PER UNA NUOVA SINISTRA
Ds al congresso - Settimana dal 29 settembre al 6 ottobre 1999
Scritto di Vittorio Angiolini, Gianni Rinaldini, Massimo Roccella, Claudio Sabattini, Ersilia Salvato, Riccardo Terzi, Mario Tronti
1) Le elezioni europee e le successive tornate elettorali, soprattutto in Germania, hanno messo in risalto lo stato di difficoltà e di incertezza in cui si trovano tutti i maggiori partiti storici della sinistra. Ovunque c’è un problema evidente di ridefinizione strategica e di chiarificazione culturale delle ragioni della sinistra. L’Italia sta dentro questo contesto, con le sue peculiari difficoltà che sono proprie di una transizione ancora incompiuta e di una più marcata fragilità dei sistema politico, ma anche con le sue straordinarie potenzialità e con un possibile ruolo dinamico nel panorama politico dell’Europa.
La contraddizione della sinistra europea sta nello scarto tra l’ampiezza delle posizioni di governo conquistate e la capacità di aprire un nuovo ciclo politico e sociale, dopo l’ondata di modernizzazione conservatrice degli anni ‘80. La sinistra governa, ma le società europee non hanno ancora trovato un nuovo impulso, un nuovo sistema di valori su cui ricostruire la propria identità. C’è la novità della moneta unica, ma essa non è sufficiente, e il quadro politico generale è un quadro di stanchezza e di disillusione, senza motivazioni forti che siano capaci di ridare senso all’azione politica collettiva e alla partecipazione democratica. Tutto il capitolo dell’Europa politica e sociale è ancora da scrivere. Una nuova strategia per lo sviluppo, per il lavoro, per la coesione sociale, non è stata ancora individuata e i tentativi di imboccare davvero una via riformatrice, da Jacques Delors a Oskar Lafontaine, sono stati contrastati e sconfitti.
La sinistra è oggi solo una forza di stabilizzazione e non una forza di cambiamento. E quindi le sue basi sociali di consenso e la sua stessa identità sono rimesse in discussione. Ci troviamo dunque in una emergenza, e le risposte politiche debbono essere assolutamente chiare e non reticenti.
2) Occorre vedere i processi di fondo che stanno trasformando le forme e gli spazi della politica: la crisi della capacità rappresentativa dei partiti politici e la loro tendenza a svolgere una funzione solo tecnica e procedurale, senza un rapporto con la domanda sociale; la crescente omologazione dei partiti sotto il profilo ideologico e programmatico e il venir meno, di conseguenza, dei fattori di identità e di appartenenza; la caduta verticale della partecipazione e della militanza politica; la spoliticizzazione delle moderne società europee; il progressivo affievolimento della discussione pubblica intorno alle possibili alternative programmatiche e lo spostamento, quindi, dal programma politico al leader, con il processo di personalizzazione della vita politica che muta in profondità la natura dei partiti. In questa situazione l’esercizio della democrazia sembra escludere la scelta tra opzioni alternative e riguardare solo la selezione del personale politico: non che cosa fare, ma chi lo fa.
La competizione non è intorno a progetti alternativi, ma solo intorno alle garanzie di efficienza, di stabilità, di professionalità politica che i diversi schieramenti possono offrire. La sinistra si è presentata così, con una promessa non di cambiamento ma di efficienza, e con l’assicurazione di avere abbandonato ogni differenza ideologica, culturale, di principio. Il problema è solo quello di far funzionare un “paese normale”.
Che tutto ciò alimenti fenomeni di indifferenza politica e di astensionismo non è per nulla sorprendente. E l’astensionismo è il tratto dominante di queste ultime tornate elettorali. Più che spostamenti nelle preferenze di voto conta il fatto che la maggioranza dei cittadini ha ritenuto irrilevante la competizione elettorale.
Questa tendenza alla spoliticizzazione, se non viene contrastata e se non si attivano efficaci contrappesi, ha un effetto mortale per la sinistra, non perché sia alle porte un’offensiva reazionaria vincente, ma perché perde di significato la distinzione destra e sinistra. Nell’indifferenza degli schieramenti, vince come sempre, la palude centrista, oggi rappresentata da Forza Italia. Se tutto il gioco politico si riduce all’occupazione del centro, la sinistra perde la sua forza attrattiva, come in effetti è avvenuto. Per questo, gli interrogativi a cui cercare di rispondere non riguardano la tattica politica quotidiana, ma le motivazioni di fondo dell’agire politico.
