L’OPACO CONCETTO DI SINISTRA
di Riccardo Terzi
Non si può seriamente indagare la crisi attuale della sinistra, in Italia e in Europa, se non la inquadriamo nel tema più generale del destino della politica. Il concetto di sinistra appare attualmente come un concetto opaco perché è la stessa dimensione della politica che è divenuta problematica. Una discussione tutta tesa solo a individuare errori tattici o responsabilità dei gruppi dirigenti ci porta fuori strada, perché tutto ciò riguarda solo il lato superficiale di un processo che ha cause più profonde. Dobbiamo saper risalire alle domande fondamentali, al di là delle contingenze politiche immediate, dobbiamo cioè conquistare un punto di osservazione che ci consenta di interpretare la realtà in movimento e la sua dinamica.
Fulvio Papi ci propone di pensare la politica secondo la categoria dell’invenzione, con un approccio di tipo sperimentale che ci rimanda alla grande tradizione umanistica di Machiavelli e di Leonardo da Vinci: «un saper fare per realizzare uno scopo, secondo una pluralità di relazioni e di saperi contingenti, dominabili da un’esperienza più o meno elaborata, ma non riducibile nell’ambito di una teoria».
La politica come invenzione, come pratica sperimentale, esclude due estremi. Esclude la possibilità di una teoria totalizzante che assicuri l’accesso alla verità del processo storico. La politica attiene al campo del relativo, non dell’assoluto; ha a che fare non con la verità, ma con l’efficacia, non con la filosofia come ricerca del vero, ma con l’ideologia come forza materiale che organizza l’azione collettiva in vista di un fine. Occorre dunque lasciare definitivamente cadere ogni filosofia della storia, ogni pretesa di inquadrare la politica in un disegno di pura razionalità.
Sull’altro versante, si esclude anche la riduzione della politica a mera tecnica procedurale, all’interno di un sistema codificato e fissato una volta per tutte nelle sue regole e nei suoi valori. La politica non si esaurisce nella gestione dell’esistente, ma inventa nuove possibilità, e rappresenta quindi sempre uno scarto, un movimento di rottura rispetto all’assetto sociale contingente. Essa offre ai comportamenti umani un orizzonte di senso, che trascende l’immediatezza del calcolo egoistico. È invenzione in quanto è progettazione di un futuro possibile, non come utopia, ma come possibile combinazione dei dati della realtà e dei rapporti di forza. Ciò vale per qualsiasi impresa politica che abbia una sua forza di mobilitazione, a prescindere dal giudizio intorno alla validità dei suoi obiettivi. Anche le politiche di destra non sono solo forza di inerzia e di conservazione, ma azione collettiva in vista di un determinato obiettivo storico. Così è stato in tutta la storia del novecento, a destra come a sinistra, con molti elementi di mistificazione, certo, con l’attivazione anche di elementi irrazionali e mitologici, ma, come è noto, l’ideologia non ha bisogno di essere vera per essere efficace.
La politica si configura quindi come uno spazio intermedio, come una frontiera sempre mobile e modificabile, tra i due estremi dell’utopia perfetta e dell’adattamento passivo, della verità e dell’accecamento. È un processo in divenire che non conosce mai punti di arrivo definitivi. La domanda attuale è se questo spazio sia ancora oggi disponibile, se la dimensione politica abbia ancora un ruolo centrale nelle nostre società contemporanee. Se la sperimentazione politica è apertura verso nuove possibilità, è trascendenza, questo movimento è ancora possibile nelle condizioni del mondo attuale? È la domanda che si è posta Giuliano Amato nella sua relazione al recente convegno dell’Eliseo, ed è una domanda davvero cruciale. Il processo storico sembra avviarsi, dopo la caduta delle grandi rappresentazioni ideologiche, verso un assetto di totale immanenza, nel quale conta solo il gioco degli interessi immediati e dei conflitti individuali. Cito ancora Papi: «Se ciò che costituisce il mondo è solo l’insieme delle prassi dominate dallo scambio economico, se non c’è alcuna etica possibile che valichi questa immanenza, appare del tutto ovvio che non esiste alcuna necessità di inventare la politica».
