L’ALTERNATIVA COME PROPOSTA DI GOVERNO
di Riccardo Terzi
Le elezioni di giugno hanno dimostrato, con una nitidezza esemplare, la praticabilità di una politica di alternativa alla Democrazia Cristiana. Prima di quel risultato elettorale, la linea dell’alternativa appariva ai più, comunisti compresi, come una fuga in avanti, come l’indicazione di un obbiettivo solo propagandistico, non realizzabile nei tempi brevi della vicenda politica.
La maggiore difficoltà del PCI nella campagna elettorale stava in questa scarsa attendibilità dell’obbiettivo politico, nell’atteggiamento diffuso di scetticismo, nell’idea ricorrente che le elezioni non avrebbero potuto spostare in misura significativa gli equilibri politici. Gli stessi militanti e dirigenti del PCI non riuscivano a configurare l’alternativa come una politica per l’oggi. Questi dubbi possono ora essere accantonati e superati, e il dibattito sull’alternativa può assumere forma politica, può uscire dall’astrazione e dal volontarismo.
La crisi della DC, del suo complesso sistema di dominio e di consenso, è un fatto innegabile, evidente. Ci si domanda se questa crisi sia imputabile alla linea scelta dalla nuova segreteria di De Mita.
A me sembra piuttosto che De Mita abbia compreso come il vecchio modello di partito mediatore, onnicomprensivo, che vuole rappresentare tutto, non abbia più la capacità di aggregazione che ha avuto nel passato, non disponga più di quel peculiare cemento ideologico che l’ha sorretto per tanti anni.
Gli effetti congiunti della crescente differenziazione sociale e della laicizzazione della politica sono dirompenti per la DC, e ciò non può essere in nessun modo compensato da certe forme di integralismo cattolico rinascente, le quali anzi sono una testimonianza della crisi in quanto esprimono, per la prima volta dopo molti anni, una coscienza minoritaria del mondo cattolico.
Questo processo si era già manifestato nelle elezioni precedenti e nei referendum, soprattutto nelle grandi aree urbane, mettendo in discussione il ruolo e le prospettive della DC come partito egemone, come struttura portante di tutta la vita politica italiana.
De Mita ha cercato di rispondere a questa crisi, di ridefinire il ruolo e la collocazione della DC, sostituendo all’immagine ormai sbiadita del vecchio popolarismo quella di un partito che si qualifica per le scelte, per i programmi, e che costituisce un polo democratico-conservatore all’interno di una dialettica politica che non esclude la possibilità di diverse coalizioni, di schieramenti alternativi.
Questa manovra implicava un rischio, un azzardo, ed essa ha contribuito ad accelerare la crisi del partito dominante. Tuttavia, per il gruppo dirigente democristiano il pericolo maggiore stava nell’inerzia, e la esigenza era quella di cominciare ad attrezzarsi per il futuro, prendendo l’iniziativa nel momento in cui tra le forze della sinistra ancora non erano maturate le condizioni politiche e programmatiche per porre, con forza e con urgenza, l’obbiettivo di un’alternativa di governo.
De Mita ha pagato un prezzo superiore a tutte le previsioni. Ma, se è vero che la crisi della DC è oggettivamente aperta, può risultare un prezzo minore quello che si paga nel nome di una proposta politica nuova, rispetto a quello che verrebbe da un progressivo declino, senza idee e senza prospettive. Bisogna dunque saper vedere nella crisi della DC gli elementi di dinamismo e i tentativi di ricostruzione. La DC non è un partito alla deriva, ma sta compiendo un passaggio, sta tentando un aggiornamento del suo bagaglio tradizionale, per recuperare una vitalità e una identità che si sono venute offuscando.
La seconda evidenza che risulta dal voto di giugno è che il processo di alternativa non può configurarsi semplicemente come uno spostamento a sinistra, come un generale passaggio di campo dallo schieramento moderato a quello riformatore. La sinistra non vince se non riesce a costruire un sistema di alleanze, stabilendo un rapporto con quelle forze che hanno nella società una collocazione mediana, se non riesce a controllare il centro dello schieramento politico e sociale.
Questa intuizione è stata presente nel PSI ed è un filo conduttore che consente di spiegare gran parte delle sue posizioni politiche e culturali più recenti.
Il PSI, appunto, si proponeva di realizzare questa occupazione del centro, incalzando la DC sul suo stesso terreno e cercando di presentarsi conte il punto di aggregazione di una possibile «terza forza» come l’espressione di una vasta area democratica, laica e riformista.
Questa linea è riuscita solo in piccola parte: le possibilità espansive del PSI sono state largamente neutralizzate dai partiti laici di centro, e questo mancato successo è grave soprattutto nelle aree metropolitane più sviluppate, là dove si misurava la portata strategica della proposta socialista. Il caso di Milano è quello più significativo e più bruciante: esso mette in evidenza i limiti di un’operazione culturale ambiziosa, che è stata solo enunciata, ma non adeguatamente elaborata. I nuovi ceti urbani, che avrebbero dovuto essere gli interlocutori naturali del nuovo PSI, non hanno sciolto le loro riserve e diffidenze, e hanno avvertito una certa strumentalità e improvvisazione propagandistica nelle posizioni socialiste.