3) Dopo l’89 non c’è stato un lavoro serio di ricostruzione storica e di revisione teorica. La “svolta” che ha dato vita al PDS è stata guidata solo da una intuizione politica, senza compiere, come sarebbe stato necessario, un ripensamento più profondo della teoria politica e un’analisi della nuova situazione storica. Oggi paghiamo i limiti di questa operazione, perché non disponiamo di strumenti interpretativi adeguati e non abbiamo costruito una nuova cultura politica all’altezza delle sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica.
È prevalso un atteggiamento di pragmatismo tattico e di estrema duttilità, che ha consentito di ottenere alcuni risultati importanti e di conquistare l’accesso al governo, ma in una condizione di indeterminatezza e con una identità politica sempre più debole e sfilacciata, il che spiega l’attuale paradosso di una sinistra forte per il suo insediamento nelle istituzioni e debolissima nel suo radicamento sociale e nella sua capacità di produrre una identità collettiva. Siamo quindi in una condizione strutturale di fragilità, esposti alle oscillazioni di una opinione pubblica sempre meno politicizzata, e privi di una cultura politica che sia capace di interpretare e orientare la nuova evoluzione storica.
4) Il nostro “male oscuro” può essere agevolmente individuato: è la perdita di visibilità delle differenze politiche. La tesi opposta, secondo la quale la sinistra deve ancora completare la sua evoluzione rifomista ed è tuttora appesantita dal vecchio bagaglio ideologico, non ha nessun fondamento, e va respinta perché spinge esattamente verso una definitiva liquidazione delle differenze politiche. Non ci sono più radici ideologiche da tagliare, e già stato tutto tagliato. E ora occorre passare rapidamente dalla fase distruttiva a quella ricostruttiva, per ridefinire un’identità che sia visibile e percepita a livello di massa.
La discussione, quindi, riguarda la linea politica generale, e richiede non una correzione ma una sterzata. Nei casi di crisi, c’è sempre l’invocazione dell’innovazione, la quale però spesso è solo un’invocazione retorica che non toccai punti essenziali. E questo è il rischio: la retorica del cambiamento, senza sapere esattamente che cosa e dove cambiare, con il risultato di fare solo un’operazione effimera di immagine.
Così anche tutta la discussione sull’Ulivio e sul suo rilancio rischia di essere solo un diversivo, nell’illusione che l’effetto simbolico dell’Ulivo ci liberi dalle nostre contraddizioni. C’è evidentemente il problema di ristrutturare la coalizione, di superate la sua frammentazione attuale, di definire regole e sedi decisionali comuni. Ma il problema della sinistra non coincide con il problema della coalizione, e il partito dei DS non può solo dire: “facciamo l’Ulivo”, ma deve chiarire il suo progetto, il suo ruolo specifico e autonomo, come forza di sinistra, all’interno della coalizione. La coalizione sarà forte se sono forti i soggetti che la compongono.
Per questo, il prossimo congresso dei DS deve avere un carattere “costituente”, in quanto si tratta di definite la piattaforma fondamentale e di fissare un asse strategico. Poi verranno le esigenze della tattica, con la loro necessaria duttilità, ma la condizione primaria per la vitalità di un partito è la chiarezza delle sue prospettive e del suo progetto storico. Occorre dunque un congresso che faccia emergere con nitidezza diversi approcci teorici e strategici. La parola d’ordine non può essere l’unità del partito, ma la chiarezza delle posizioni.
L’attuale struttura del pluralismo interno è del tutto inadeguata, perché è solo la prosecuzione, ormai snervata, degli schieramenti che si erano determinati al momento della “svolta”. Oggi tutto deve essere ridefinito a partire dalle questioni cruciali che ci stanno oggi di fronte.
5) La sinistra si è definita storicamente nel rapporto tra politica e lavoro. Esiste una identità di classe in quanto esiste un progetto politico che la sorregge e la definisce, e così reciprocamente una politica di sinistra è tale in quanto rappresenta e organizza una domanda sociale. Questo rapporto sembra oggi essersi spezzato, e si teorizza il passaggio da una sinistra sociale a una sinistra civile, dal lavoro come fondamento di cittadinanza ad una concezione astratta dei diritti umani. Ne discende un partito socialmente neutro, senza radicamento, portatore solo di valori generali e non di una domanda sociale specifica. Nella pratica politica concreta, il lavoro è solo uno degli aspetti, accanto ad altri, sovrastato da altri. Sopravvive un rituale sempre più ripetitivo e nominale, con le conferenze dei lavoratori e simili iniziative, ma è sempre più chiaro che la vera partita politica non si gioca più su questo terreno. La partita è la conquista del centro moderato: le truppe seguiranno. La novità politica è che non ci sono più truppe, Il rapporto storico tra la sinistra e il mondo del lavoro si e inceppato ed è tutto da ricostruire.
