PROTAGONISTA NELLA SOCIETÀ
di Riccardo Terzi
Già prima delle elezioni avevo guardato con un certo sospetto alla retorica dell’andare da soli, e avevo parlato di una «solitudine troppo rumorosa». Il dubbio, lo voglio ancora una volta chiarire, non riguardava la tattica elettorale, ma il modo di prospettare il futuro della politica, l’idea di una rottura, di uno strappo con tutta la nostra storia, l’autorappresentazione del PD come assoluta discontinuità, come una ripartenza che deve necessariamente recidere tutti i legami del passato. La scelta solitaria diviene così qualcosa di più di una necessità tattica, diviene il modo di essere del partito.
Ciò che non mi convince è la riproposizione del mito di un «nuovo inizio», per cui tutte le culture politiche novecentesche finiscono nel deposito degli attrezzi ormai inservibili, e ci si avventura finalmente in un cammino del tutto inedito. Quante volte lo abbiamo sentito questo ritornello retorico? Quante svolte epocali abbiamo compiuto in un breve lasso di tempo? Stava proprio qui, in questa ansia avventurosa di voltare pagina, di scrivere un nuovo capitolo della storia, il limite e la fragilità della «svolta» di Occhetto. E periodicamente questa illusione ritorna, l’illusione di essere gli esploratori di un nuovo mondo. Ma, in assenza di una solida elaborazione culturale, si tratta solo di fantasie, di stati d’animo, di velleità. A qualcuno possono anche piacere le suggestioni del sogno, ma quando si sogna vuol dire che si è perso il controllo della realtà. Alla realtà subentra il mito, e ci si illude di essere gli unici capaci di decifrarne il senso, capaci di «andare oltre», oltre le ideologie e le appartenenze del passato. Questa attitudine spirituale ha avuto un nome nella storia culturale, si è chiamata futurismo. Ma, come si sa, l’inquietudine innovativa dei futuristi non ha potuto produrre nulla di duraturo sul terreno politico, e dei miti della modernità si sono impadroniti, da destra o da sinistra, i sistemi dispotici del Novecento. Non voglio dire, con questo, che siamo oggi alla vigilia di una nuova precipitazione autoritaria, ma solo che è sempre rischioso, in politica, sostituire l’analisi storica concreta con l’immaginazione e con l’utopia.
Ma veniamo all’attualità di questo dopoelezioni. I fautori della «solitudine» dovrebbero essere soddisfatti, perché sono riusciti a produrre un deserto. Ma questa estrema semplificazione del sistema politico può essere considerata come una risorsa per la futura strategia del PD? Ci siamo finalmente liberati di una concorrenza fastidiosa, e ora possiamo finalmente mettere in campo, senza intralci, la nostra «vocazione maggioritaria»? Nessuno, naturalmente, enuncia questa tesi con questa brutalità. Ma ho l’impressione che essa sia presente in una parte del gruppo dirigente.
È questo un punto politico che deve essere messo in chiaro. Quale posizione assumiamo verso la sinistra cosiddetta radicale? La lasciamo andare alla deriva, o cerchiamo di riannodare i fili di un discorso comune? Quando, ad esempio, si propone di introdurre una soglia di sbarramento anche per le elezioni europee, è legittimo il sospetto che si voglia dare alle formazioni che stanno alla nostra sinistra il definitivo colpo di grazia. Senza che ci sia, in questo caso, una motivazione funzionale, perché le strutture di governo dell’Europa non hanno una legittimazione parlamentare, e quindi non c’è nessun rapporto tra governabilità e frammentazione politica. E allora perché, proprio ora, introdurre questo argomento?
E anche a livello locale abbiamo avuto alcune dichiarazioni del tutto improvvide sulla necessità di una coerenza con l’impostazione nazionale, il che vuol dire liquidare quel poco che resta di una collaborazione a sinistra. In realtà, c’è ancora un tessuto unitario importante, nelle amministrazioni locali, nel sindacato, nell’associazionismo. E da qui è possibile ripartire, per ricostruire, su basi più solide, una prospettiva di governo. Io penso che questo vuoto di rappresentanza che si è determinato (dalla Sinistra arcobaleno al Psi), sia un dato molto negativo e pericoloso, perché può spingere queste forze sul terreno scivoloso di una contestazione globale e pregiudiziale, e può produrre nello stesso tempo posizioni di abbandono e di sfiducia. C’è insomma un’area politica, che ha una sua storia e una sua cultura, che rischia di implodere e di frantumarsi, disperdendo un patrimonio importante di energie e di passioni civili.
