DOVE VA IL “NUOVO CORSO”?
Risposte da cercare per una grande politica
di Riccardo Terzi – Segretario Generale CGIL Lombardia
Stanno venendo alla luce diverse linee interpretative del “nuovo corso”. Ed è bene, per la necessaria chiarezza del dibattito politico, non occultare l’esistenza di questa divaricazione. Nella discussione storico-ideologica sull’esperienza comunista, su Togliatti, sullo stesso nome del PCI, questa diversità di prospettive è affiorata, ma in forma solo indiretta, allusiva, ambigua. Occorre una traduzione nel linguaggio della politica concreta, perché sta qui, a me pare, la sostanza dei dilemmi che dobbiamo sciogliere.
Il punto centrale mi sembra essere questo: la “svolta” del congresso, il nuovo tipo di intreccio tra democrazia e socialismo, la “contaminazione” di pensiero marxista e di pensiero liberale, la centralità assunta dal tema dei diritti, tutto ciò può essere inscritto in un orizzonte di tipo moderato, o di tipo radicale. Uso questi termini un po’ consunti, che possono comunque funzionare, in prima approssimazione. Non è un caso che nella discussione sia ricorrente il tema del radicalismo, da taluni paventato come un pericolo di degenerazione del partito, della sua funzione nazionale e di governo.
Radicalismo e movimentismo sarebbero gli ultimi prodotti di un vecchio schematismo ideologico, i colpi di coda di una ideologia ormai morta. Il PCI deve fare questo ultimo passo: liberarsi di ogni velleità di “trascendenza” del reale, sgombrare il campo da ogni idea di alternativa che possa apparire “di sistema”, e stare tutto dentro la concretezza della politica. Se vengono diradate le nebbie ideologiche, se si accantona la ricerca di improbabili e fumose “terze vie”, allora la ricomposizione unitaria della sinistra è immediatamente a portata di mano.
È questa la linea di marcia del nuovo corso? Se non ho preso un abbaglio, l’ultimo congresso del PCI si è mosso in una ben diversa direzione. L’idea-guida della democrazia come via del socialismo non significava un’operazione di “rientro” nella via maestra del riformismo occidentale, ponendo fine alla tragica deviazione storica delle utopie comuniste, ma indicava piuttosto una sfida, per noi e per tutta la sinistra, a ripensare radicalmente il tema della democrazia, ad aggredire, con il metro di una concezione democratica conseguente, tutte le strutture di potere, a rovesciare quindi la tendenza in atto verso un potere politico irresponsabile e verso un’organizzazione economica oligarchica.
In questo senso, la discontinuità, lo sforzo di innovazione della nostra tradizione politica, ha anche il valore di una riscoperta delle nostre radici più profonde. Si tratta di riattualizzare una lettura critica dei processi sociali e politici, e di agire dentro le contraddizioni della società complessa non in modo neutro, ma facendo valere l’autonomia di un punto di vista di classe che non si adatta alla falsa oggettività delle attuali forme di dominio. Il tema del conflitto sociale può essere assunto, in questo quadro, come un utile punto di osservazione, che consente di selezionare le diverse strategie politiche. Possiamo dare per acquisite le trasformazioni che il conflitto ha subìto, i suoi caratteri di “trasversalità”, in quanto non può più essere tutto ricondotto all’antagonismo classico di capitale e lavoro.
La dimensione del conflitto sociale è oggi multilaterale, perché la struttura di potere investe non solo gli aspetti economici e distributivi, ma coinvolge in modo sempre più pervasivo l’intera organizzazione sociale e anche la sfera della vita soggettiva e dei rapporti interpersonali, perché in sostanza, ci troviamo a doverci confrontare con un progetto di egemonia guidato dalla grande impresa capitalistica. Ora, di fronte al conflitto sociale, in questa sua più vasta accezione, sono possibili diversi atteggiamenti politici.
Il politico “moderato” cerca di neutralizzare e di prevenire il conflitto, e intende la politica come arte della mediazione. Il politico “radicale”, all’opposto, lascia agire il conflitto in quanto forza dinamica che può produrre una sintesi nuova, e pensa la politica in questo suo rapporto fecondo con i movimenti reali della società. Sono due scenari diversi, e dall’opzione politico-strategica che si compie dipende tutto il rapporto tra sinistra politica e sinistra sociale, tra partito e movimenti.
Penso anzitutto al sindacato, la cui autonomia progettuale può dispiegarsi, in rapporto non subalterno rispetto ai partiti politici, se il sistema politico lascia aperti degli spazi all’iniziativa sociale, se non prevale una concezione totalizzante del primato della politica. In ogni caso per il movimento sindacale, se si vuole evitare un’involuzione di tipo corporativo, è essenziale poter operare dentro un orizzonte politico di trasformazione sociale, dentro una linea strategica che valorizzi il dinamismo e le potenzialità del conflitto.