Certo, molto dipende dalle trasformazioni che hanno sconvolto la struttura di classe del paese. Ma il mutamento sociale non ci autorizza ad archiviare il terna del lavoro come tema politico, ma ci impegna a ridefinirlo, ad esplorarlo nelle sue nuove e più complesse articolazioni. C’è bisogno di molta innovazione, nelle analisi, nelle politiche rivendicative, nelle modalità di approccio ai nuovi soggetti sociali, nella definizione quindi di una nuova politica del lavoro che assuma fino in fondo la rottura di paradigma sociale che è avvenuta con la fine del fordismo.
Il lavoro post fordista segna un complessivo cambiamento di orizzonte rispetto alla storia politica del Novecento. Al processo di concentrazione industriale, a cui corrispondeva anche un determinato modello di organizzazione sociale funzionale alla produzione di massa, subentra, in tutto il settore manifatturiero, un capitalismo “molecolare”, caratterizzano da una imprenditoria diffusa sul territorio e da relazioni sociali sempre più flessibili e adattabili al mercato, mentre si determina un ancona più forte livello di concentrazione e di controllo centralizzato per tutti gli aspetti di carattere strategico. Il post fordismo non è la fine del conflitto sociale e il declino del lavoro subordinato e delle sue esigenze di tutela, ma è un nuovo contesto sociale e tecnologico che ridefiniste le modalità del conflitto. C’è viceversa tutta una letteratura sociologica e politica che tende ad interpretare la nuova situazione come l’avvento di un lavoro liberato, che ha bisogno ormai solo di flessibilità. La flessibilità è divenuta la parola-chiave: meno tutele, meno vincoli, meno diritti, nel presupposto del tutto indimostrato che tutto ciò si traduca in una nuova fase di crescita. In questo quadro, tutte le relazioni industriali consolidate sono brutalmente messe a rischio dalle nuove necessità della competizione globalizzata e il lavoro viene esposto ad una fortissima tensione nel senso della precarizzazione e dell’insicurezza. I punti di forza tradizionali del movimento operaio, nella grande produzione di massa, vengono completamente destrutturati, e divengono ormai punti di debolezza, col rischio di indulgere in una difesa corporativa dei vecchi soggetti sociali, senza più avere la capacità di parlare all’intero mondo del lavoro.
Il lavoro dunque è cambiato, nella sua essenza, nella sua configurazione sociale, e anche profondamente nella soggettività dei lavoratori. Il luogo centrale del conflitto non è più oggi la fabbrica, con le sue dinamiche di classe ben definite, ma l’organizzazione sociale, con i suoi processi multiformi di differenziazione e di marginalizzazione e con i suoi nuovi esplosivi bisogni di realizzazione di una piena cittadinanza sociale. Il cuore del problema è quindi lo stato sociale e il sistema dei diritti.
Ma un punto deve restate ben saldo: il rapporto con il lavoro come fonte di legittimazione politica di un partito della sinistra. Oggi questo rapporto va ricostruito. Va ridefinita l’identità del partito a partire dalla sua rappresentanza sociale, dall’universo sociale di riferimento.
E sulla base di una chiara scelta che assume il lavoro, nelle sue nuove forme, come il fulcro dell’identità politica, vanno affrontate tutte le questioni della politica economica e della riforma del welfare, consolidando il metodo della concertazione con le forze sociali.
La concertazione come metodo di governo è uno dei più significativi elementi di distinzione tra destra e sinistra: governare con il consenso sociale e non con atti di imperio, riconoscere il ruolo delle rappresentanze, pensare la politica nel suo rapporto con la società e non come esercizio di un “primato” che configura la sfera politica come una sfera separata e sovraordinata.