È quindi inevitabile che si apra oggi un discorso sulle alleanze. Questo discorso sottintende un’analisi della realtà politica italiana. C’è un tessuto democratico che va ricostruito, o viceversa ci sono solo vecchie scorie, che non sono più rappresentative di nulla di reale e sono solo un fattore di instabilità? Il discorso vale per la sinistra come per il centro moderato. Il PD, in queste due direzioni, ha qualcosa da dire, e assume una iniziativa politica, o si candida a occupare tutti gli spazi che vengono lasciati liberi e lavora per una compiuta evoluzione bipolare, o più precisamente bipartitica, del nostro sistema? Si tende a rappresentare questa discussione come se si trattasse solo del vecchio dualismo di potere tra Veltroni e D’Alema, e il solo fatto di fare emergere diverse prospettive politiche viene letto come una ricaduta nel sistema malsano delle correnti. Ma cosa si vuole, un partito che non discute, che non si interroga, che non ragiona? Solitudine e spensieratezza: è su queste basi che si costruisce un partito di massa?
Ma c’è qualcosa che viene prima del discorso sulle alleanze, ed è il discorso sulla società italiana. Come viene rappresentata la società, qual è l’analisi dei suoi conflitti, delle sue tendenze, delle forme in cui si esprime lo spirito pubblico? La politica non è altro che la risposta a questa domanda. A me sembra che stia qui il centro della nostra discussione e la radice delle diverse posizioni politiche.
Allo slogan elettorale di Berlusconi: «rialzati, Italia!», il PD ha risposto: «l’Italia è già in piedi, è solo la politica che deve mettersi al passo». Non credo che fosse solo un espediente propagandistico. C’è piuttosto qui la rappresentazione di un certo modo di vedere la realtà dell’Italia, c’è un giudizio sulla nostra situazione nazionale. Lo schema interpretativo è quello della società civile, vitale e proiettata sul futuro, che entra in conflitto con un sistema politico e istituzionale appesantito e inefficiente. Ne consegue, logicamente, che la vera priorità è quella delle riforme istituzionali: velocizzare la decisione politica, dare più poteri al governo, snellire l’amministrazione. La malattia dell’Italia è la politica. L’inefficienza del sistema dipende in prevalenza dal fatto che la politica rappresenta per la società un peso, una palla al piede, sia per la lentezza dei processi decisionali, sia per il groviglio di interessi che la appesantisce e la distorce. Il PD ha cercato così, su questa base, di entrare in comunicazione con la società e di presentarsi come un partito che è deciso a rompere l’involucro della vecchia politica, a spezzare la logica della «casta», valorizzando le potenzialità e le risorse della società civile: un partito ‘nuovo’, che sfugge a tutte le interpretazioni ideologiche, perché pensa la politica non più con le categorie del potere e dello scontro, ma con quelle della crescita civile.
Ora, questo tipo di impostazione ha indubbiamente una sua forza attrattiva, ma non fa i conti con l’insieme delle contraddizioni e dei conflitti che attraversano la società italiana, parla a una società ‘astratta’, e non alla materialità degli interessi e delle condizioni sociali e ai sentimenti (di paura, di frustrazione, di egoismo) che accompagnano questa materialità. Il discorso politico, quindi, nonostante questa dichiarazione di ‘apertura’ alla società civile, resta un discorso distante, separato dal vissuto reale delle persone. La politica deve fare sintesi, e superare l’immediatezza degli interessi corporativi. Ma questa sintesi è possibile solo a partire da un’analisi realistica degli interessi in gioco. È possibile la mediazione solo se sono chiari i termini del conflitto. Per questo la società civile va analizzata, scomposta nei suoi elementi costitutivi, compresa nella sua dialettica sociale. Essa è, come diceva Hegel, il «sistema dei bisogni», e la politica funziona solo se a questi
bisogni differenziati sa dare una risposta.