L’attuale processo di globalizzazione sembra avere esattamente questo segno, l’unificazione del mondo sotto il dominio della necessità, la cristallizzazione definitiva di un ordine economico che non ammette alternative. È la politica allora ad esserne schiacciata. La politica vive contemporaneamente nello spazio dell’immanenza e in quello della trascendenza: è ancorata nella realtà, è valutazione realistica della situazione data, e nello stesso tempo è iniziativa, invenzione, che forza i limiti della realtà costituita. Se c’è solo trascendenza, non c’è politica, ma misticismo. Se c’è solo immanenza, c’è la mera riproduzione dell’esistente, il meccanismo inerziale di una società ormai appagata e incapace di interrogarsi sul futuro.
L’esito che si viene preparando, dopo la grande stagione politica del novecento, è questo processo di spoliticizzazione, di appiattimento sull’esistente, è una condizione umana interamente scandita secondo i meccanismi della necessità? Sì e no. Sì, perché indubbiamente questa tendenza agisce con estrema forza, in tutto il corpo sociale, e sta determinando un movimento di corrosione e di destrutturazione delle identità politiche. Ma in questo stesso processo sono potenzialmente presenti contraddizioni e nuove possibili dinamiche, e nulla ancora può essere escluso.
La società individualizzata, governata solo dalla logica della competizione, esclude dal suo orizzonte la politica, in quanto esclude ogni rappresentazione che non sia l’immediato rispecchiamento della realtà. La società non ha dimensione politica perché non è posto il problema della forma sociale, della forza regolativa che istituisce la comunità, e la società stessa è solo il dato naturalistico della sommatoria delle prassi individuali.
In realtà questa autorappresentazione della società secondo le categorie di un individualismo naturale è a sua volta una costruzione ideologica. Come osserva Fulvio Papi: «in quella che è stata definita come l’epoca della fine delle ideologie, si diffonde l’ideologia più potente che si possa immaginare, quella che si identifica con la realtà».
Non siamo in presenza di un processo di liberazione dai fantasmi del mito, ma di una mitologizzazione della realtà data, di una sublimazione ideologica dell’immediatamente naturale. Nessuno scarto è più ammesso tra reale e ideale, nessun superamento della realtà è più consentito, e ci troviamo quindi in una gabbia senza vie di scampo. Il risultato di questa traiettoria è una società di tipo animalesco, la quale non fa che riprodurre all’infinito i suoi interni meccanismi. Il mondo umano può solo essere osservato secondo le sue immutabili leggi naturali. Non se ne occupino i politici e gli ideologi, ma i naturalisti. È questa una traiettoria solo possibile, non un destino. Ma la novità politica è nel fatto che la destra attuale, in Italia forse più che altrove, si affida alla forza oggettiva di questa tendenza, e agisce come elemento di rappresentazione e di stabilizzazione di una società totalmente individualizzata, e per ciò totalmente spoliticizzata.
La forza della destra, oggi, è tutta costruita su questo meccanismo di identificazione con le tendenze spontanee della società. Non è la forza di un progetto, ma la forza della passività. C’è qui una differenza di fondo rispetto ai movimenti reazionari del novecento, i quali pensavano di forgiare un nuovo mondo, un mondo di feroce dominio oligarchico, ma pur sempre un mondo politico. Per questo, è del tutto sviante l’analogia con il fascismo, o la denuncia di un incipiente regime. Ciò che oggi accade non è l’instaurazione di un dominio politico, ma la dissolvenza della politica e la completa privatizzazione delle relazioni sociali. Di fronte a ciò, il problema è solo quello di capire se è possibile, e come, un diverso corso delle cose, se nella realtà stessa sono presenti le condizioni e le forze reali per spezzare questo circolo chiuso.
Se ci si ferma alla denuncia morale, non si fa molta strada, perché essa non produce di per sé nessun processo politico. E oggi molti sembrano essere tentati, nella sinistra, dalla prospettiva di un’opposizione che si illude di essere più forte solo perché è più passionale, più gridata, tutta giocata sul terreno dell’indignazione. E il fuoco dell’indignazione tende inevitabilmente a sbagliare bersaglio, perché, in assenza di un’analisi, si usa tutto l’armamentario degli argomenti retorici disponibili, i quali si riferiscono a tutt’altra situazione storico-politica.