Resta comunque confermato che la partita politica si gioca soprattutto al centro, che qui si verificano processi e spostamenti di grande portata, che c’è uno stato di generale irrequietezza che rende tutto l’equilibrio politico suscettibile di modificazioni profonde.
Ciò accentua l’instabilità politica. Tra i partiti dell’area di governo è ormai aperta una competizione aspra, uno stato permanente di concorrenzialità, una continua schermaglia tattica, e il PSI si trova ora, con la Presidenza del Consiglio, pienamente coinvolto in questa lotta e finisce per essere obiettivamente un fattore di instabilità e di tensione. Non si può dire che la presidenza Craxi sia solo una riedizione del pentapartito. Si è aperta invece una fase di lotta politica più acuta, e insieme più confusa e più torbida, nella quale è ormai posta in questione la continuità dell’egemonia e del potere democristiano.
È dall’interno di questa situazione di movimento e di incertezza che vanno costruite le tappe dell’alternativa. Se si pensa ad una politica tutta limpida e rettilinea, essa si risolverà in un atto di testimonianza morale. Occorre invece una grande agilità tattica, una capacità di entrare nel vivo delle contraddizioni, di utilizzare tutti i possibili elementi di dinamismo che la situazione presenta. È un problema che si pone, su versanti diversi, sia al PSI che al PCI.
Entrambi i partiti della sinistra hanno un interesse convergente a tenere la situazione in movimento. Il PSI rischia infatti di essere schiacciato entro una coalizione di stampo moderato, di smarrire il filo della propria iniziativa e della propria identità, mentre il PCI ha la necessità di far corrispondere alla linea dell’alternativa una gestione tattica adeguata. Il problema della tattica è rimasto in effetti, per il PCI, un problema non risolto, e dietro l’unità apparente stanno ipotesi diverse, giudizi diversi sulla situazione e sui suoi possibili sviluppi.
Nella campagna elettorale queste questioni sono state accantonate, puntando tutte le carte sull’obbiettivo strategico dell’alternativa democratica. È rimasto in ombra il tema delle alleanze, del rapporto con le forze intermedie, ed è prevalsa la preoccupazione di coprirsi a sinistra, di consolidare le proprie basi sociali tradizionali, tentando nel contempo di incanalare quello che resta della multiforme costellazione di movimenti che si sono formati negli anni passati al di fuori delle organizzazioni storiche della sinistra. Anche in questo caso, l’obbiettivo non può dirsi raggiunto in misura soddisfacente. L’apporto del PdUP è risultato trascurabile, mentre si rilancia DP, resta attiva la forza radicale, e si allarga l’area dell’astensionismo.
Nell’insieme dei risultati elettorali possiamo forse scorgere un dato comune: la crisi del partito totalizzante, che vuole rappresentare tutto, e che tende a risolvere il confronto con operazioni di assorbimento elettorale. Ciò vale, in forme diverse, per tutti e tre i grandi partiti italiani. Le elezioni rappresentano, anzitutto, la vittoria del pluralismo politico, l’impossibilità di operare semplificazioni forzate.
Il richiamo ad altri modelli europei decisamente non ha funzionato. Il problema per la sinistra è quindi un problema di alleanza tra forze che sono e restano diverse, e ciò può avvenire solo sulla base di discriminanti programmatiche che siano ben nitide e definite, sulla base di opzioni e progetti comprensibili.
L’alternativa non funziona come messaggio ideologico, come sollecitazione emotiva, come valore. Può funzionare solo se si costruisce una proposta di programma. Sotto questo profilo, le debolezze della sinistra sono tuttora evidenti: c’è ancora troppa indeterminatezza, troppo spesso i programmi della sinistra sono enunciazioni di valori, di idealità, e non l’indicazione concreta degli obiettivi e degli strumenti che li devono sorreggere.
L’accentuazione dell’aspetto pragmatico non è, come spesso a torto si ritiene, uno scivolamento opportunista, perché al contrario solo con questo sforzo di concretizzazione, di elaborazione puntuale, è possibile sottrarsi all’egemonia politico-culturale che di fatto ha esercitato la DC nel corso di questi trent’anni, e che si è basata su una permanente manipolazione ideologica dei fatti.
L’egemonia democristiana ha agito in profondità, ha agito come fattore di armonizzazione sociale e di omogeneizzazione culturale, ha condizionato anche il modo di essere della sinistra, e non risultano perciò con chiarezza le discriminanti, i punti di rottura, le alternative concrete. Basti pensare a quanto statalismo conservatore è stato assorbito negli anni cruciali dell’assalto terroristico, a come i linguaggi dei partiti si sono venuti in molti casi confondendo e sovrapponendo dentro un comune sistema di valori.