Prendiamo alcuni esempi, tra i tanti possibili. Lavoratori e i imprenditori: fine della logica di classe, della contrapposizione, del conflitto. È solo l’ideologia che ha costruito delle barriere artificiali, mentre nella realtà ci sono funzioni che si devono armonizzare, come nell’antico apologo di Menenio Agrippa. Lavoro e impresa sono un tutto unico. Ne viene fuori solo un discorso sdolcinato e moraleggiante, che non riesce affatto a rappresentare la realtà materiale del lavoro, che non si presenta più nelle forme tradizionali dell’opposizione di classe, ma come un territorio segmentato, frantumato, nel quale il disagio sociale prende forme diverse e non si coagula in un comune sentimento collettivo. Qui occorre ridisegnare le mappe del conflitto, individuare i punti di sofferenza, e dare risposte concrete. Ma se non si fa questo lavoro di scavo nella realtà, se non si costruisce un rapporto vitale con questa realtà sociale frammentata, se non c’è un lavoro sistematico, organizzato, può accadere, come è accaduto, che la delusione operaia finisca, per una sorta di reazione rabbiosa, per ingrossare l’ondata di destra. È vero che è entrata in crisi l’ideologia di classe, ma il risultato non è un mondo pacificato, ma un insieme assai intricato di tensioni individuali e collettive. Se la politica le ignora, esse prenderanno le strade dell’antipolitica. C’è qui un groviglio di contraddizioni e di conflitti che dobbiamo far venire alla luce, non per riproporre l’idea di uno scontro frontale, ma per individuare in concreto le possibili mediazioni, per portare a sintesi il pluralismo degli interessi. Se invece pensiamo di essere già «oltre», pensiamo che tutto questo sia un vecchio discorso ideologico, allora ci troveremo spiazzati, perché il conflitto, non riconosciuto e non rappresentato nella sua concretezza, finirà per prendere altre strade, fuori dal nostro controllo.
Un secondo tema: le paure e l’insicurezza. Di fronte alle incognite della globalizzazione e di fronte agli effetti dirompenti della grande ondata migratoria, la destra si è fatta interprete di una reazione emotiva diffusa, di quell’insieme di stati d’animo che Aldo Bonomi ha condensato nella categoria del «rancore». Sul piano pratico, le risposte della destra sono velleitarie, perché questi processi non possono essere fermati e non ci si può chiudere in una cittadella fortificata. E tuttavia, il tema della sicurezza deve essere declinato con una maggiore precisione e concretezza, e non basta parlare di accoglienza, di apertura, là dove abbiamo conflitti non risolti. È proprio la sicurezza, secondo i classici del pensiero politico, il tema su cui si costruisce l’autorità dello Stato, come un vincolo collettivo, una limitazione delle libertà individuali, per mettere fine alla «guerra di tutti contro tutti». Ora, nella nostra realtà nazionale, ci sono oggi territori, nelle gradi periferie urbane e in vaste aree del Mezzogiorno, nei quali questa funzione disciplinatrice dello Stato non si è affatto realizzata. E lì, dove il cittadino è in una permanente guerra civile, senza protezione pubblica, è del tutto naturale che prenda corpo uno spirito antipolitico e antistatale. Qui appare chiaro che la società civile è soffocata non dalla politica, ma dalla sua assenza, che la società stessa è attraversata da tensioni distruttive. Dire che la politica deve fare un passo indietro è del tutto privo di senso, perché ciò che è avvenuto è proprio l’abbandono del territorio alle potenze ‘civili’: clan criminali, corporazioni, boss locali, guerra tra famiglie o tra etnie.
Un altro esempio di questo rapporto tra politica e società civile, rovesciato rispetto alla rappresentazione ideologica corrente, è l’esplosione dei localismi. Non è più possibile affermare nessun interesse generale, nazionale, se questo entra in conflitto con gli interessi locali organizzati. Nel disastro dei rifiuti in Campania, c’è il fallimento di un’intera classe dirigente, ma ci sono anche, pesantissime, responsabilità ‘civili’, delle comunità, delle associazioni di cittadini, che hanno reagito con le barricate a ogni tentativo di mettere ordine nella situazione.