Da questo punto di vista, gli annunci del governo in materia pensionistica sono stati un errore perché hanno aperto il varco ad una nuova campagna antisindacale, che ha la sua punta di diamante nel partito radicale e nelle iniziative referendarie. C’è un attacco di destra allo stato sociale e al ruolo del sindacato. Non possiamo lasciare margini di ambiguità sulla nostra collocazione in questo scontro. C’è un problema di ridefinizione del welfare. Ma in quale direzione? Verso una privatizzazione del sistema, o verso un nuovo inquadramento delle tutele pubbliche che dia risposte nuove ed efficaci all’area dei precari e degli esclusi? Una cosa, infatti, è riequilibrare la spesa sociale e allinearla alla media europea, altra cosa è smantellare il sistema delle garanzie e affidarsi al mercato. Nella discussione attuale, i cosiddetti riformatori che fanno la predica al sindacato in quanto soggetto conservatore, non propongono una riforma, ma una controriforma, in linea con le vecchie ricette del liberismo. Imboccare questa linea dignifica per la sinistra mettere a repentaglio le sue basi sociali di consenso.
Ora il quadro è parzialmente mutato, e sembra avviarsi una discussione più costruttiva. Ma deve essere chiaro che l’obiettivo della sinistra è la costruzione di uno stato sociale adeguato alla nuova situazione e ai nuovi bisogni, rafforzando e generalizzando i diritti di cittadinanza, e contrastando con forza le mistificazioni ideologiche della destra, la quale configura una società tutta dominata dai meccanismi della competizione, con effetti drammatici sul destino dei soggetti più deboli.
Senza capacità di rappresentanza sociale, i partiti non hanno futuro. E la forza della destra dipende oggi, in larga misura, dalla sua capacità di rappresentare e mobilitare interessi. Forza Italia non è solo il risultato di una spregiudicata campagna mediatica, ma di un radicamento concreto in alcuni segmenti forti della società.
La politica, quando funziona, è sempre capacità di sintesi, tra interessi e passioni. La sinistra è oggi debole su entrambi i fronti, perché è fragile sia il suo rapporto con gli interessi, sia la sua capacità di offrire motivazioni, identità, passione politica. Per uscire dalla crisi occorre lavorare su questi due punti fondamentali: la rappresentanza e l’identità.
La discussione politica nella sinistra avviene oggi dopo quello straordinario spartiacque storico rappresentato dalla guerra, che muta tutto il quadro internazionale e apre nuovi interrogativi sul futuro dell’Europa. Con la guerra (di questo si tratta, non di una ingerenza umanitaria) si è messo in atto il tentativo di costruire un nuovo ordine internazionale, sostituendo all’universalismo dell’ONU il dominio dei paesi forti e assegnando alla Nato dopo la fine del bipolarismo, un ruolo di regolazione mondiale. Questa è oggi la posta in gioco sulla scena internazionale. Come ci collochiamo in questo nuovo scenario?
Non si discute qui dell’azione del governo italiano, che ha fatto il possibile, nelle condizioni date e nei margini di manovra assai ristretti in cui ha dovuto muoversi, per costruire uno sbocco politico accettabile. In discussione è la valutazione politica complessiva. La guerra, proprio in quanto ha rappresentato una rottura del diritto internazionale e l’inizio di un nuovo ordine che sostituisce il diritto con la forza, non può che essere valutata come una sconfitta della sinistra e un segno delle sue debolezze.
Il problema non può essere archiviato, perché esso ha importantissime implicazioni storico-politiche. E non possiamo adattarci alle troppo comode e ipocrite interpretazioni umanitarie. È un punto dirimente, perché da esso dipende il futuro dell’Europa e la sua possibilità o meno di essere una potenza politica autonoma che esercita una funzione di equilibrio sulla scena mondiale, e altrettanto in discussione è tutta la prospettiva delle relazioni con l’Est dell’Europa e con i continenti del Terzo mondo. La sinistra europea, che si è fatta trascinare in questa avventura militare e non ha saputo impostate una linea alternativa, deve ora ridefinire le sue prospettive e ricostruire un quadro efficace di regole, di legalità e di istituzioni internazionali.
Tutto ciò ha avuto un’influenza elettorale, in quanto si è avuta la sensazione di una impotenza e di una subalternità dell’Italia. E la sinistra di governo è apparsa appiattita sulla più tradizionale ideologia atlantica, talora perfino in prima fila nella nuova crociata d’Occidente. Questa coincidenza tra governo delle sinistre in Europa e guerra ha creato uno sbandamento. Per questo, occorre ora ricostruire una nuova prospettiva di pace e un nuovo assetto delle relazioni internazionali.