E oggi colpisce il fatto che il primo governo a presidenza socialista si trovi a dover ripercorrere il vecchio copione di una politica economica di tagli, di restrizioni, di manovre unilaterali sulla spesa pubblica e sulle tariffe, senza riuscire in nessun modo ad introdurre una innovazione di linea politica, a dare concretezza di governo alle priorità dell’occupazione e dello sviluppo, di cui si parla solo per un rito burocratico-consolatorio che non ha nulla a che fare con la realtà.
Si assiste così ancora una volta al fatto che la sinistra, nel momento in cui conquista importanti posizioni di governo, non riesce a caratterizzarsi sulla base di una propria piattaforma autonoma e originale, ma finisce come catturata dentro i meccanismi collaudati dell’organizzazione del potere. Non hanno fatto eccezione, nella sostanza, gli anni della solidarietà democratica, che sono stati segnati soprattutto dall’impronta di Aldo Moro, e che non hanno realizzato una rottura politica, ma solo un allargamento delle basi sociali e politiche dello Stato. Proprio in quegli anni si è sperimentata la forza mediatrice della DC, la sua capacità di assimilazione, e si è dovuta registrare la fragilità programmatica della sinistra.
Il programma, dunque, è la questione decisiva ed urgente: un programma realisticamente definito nei suoi obiettivi immediati e di lungo periodo, nella sua strumentazione concreta, e in cui sia del tutto chiara e comprensibile un’inversione di rotta rispetto alla gestione democristiana.
Devono essere chiari alcuni punti di rottura. Ad esempio nella politica economica, con una effettiva priorità all’obbiettivo dell’occupazione e dello sviluppo; o nella riforma dello Stato, con una linea di decentramento dei poteri, di smantellamento delle strutture burocratiche centralizzate.
Il programma del governo Craxi non ha nessuno dei requisiti necessari. Ma i socialisti possono essere interessati ad un lavoro comune della sinistra per la costruzione di linee programmatiche da opporre alle forze conservatrici. Se il PSI non riesce a dare alla propria politica un senso dinamico, se non sa preparare tappe e obbiettivi più «avanzati», tutto il lavoro di questi anni può rapidamente naufragare.
Per questo, occorre, da parte di tutti, una condotta politica che tenga il più possibile aperta la situazione. È forse inevitabile il prevalere di tattiche irrigidite e contrapposte? Questa inevitabilità non c’è, anche se le difficoltà e gli ostacoli sono certamente grandi. C’è un primo esempio positivo, quello della discussione parlamentare sul caso Negri, che ha visto la sinistra unita, su una posizione di coraggio e di sfida al blocco conservatore. Questa battaglia non è stata vinta, ma ha messo in moto delle forze, ha messo in discussione la concezione autoritaria dello Stato, ha riaperto un dialogo a sinistra con una generazione che rischia di essere messa definitivamente fuori dalla vita democratica.
Per tenere aperta la situazione, è necessario che il confronto tra maggioranza e opposizione sia il più possibile fluido, che il Parlamento sia fatto funzionare come effettiva sede decisionale e non come cassa di risonanza, che sia del tutto libera ed articolata l’esperienza dei governi locali, che insomma sia respinta con nettezza ogni tendenza ad imporre un allineamento forzato intorno alle scelte del governo. Che la DC punti ad irrigidire la maggioranza in una sorta di regime, di coalizione di ferro, è comprensibile. Ma un qualsiasi cedimento socialista ad un tale concezione sarebbe un atto di suicidio politico.
Il governo Craxi non riuscirà ad esprimere nessun segnale di novità se le sedi della decisione politica saranno ristrette al Consiglio dei ministri e ai vertici politici della maggioranza, perché in questo ambito chiuso la forza contrattuale della DC non potrà che essere vincente.
Devono poter contare altri soggetti: le forze sociali, i movimenti di massa, le autonomie locali, il Parlamento, la cultura democratica.
Per questo sono oggi di grande rilievo politico sia la questione delle giunte locali, della loro autonomia dal governo centrale, sia quella dell’unità e dell’autonomia sindacale. La difesa rigorosa di questi momenti di autonomia è una scelta politica essenziale, e più in generale tutta l’azione della sinistra deve sapersi muovere su uno scenario politico vasto, non chiuso nell’ambito delle istituzioni e dei partiti.
Le elezioni hanno messo in luce una grande articolazione democratica, una grande complessità nel rapporto tra partiti e società, un fermento complesso che investe i rapporti sociali, le culture, le strutture del potere. Bisogna agire su questa scala, preparando e accelerando così, su tutti i terreni, le condizioni per l’alternativa.
Busta: 7
Estremi cronologici: 1983
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Laboratorio politico”, n. 2-3, 1983