La società civile, quindi, è un campo di conflitti, non è la soluzione, ma è il problema. E la politica acquista senso e concretezza solo nel momento in cui entra in questo campo di interessi contrapposti, prende posizione, indica soluzioni, costruisce mediazioni reali. Bene, io credo che sia proprio questo il punto sul quale il PD è ancora troppo poco attrezzato. Il partito ha un’immagine nazionale, un profilo culturale, ma fatica a misurarsi con la materialità dei processi sociali. Quando si dice territorio, radicamento, ciò vuol dire esattamente questo: passare dall’astrazione della politica alla capacità di accompagnare i processi reali, dal discorso sui valori a quello sulle passioni e sugli interessi. Il PD deve essere un partito di combattimento, nel vivo della realtà, nei molteplici luoghi e territori che delimitano lo spazio reale della vita delle persone.
La decisione di dar vita a un «governo ombra» rischia invece di tenere il partito ancorato in una dimensione virtuale della politica, in quello spazio rarefatto, tra palazzi istituzionali e dibattiti televisivi, dove conta solo l’apparire e non il fare. Tra l’altro, a conferma di tutte le riserve sulla presunta autosufficienza, trovo poco comprensibile che il governo ombra sia solo un monocolore PD, senza neppure coinvolgere quelli che sono stati i nostri alleati nella prova elettorale, dai radicali all’Italia dei valori.
Servirebbe piuttosto una strategia di radicamento territoriale, il che comporta un vero e proprio rovesciamento della struttura piramidale e verticistica. Non per inventare il «partito del Nord», che rischia anch’esso di essere un contenitore vuoto, ma per entrare, con l’iniziativa, con il confronto, con la battaglia delle idee, in tutti gli spazi della vita sociale.
E questa vita reale, concreta, è fatta anche di passioni, di identità, di ideologie. Un movimento politico reale si costruisce dando un senso collettivo, un orizzonte, una prospettiva alle storie individuali, sollevandole al di là della loro immediatezza. In questo senso, l’ideologia è una componente ineludibile della politica, proprio perché si tratta di dar vita a una forza collettiva, che sia qualcosa di più e di diverso rispetto alla sommatoria delle convenienze individuali. In tutta la storia sono sempre le forti identità collettive che hanno una durata e che incidono nella realtà. C’è il grande modello della Chiesa cattolica, flessibile nei diversi passaggi tattici, ma fortemente ancorata a una tradizione di pensiero. Ora, succede che chi non ha una tradizione la inventa, come la Lega Nord, con la sua fasulla mitologia celtico-padana. E noi, che abbiamo alle spalle una grande tradizione culturale e sociale, che ha segnato tutta la storia del Novecento, vorremmo invece sbarazzarcene, e andare a mani nude verso il futuro.
Socialità e identità, passione civile e forza del pensiero politico, sono due lati per me strettamente intrecciati, ed è su entrambi questi lati che va compiuto un grande lavoro di costruzione, per dare un senso al nascente Partito Democratico. La nostra discussione interna dovrebbe concentrarsi su questo, e non riprodurre vecchie appartenenze partitiche ormai prive di significato. E, da questo punto di vista, la presenza di una forte componente cattolica non è affatto un ostacolo, ma è piuttosto una risorsa, proprio perché nella storia del cattolicesimo democratico c’è una grande esperienza sociale, un senso delle relazioni umane, una pratica attiva di solidarietà, che può essere un punto di forza per il partito, se vuole essere un partito di massa, e non una élite di liberi pensatori.
Il PD è la scommessa su un processo nuovo, di fusione e di integrazione di diverse tradizioni politiche. Per ora, questo processo è solo enunciato, ma non praticato. Il PD comincerà davvero a vivere di vita propria quando questa operazione interculturale comincerà davvero a prendere forma, dando luogo finalmente a nuove aggregazioni, a nuove linee di articolazione del nostro confronto interno. Ci vorrà tempo, ma occorre cominciare da subito, rompendo le vecchie logiche, le vecchie cordate di potere. E il campo in cui questa nuova identità può prendere forma è il campo della socialità, dell’agire dentro i processi reali. Se è così, il Partito Democratico può essere una grande occasione di lavoro politico, e può esercitare una forza di attrazione in diverse direzioni. E proprio per questo, perché agisce nella realtà, saprà anche trovare le convergenze e le alleanze necessarie per riconquistare una funzione di governo.
Busta: 8
Estremi cronologici: 2008, maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, maggio 2008, pp. 21-30