Potremmo prendere come modello il metodo di Togliatti nelle famose Lezioni sul fascismo del 1935: un’analisi fredda e oggettiva, che individua i punti di forza e di debolezza del blocco sociale su cui si regge il dominio fascista, gli elementi di consenso e di contraddizione. Mi riferisco, come è ovvio, solo al metodo di indagine politica, e non ad una equiparazione storica tra l’Italia degli anni trenta e l’Italia di oggi, la quale offre al nostro sguardo una situazione del tutto inedita. Ma le questioni di metodo non sono affatto secondarie, in politica come in altri campi. L’invenzione politica non è un atto di arbitrio, di pura immaginazione creativa, ma è la scoperta di possibilità che sono insite nella realtà storica oggettiva, e che pertanto devono essere indagate con un approccio di tipo scientifico, senza interferenze emotive.
La politica lavora con il materiale umano che c’è, e deve trovare all’interno di questo materiale i punti di appoggio per la sua iniziativa. Se questi punti di appoggio non ci sono, la politica finisce per essere una predicazione inconcludente.
Questo è oggi il problema della sinistra: dare un fondamento strategico alla sua iniziativa, intendendo la strategia come la capacità di spostare i rapporti di forza e di intervenire dentro i processi reali, volgendo a proprio vantaggio la dinamica oggettiva dei cambiamenti che nella società si producono. È strategicamente vincente solo chi sa interpretare meglio la realtà e indirizzarla secondo i suoi fini. Ma è proprio questo orizzonte strategico che oggi è del tutto assente. La sinistra appare solo come un’istanza di carattere morale, come la dimensione dell’etica contro la società degli egoismi e contro le prevaricazioni del potere. Su queste basi, si può fare una nobile opposizione, ma non si rovescia il corso delle cose. È compito dell’analisi politica vedere se nella realtà effettuale, e non nei nostri desideri, sono aperte delle contraddizioni, delle linee di conflitto, sulle quali si possa innestare una determinata iniziativa politica.
Mentre nel passato, nella società organizzata secondo il modello fordista, le linee del conflitto erano chiaramente tracciate ed erano disegnate lungo i confini delle classi sociali, avendo il loro epicentro nei luoghi della grande produzione capitalistica, oggi questa linea divisoria appare come spezzata, fatta di tanti segmenti non riducibili ad unità, configurando così un sistema di relazioni sociali assai più complesso e intrecciato. La società individualizzata tende a dissolvere le identità collettive, i blocchi sociali, i conflitti di classe, in una struttura di tipo molecolare. Ma la contraddizione, con ciò, non è eliminata, ma è solo spostata: essa investe, dentro i processi di individualizzazione, la stessa relazione tra individuo e comunità, tra libertà individuale ed esigenza non soppressa di una comune appartenenza sociale.
A ben guardare, dunque, si tratta di una contraddizione più pervasiva, più diffusa, che mette in questione non solo la struttura produttiva, ma l’intero modo di funzionamento e di organizzazione della società. Individuo e comunità, libertà e solidarietà, non sono i termini di un’alternativa, di una contrapposizione, ma di una relazione essenziale, e vanno quindi pensati nel loro nesso. L’individuo si può pienamente realizzare, come afferma anche la nostra Costituzione, solo nella ricchezza delle sue relazioni sociali, e il processo che viceversa isola l’individuo, lo privatizza, frantuma le sue relazioni, non ha un esito di liberazione, ma di asservimento a forze oggettive che non può controllare. L’individualismo, alla fine, si rovescia nel suo opposto, nel dominio di forme di vita anonime e livellatrici. È la dialettica di communitas e di immunitas messa in luce negli studi di Roberto Esposito: le barriere difensive erette per proteggersi dal rischio esterno finiscono per distruggere ciò che si intende proteggere. Così, l’individuo chiuso nella sua rete protettiva, che rifiuta il rapporto con l’altro, ottiene solo il risultato di spegnere le sue energie vitali.
Destra e sinistra si differenziano proprio su questo nodo di questioni: società atomizzata, regolata dai meccanismi della competizione individuale, o costruzione politica di uno spazio pubblico come spazio di relazioni, di interscambio, nel quale si istituisce la dimensione della polis.
In questo senso si ripropone, in forme nuove, la centralità del lavoro, perché è il lavoro la mediazione concreta di individuo e società, il luogo della realizzazione di sé come soggetto sociale, il fondamento della cittadinanza. Ma, in questa accezione, la figura del lavoro è una figura socialmente larga, che include l’attività umana nelle sue diverse forme, e non si esaurisce quindi nello schema tradizionale del conflitto di classe. Il lavoro è insieme il luogo della relazione e il luogo dell’autonomia, della possibilità cioè di dominare la complessità sociale e l’incertezza che le è connaturata. Il passaggio da costruire è il superamento di ogni forma di lavoro servile, di precarizzazione, per realizzare una condizione di autonomia, il che implica conoscenza, responsabilità, e partecipazione alle decisioni. In sostanza, il conflitto che è aperto attraversa trasversalmente l’intero corpo sociale. Non è solo un conflitto di potere che oppone una parte all’altra, ma è l’alternativa che si apre tra diversi modelli sociali, tra opposte forme di vita.