La costruzione dell’Europa politica e la sua capacità di essere un fattore di equilibrio è la prima condizione. Ma nella sinistra europea tutto ciò non è affatto scontato, perché è finora prevalsa un’altra linea, rappresentata da Tony Blair, che assegna all’Europa il ruolo di partner subalterno della superpotenza americana. L’Italia ha solo cercato di smussare le punte più aggressive, ma non ha offerto un’alternativa. E il tono trionfalistico di questo dopoguerra non è di buon auspicio. Non c’è riflessione critica, ma c’è la soddisfazione di essere ormai riconosciuti dagli Stati Uniti come partner affidabili. Il che significa che saremo anche nel futuro in balia delle decisioni che sfuggono al nostro controllo.
7) Sul fronte istituzionale si combinano due processi. Il primo tende a spostare i rapporti di potere dal centro alla periferia correggendo il carattere centralistico del nostro ordinamento e valorizzando le autonomie territoriali. Il secondo tende alla costruzione di una democrazia di tipo plebiscitario sostituendo il ruolo di mediazione e di rappresentanza dei partiti politici con un rapporto fiduciario diretto tra i cittadini e il leader. Le forze politiche sembrano aver scelto di assecondare entrambi questi processi, mettendo nel loro calendario istituzionale i due temi del federalismo e del presidenzialismo. Non c’è, su questo terreno, una differenza visibile tra la destra e la sinistra. Quando si parla di riforme istituzionali – e se ne parla sempre in termini generici – non si rende chiaro se ci sono diversi progetti e quale sia la loro diversa qualità. In sostanza, la sinistra non ha chiarito con sufficiente nitidezza i suoi obiettivi, è stata incerta e oscillante, e ha finito per subite l’iniziativa dell’avversario. Federalismo e presidenzialismo sono così divenuti due slogan di facile uso propagandistico, senza un approfondimento e una chiarificazione concettuale.
Ma, in realtà, tra questi due temi, normalmente tra loro accoppiati nel discorso istituzionale, ci sono alcune fondamentali differenze. La prima differenza è di ordine pratico: mentre una riforma federalista richiede un processo assai complesso, in quanto si tratta di modificare il funzionamento concreto degli apparati pubblici e di vincere fortissime resistenze conservatrici, la democrazia plebiscitaria è già sostanzialmente insediata, data la crisi dei partiti politici, e ha bisogno solo di un’ultima spinta per completare la sua affermazione.
La seconda differenza è di sostanza, perchè con il federalismo si allargano gli spazi della democrazia e della partecipazione, costruendo nuove sedi di autogoverno, e all’inverso il modello plebiscitario restringe la vita democratica e la atrofizza nell’investitura del leader, mettendo fuori gioco tutto il sistema delle rappresentanze, politiche e sociali. Forme di elezione diretta possono essere utili e positive, come è stato per i sindaci e come può essere, a certe condizioni, per i presidenti delle Regioni. Ma occorre costruire un equilibrio democratico che eviti un eccesso di personalizzazione e uno svuotamento delle assemblee elettive.
Ciò che non è accettabile è la semplificazione del processo democratico nella investitura del leader, senza efficaci contrappesi e senza un sistema di rappresentanze che sia in grado di riflettere il pluralismo della società.
Per questo, c’è il rischio che la riforma presidenzialista (con elezione diretta del presidente della Repubblica o del premier), più semplice da realizzate e più redditizia sul piano di un consenso demagogico a buon mercato, sia alla fine l’unico punto di approdo, lasciando per il resto inalterata la macchina dello Stato. Non a caso, anche per le Regioni l’unico impegno concreto è l’elezione diretta del presidente, lasciando in ombra tutti altri aspetti di riforma dell’istituto regionale.
La sinistra deve avere un suo progetto istituzionale che punti ad allargare spazi della partecipazione democratica. Ma, per fare questo, occorre andare controcorrente e aprire una battaglia politica esplicita contro le suggestioni leaderistiche e plebiscitarie. Questo non è stato fatto e nessun bilancio critico è stato compiuto dei risultati deludenti del nuovo sistema maggioritario, che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, né in termini di stabilità di governo, né in termini di superamento della frammentazione partitica, né infine sotto il profilo della trasparenza democratica e del controllo dei cittadini. Ma di fronte all’evidenza di queste difficoltà e di fronte al rischio di una delegittimazione dei partiti politici in quanto tali, la parola d’ordine è, anche da parte della sinistra; ancora più avanti, completiamo questa magnifica rivoluzione maggioritaria, a colpi di referendum, se è necessario, accettando pienamente la tesi che la democrazia non funziona perché c’è il dominio dei partiti.
