione nichilistica di tutto ciò in cui abbiamo creduto, se riusciamo a definirci non solo come quelli che vengono “dopo” (post-fordisti, post-ideologici, post-moderni), ma anche per le radici che continuano ad alimentare il nostro presente.
Sta esattamente qui, in questa complessa elaborazione del rapporto tra passato e futuro, il nocciolo dell’identità, sia individuale che collettiva, e l’identità si sfalda quando non riusciamo più a mettere in relazione i diversi segmenti della nostra vita, e ci troviamo quindi a galleggiare nel presente, in balia degli eventi, senza un criterio per fronteggiarli. Oggi, questo tema dell’identità è cruciale, perché tutti ci troviamo in cammino verso un “dove” che non ci è dato ancora di conoscere, e che deve essere pazientemente esplorato e costruito. Avere un’identità non significa possedere la risposta, ma avere le energie sufficienti per cercarla. È un cammino lungo e accidentato, e per affrontarlo occorre una certa fortezza d’animo. Come sempre accade nelle fasi di passaggio, è la variabile soggettiva che risulta infine decisiva, è il momento in cui servono, ancora una volta, uomini di fede e di combattimento. In questo, la storia di Sesto resta, anche per l’oggi, un punto di riferimento, perché è una straordinaria storia di passioni, di volontà, di idealità, anche di mitologie, che hanno inciso profondamente nella realtà dei rapporti sociali, nella vita collettiva.
Damiano Tavoliere ci rappresenta visivamente questa storia, il suo intreccio umano ed esistenziale, attraverso la voce plurale dei suoi protagonisti, senza mai appiattirsi sul dato meramente sociologico, e senza mai dimenticare che sono gli uomini a fare la storia, entro le condizioni date, nei limiti del loro tempo, ma avendo sempre la possibilità di forzare questi limiti e di aprirsi a nuove prospettive. La storia di Sesto è segnata da questa soggettività creativa e tenace, da questa umanità non rassegnata, che ha cercato di prendere nelle sue mani il futuro, il destino del paese, con uno sforzo insieme di realismo e di immaginazione, ed è una storia corale, dove le figure più rappresentative hanno la loro forza nell’essere espressione di un movimento collettivo, nell’essere ben piantate nella realtà sociale, senza quell’insopportabile narcisismo che caratterizza tanti aspiranti o presunti capi politici. Tutte le testimonianze raccolte da Tavoliere parlano non al singolare, ma al plurale, parlano dei grandi agglomerati (fabbriche, partiti, sindacati, comunità religiosa), in cui si articola la comune appartenenza alla comunità, un’appartenenza fatta anche di conflitti, di tensioni, di lotta politica, ma pur sempre dentro alcune coordinate di fondo unitariamente condivise.
Non è affatto un quadro monocorde, non c’è un pensiero unico, non c’è un’egemonia unilaterale. In questo, il mito della “Stalingrado d’Italia” può essere deviante, perché ci fa perdere di vista questa coesistenza produttiva, fatta di incontri e di scontri, di diversi indirizzi politici e di pensiero. Il libro di Tavoliere ha il grande merito di mettere in evidenza il contributo decisivo che alla storia di Sesto ha dato la componente cattolica, nel sindacato, nell’esperienza sociale delle parrocchie, nella testimonianza dei preti operai, nel lavoro culturale. Ora, ciò di cui abbiamo bisogno oggi, per affrontare le nuove sfide, è che non si perda la vitalità delle diverse culture, delle diverse tradizioni, e che si sviluppi in forme nuove il loro dialogo e la loro collaborazione. L’insidia attuale sta in quella rappresentazione della realtà per cui, con la fine del ‘900, sono crollate tutte le forme ideologiche e sociali che lo hanno innervato, e l’innovazione consistente quindi nello sbarazzarsi di queste forme, per entrare nel nuovo mondo post-ideologico, dove non c’è più spazio per una politica di progetti e di passioni, ma c’è solo l’amministrazione del quotidiano. È di fronte a questa possibile prospettiva che molti di noi avvertono il rischio di una decadenza, di una perdita, di uno svuotamento della politica. Ma questo esito, che non è un destino irreparabile, può essere scongiurato solo se ci mettiamo seriamente a lavorare sul futuro, sui progetti da mettere in campo per il domani, sulle idee-forza di una possibile riforma sociale, senza farci inchiodare in una posizione rivolta solo al passato, senza essere sovrastati dal peso delle forze di inerzia. La nostra storia non deve essere un ingombro, un peso, ma uno stimolo a guardare in avanti e a riprendere il cammino, con nuovo slancio e nuova freschezza di idee.
È questo il passaggio difficile che deve essere affrontato. È questo il tema che hanno di fronte i nuovi dirigenti di Sesto, chiamati a gestire una situazione del tutto nuova, con un panorama sociale e produttivo del tutto trasformato, chiamati quindi a costruire una nuova prospettiva, nuova ma coerente con tutta la storia che abbiamo attraversato. Il libro di Tavoliere può essere, così, lo stimolo, l’occasione per un confronto aperto e per una discussione che si misuri con le difficoltà e con le contraddizioni del presente. Io ho voluto solo, con queste note conclusive, esprimere a Damiano la mia sintonia, la mia condivisione, il mio essere partecipe della sua fatica, che è nata anche dalla nostra comune amicizia e da un intenso scambio, culturale ed umano.
Busta: 9
Estremi cronologici: 2009
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Note: Bozza
Pubblicazione: Damiano Tavoliere (a cura di), “La chiamavano la Stalingrado di Italia. Sesto San Giovanni, la città delle fabbriche”. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 69-72