Si apre così un vasto possibile campo di iniziativa, vasto proprio perché non si rivolge solo ad una parte, ma all’intera società. Si tratta cioè di mettere concretamente in relazione le ragioni della libertà individuale e quelle della comunità, di costruire la comunità contro le spinte dissolutive e atomistiche, e di costruire l’autonomia della persona contro i meccanismi di alienazione. È questo un terreno tipicamente riformista, sia in senso storico, perché l’atto di nascita del riformismo è nella costruzione di una vasta rete sociale, di solidarietà, di cooperazione, di lavoro collettivo, sia perché riformare significa propriamente restituire forma alle relazioni umane, dare alla società un ordine, una connessione, una regola condivisa. Tramontate le illusione messianiche, che si affidano ad un futuro radicalmente altro, all’aspettativa di una società che nasce ex novo, il riformismo resta l’unico significato possibile della politica.
Ma esso va rimotivato, va liberato da una storia politica che l’ha rattrappito e deformato, facendo sì che nella coscienza collettiva riformismo significasse politica delle mezze misure, adattamento, compromesso con i poteri forti, azione sempre indecisa, minimale, e perciò inefficace. Ciò è vero particolarmente in Italia, per l’uso che del riformismo si è fatto, come di una copertura ideologica per politiche di galleggiamento e per le ambizioni disinvolte di qualche leader di passaggio, Ancora oggi, l’immagine che la politica trasmette è quella di un travestimento che nasconde un gioco di potere fine a se stesso. Il riformismo, se resta schiacciato dentro questa logica, perde ogni forza di mobilizzazione, diventa solo il luogo di una gestione tecnica, che perde di vista le domande fondamentali.
Questa situazione va totalmente ribaltata, rifiutando l’identificazione di riformismo e minimalismo. Una politica riformista può essere rilanciata solo nel momento in cui essa sa affrontare le questioni vitali della nostra esistenza e sa offrire un nuovo orizzonte di senso alla nostra vita collettiva. In sostanza, il suo tratto distintivo non è quello di una riduzione della domanda, ma è quello di impegnarsi a fondo in una risposta che eviti la fuga nell’immaginario e nel mitologico. Il suo terreno è appunto quello dell’invenzione politica, nel senso prima descritto, come pratica piantata nella realtà e capace di oltrepassarla.
Ora, il problema è se nella società attuale c’è una domanda politica, anche se inespressa e solo potenziale, o se all’inverso siamo avviati verso la dissoluzione di qualsiasi legame sociale e verso una condizione di appagamento, di piena coincidenza dell’essere e della coscienza. Se seguiamo il filo del discorso prima accennato, circa la dialettica di individuo e comunità, possiamo dire, credo, che la società è solo apparentemente appagata, ed è nel suo fondo inquieta ed incerta del suo futuro. Non si tratta solo delle aree più deboli ed emarginate, ma del corpo sociale centrale, per il quale l’appagamento viene messo in crisi dalle incognite di un futuro che non si sa controllare. Non è certo casuale la fortissima sensibilità sui temi della globalizzazione, perché la società globale che si viene organizzando spiazza tutte le nostre certezze acquisite e ci costringe ad un riposizionamento, ad una nuova interpretazione del nostro rapporto con la realtà. È dunque una società sospesa, tra l’acquisizione di un determinato status di benessere e il senso di fragilità di tale condizione, tra l’impulso egoistico immediato e il bisogno di un più forte fondamento sociale.