Non c’è dubbio che l’obiettivo debba essere l’organizzazione di una democrazia bipolare. Ma quello che accade non è la razionalizzazione del sistema politico nella direzione del bipolarismo, ma la sua trasformazione in una forma di notabilato oligarchico, che non garantisce rappresentanza e si sottrae al controllo democratico.
Ci stiamo avviando verso una completa destrutturazione del sistema politico, senza capire che noi saremo le vittime sacrificali di questo processo, e i primi effetti si stanno verificando. Questa prospettiva va rifiutata e contrastata, opponendo al modello plebiscitario e leaderistico la prospettiva di una riforma dello Stato che sia capace di rimettere in comunicazione società e istituzioni, domanda sociale e offerta politica: quindi, riforma dell’amministrazione, federalismo, autonomie territoriali, concertazione sociale, funzionamento della giustizia, difesa dei diritti fondamentali.
La nostra agenda istituzionale non può essere la stessa della destra. Il nostro problema è quello di rivitalizzare la democrazia, di superare l’attuale gravissima crisi di partecipazione e di fiducia, mentre la destra tenta solo di aggirare il problema con una operazione demagogica.
Le concessioni alla strategia referendaria contro la quota proporzionale sono state un cedimento inutile e ingiustificato. L’obiettivo di questo referendum, oggi rilanciato da Alleanza nazionale e da un’alleanza trasversale di marca populista, è la liquidazione dei partiti politici. Non c’entra nulla il bipolarismo e la governabilità. E cadere in questa trappola è un errore strategico del tutto inaccettabile. È possibile, viceversa, una proposta di rafforzamento della funzione di governo, all’interno di una democrazia parlamentare che restituisca ai partiti politici e alle coalizioni la loro funzione fondamentale. Il problema di fondo, infatti, è quello di incentivare la formazione di governi stabili ed omogenei, il che richiede una strategia istituzionale che rafforzi i meccanismi di coalizione e scoraggi la frammentazione partitica. Ci possono essere, a questo fine, diverse soluzioni. Ma certamente non serve una confusa campagna antipartitica e una mitologia della democrazia maggioritaria, perché è proprio questa impostazione che ha determinato l’attuale situazione di impasse e di crisi della vita democratica.
8) Abbiamo indicato tre questioni cruciali: la politica del lavoro, la politica internazionale, la politica istituzionale. Potremmo allargare ulteriormente il discorso, ma già dovrebbe essere chiaro, dalle cose fin qui dette, il senso della svolta politica che è necessario attuare.
Perché si possa anche solo discutere di tutto ciò è necessario un partito che funzioni, che abbia una vita democratica interna, che non sia solo una struttura di supporto al servizio del leader. Il modello leaderistico ha già provocato guasti profondi determinando effetti di deresponsabilizzazione e di opportunismo. In verità, non c’è leader forte se non c’è classe dirigente forte. E il nostro problema è proprio quello di costruire una classe dirigente, autorevole e pluralista, al centro così come nelle realtà territoriali. Ciò non può avvenire senza una discussione chiara, senza un confronto delle posizioni, senza una dialettica delle idee. In un momento di crisi, non c’è altra risorsa da attivare se non la risorsa democratica. Altrimenti daremo ragione a quanti pensano che sia ormai finita la stagione dei partiti, e che la politica è ormai solo il gioco di potere all’interno di una oligarchia chiusa. L’involuzione oligarchica della vita politica è la fine della sinistra. Il nostro impegno deve essere quello di riaprire gli spazi democratici, anche attraverso una lotta politica all’interno del partito, per una sinistra rinnovata, capace di riaffermare le sue ragioni e la sua identità.
È un lavoro lungo, teorico e programmatico. L’importante è iniziarlo con il piede giusto, con il senso dell’emergenza che ci sovrasta e con la consapevolezza dalla svolta politica che è necessario realizzare. Per questo, fuori da vecchie logiche correntizie, ci rivolgiamo a tutti e chiediamo un confronto aperto, non diplomatico, non compromissorio, perché siano messe in chiaro le diverse possibili scelte e il partito sia messo in grado di decidere, consapevolmente e democraticamente.
Busta: 7
Estremi cronologici: 1999, 29 settembre
Autore: Vittorio Angiolini, Gianni Rinaldini, Massimo Roccella, Claudio Sabattini, Ersilia Salvato, Riccardo Terzi, Mario Tronti
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Aprile”, n. 57, 29 settembre 1999