Penso inoltre al movimento delle donne, che ha assunto in modo assai marcato una caratteristica di radicalità, che ha concepito la differenza di sesso come un terreno di conflitto, e che pertanto può acquistare forza solo attraverso una battaglia politica che mette in discussione l’intero ordinamento sociale, la sua scala di valori, le sue strutture di dominio.
E allora, che senso ha la polemica contro il movimentismo? In una situazione in cui i movimenti si presentano ancora gracili, come potenzialità non ancora pienamente espresse, in cui faticosamente sta crescendo un moto culturale di reazione all’ideologia neoliberista dominante, in questa difficile fase di trapasso il nuovo corso deve essere una grande operazione di apertura, di stimolo alla ricerca critica, di costruzione di un’alternativa che fa riemergere la sinistra sommersa e che costruisce un ponte tra la politica e il vissuto concreto degli individui; come hanno cominciato a fare le donne comuniste, che hanno per molti aspetti anticipato i lineamenti del “nuovo corso”.
In questo contesto acquista un senso anche la discussione più propriamente ideologica. Un’intera fase storica dell’esperienza comunista si sta chiudendo, in modo drammatico, e ciò rimette in discussione tutto un impianto di cultura politica che ha segnato la storia del movimento operaio. Nel momento in cui respingiamo gli esiti di un intero processo storico, i risultati di tutta l’esperienza che ha preso le mosse dall’ottobre sovietico, non solo nelle sue degenerazioni di tipo staliniano, ma nei suoi stessi fondamenti teorici che avevano in sé intrinsecamente un potenziale autoritario, dobbiamo allora rispondere a questo semplice e fondamentale interrogativo: hanno ancora un senso le domande da cui è sorto il movimento comunista? Ha senso discutere di alienazione, di superamento di un modello di società mercificata, ha senso la ricerca di una nuova dimensione della politica che superi l’opposizione di governanti e di governati, ha ancore un senso, in sostanza, guardare ad un possibile futuro di liberazione dell’uomo?
Se tutto ciò non ha senso, la nostra storia è un gigantesco errore, e la nostra stessa esistenza di partito è un’anomalia da rimuovere.
Non è, come si vede, una questione storica, da affidare agli studi disinteressati degli esperti, ma è questione politica attualissima che riguarda il profilo politico e l’identità del partito. Quado si dice che ogni tentativo di motivazione “ideologica” del nome che portiamo, di Partito comunista, è una ricaduta inaccettabile e fuorviante nella mitologia, che solo ragioni storiche ormai definitivamente superate ci consegnano questo nome scomodo, inattuale, anacronistico, si dice che il comunismo è morto non solo come esperienza storica, ma come domanda, come ricerca, come pensiero critico, come tensione ad un futuro, da costruire.
Noi dobbiamo sicuramente rifare l’inventario di tutto il nostro patrimonio, e liberarci con decisione dalle zavorre, dai detriti. Ma a chi ci dice, come Bobbio, per «andare dove?» dobbiamo pure una risposta. Una risposta di strategia e di teoria politica. E nell’intrico confuso dell’ideologia, così carico di elementi emotivi e di mitologie occorre affondare la nostra analisi razionale per ricostruire un nucleo teorico non mistificato. L’ideologia agisce ancora come un peso che ci impedisce di guardare con occhi sgombri alla realtà attuale. Ma nel contempo rischiamo di finire, senza strumenti di difesa, nella palude della nuova ideologia dominante che; consiste nella predicazione della fine delle ideologie, il che significa che non ha più legittimità qualsiasi interrogativo sui fini, sulle mete dello sviluppo sociale. Resta solo la politica come tecnica, come strumento neutro di governo. Ho cosi allargato il discorso, perché temo che nello sforzo di revisione critica e nell’inseguimento di una linea di grande realismo politico, ai di là dei miti, ci si ritrovi esattamente nel punto dove la nostra legittimazione è possibile proprio in quanto essa è ormai insignificante. Nel punto dove non sono più in questione valori alternativi. In opposizione a questo possibile esito desolante si ripropone a noi il problema, che fu di Togliatti, di costruire un intreccio di politica realistica e di finalità storica, un intreccio di mezzi e di fini. Il punto, infine, si riduce a questo, al di là di tutte le dispute ideologiche: siamo o no in grado di costruire una grande politica?
Busta: 8
Estremi cronologici: 1989, 8 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Versione a stampa di bozza , sostanzialmente identico ma mancante di una postilla aggiuntiva presente in bozza.
Pubblicazione: “L’Unità”, 8 ottobre 1989