La destra interpreta questa società solo nel suo lato più superficiale, e ne asseconda le tendenze individualistiche più elementari, ma non sa rispondere alle domande più profonde. Nella sua forza c’è dunque un punto di debolezza. Per cogliere questa debolezza, e farla venire alla luce, occorre evitare l’errore di chiuderci nelle nostre trincee e di vedere tutto quello che sta fuori come un nemico. Si vince solo se c’è la capacità di parlare al paese e di individuare le risposte che esso sta cercando. Ciò di cui abbiamo bisogno è il contrario dello spirito di setta, del fondamentalismo, dello scontro frontale tra due mondi che non sanno più comunicare. Imboccare questa strada significherebbe preparare la definitiva disfatta. Invenzione politica è saper scompaginare gli schieramenti e rimettere in moto ciò che sembra essere cristallizzato, è appunto scoprire e sperimentare un nuovo campo di azione. La sinistra oggi non ha questa larghezza di visione, e sembra prevalere, allo stato attuale, una logica di radicalizzazione, e finiscono così sotto accusa proprio quei dirigenti che a questa logica hanno tentato di sottrarsi. Ma alla lunga questo nodo politico dovrà pur essere affrontato, e si dovrà passare dalla propaganda all’analisi politica e alla definizione di una strategia.
Se la strategia oggi necessaria ha essenzialmente un carattere comunicativo, perché si tratta di parlare all’intera società e di interpretare gli interrogativi, risalta allora come centrale il problema degli strumenti della comunicazione, e risalta quindi come un serio punto di debolezza il fatto di non aver approntato i mezzi tecnici per una efficace comunicazione di massa.
Quando si parla di comunicazione, l’attenzione va normalmente al solo strumento televisivo. E si arriva alla conclusione che la destra vince, perché si avvia ad ottenere il controllo totale di questo strumento. In realtà, la televisione non è un mezzo di comunicazione, ma è solo un mezzo di rappresentazione e di spettacolarizzazione della realtà. Essa gioca sempre in un senso conservatore, perché non aiuta a formulare le domande, ma offre risposte preconfezionate, non costruisce un dialogo, un pensiero critico, ma è solo il veicolo attraverso il quale ciò che c’è si autorappresenta e si autogiustifica. Ci si inquieta oggi per il controllo politico sulla Rai, mentre sarebbe stato meglio vedere per tempo con inquietudine il degrado dell’informazione pubblica, quando forse era ancora possibile tentare di farne qualcosa di diverso.
Ma, soprattutto, non si tratta solo di un problema tecnico, di accesso agli strumenti della comunicazione e di loro utilizzo. La questione di fondo non è il come dire, ma il che cosa dire. Oggi tutti sembrano essere preoccupati solo del primo aspetto, e non è un caso che il come dire sia divenuto un ossessivo intercalare del linguaggio politico. Come dire che cosa? Se non si dice nulla, è solo la tecnica che decide, è il saper dire con più forza persuasiva questo nulla. Non ha detto nulla, ma l’ha detto bene: è questo il caso di molti dei più accreditati esponenti politici. In questo clima cresce la diffidenza per la politica, non del tutto immotivata, perché si ha l’impressione di un gioco truccato, di un discorso retorico, di frasi fatte, di un rapporto con la società fatto di corteggiamento e di aggiramento, di false promesse e di verità non dette. Occorre spezzare questa rete, e cercare di porre, con chiarezza, i problemi fondamentali che riguardano la nostra vita: libertà individuale e comunità, idea di giustizia, diritti e doveri, regole della vita collettiva. La politica, per tornare ad essere un’esperienza dotata di senso, passa necessariamente da qui, dall’apertura di un dibattito pubblico che si occupi non solo dei mezzi, ma dei fini.
Con una novità decisiva rispetto al recente passato, perché questa discussione ormai è improponibile e insolubile se non avviene nel quadro mondiale, nel contesto della società globalizzata. Tutto deve essere ridefinito su una scala più larga. E per questo il passaggio cruciale è la costruzione politica della nuova Europa: l’Europa non come retorica, come un nuovo mito che si sovrappone al mito nazionale, ma come il campo nel quale tutti i problemi sono messi alla prova: il lavoro, la sicurezza, la coesione sociale, le politiche di sviluppo, la cittadinanza.
L’Europa, quindi, come la costruzione di un nuovo ordinamento politico, dopo che le vecchie strutture di governo della società sono andate in frantumi. La politica è l’istituzione della polis, e oggi questo problema non si risolve nelle piccole cerchie del localismo, ma con un progetto di più largo respiro, con una nuova invenzione politica e istituzionale. Se invece prevale la piccola rissa per il potere, tra leader veri o presunti, tra partiti che sono spesso solo le ombre di un passato, si produce necessariamente passività e spoliticizzazione. Ed è sulla passività che la destra costruisce le sue fortune.
Busta: 8
Estremi cronologici: 2002, maggio-giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, maggio-giugno 2002, pp. 29-36