UN’ANTOLOGIA DI SCRITTI MARXISTI SULL’EDUCAZIONE
di Riccardo Terzi
L’antologia di brani di Marx e di Engels intorno al problema dell’educazione, raccolti da M. A. Manacorda, può essere lo spunto per una riflessione che assuma fin d’ora un carattere spiccatamente politico. Anzitutto, che cosa significa “problema dell’educazione”? Scisso dalla struttura determinata della società borghese, il problema non sussiste se non nella illusione dei riformisti e dei filantropi. Vi è un punto di partenza necessario per ogni analisi che pretenda alla scientificità: la scissione della società borghese in classi antagoniste, e, come conseguenza, la generale estraniazione della vita sociale.
Quello che dovrebbe essere, nella società, lo strumento per l’educazione delle masse, il lavoro, in quanto rapporto creativo fra l’uomo e la natura, diventa al contrario strumento di abbrutimento fisico e di degradazione morale. «Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini». Il prodotto del lavoro si erge di fronte al produttore come un ente estraneo che lo domina, la stessa attività produttiva rimane esterna all’operaio; «l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro».
La scissione della società in classi contrapposte porta come conseguenza la scissione dell’uomo che perde la sua dimensione unitaria. È chiaro che non può darsi azione educativa in senso proprio, senza che sia ricostituita questa dimensione unitaria dell’uomo; in altri termini, non è possibile alcuna azione educativa che non comporti il superamento della società capitalistica, ovvero della proprietà privata che sottrae all’uomo le sue ricchezze spirituali e le ripresenta in forma oggettivata ed estraniata.
Di qui consegue, come primo risultato politico, il rifiuto di ogni semplicismo riformistico. E ricordare di quale entità sia il fossato che divide il pensiero originario di Marx dalle interpretazioni riformiste è certamente utile oggi, in questa fase di travaglio di tutto il movimento operaio.
Secondo la logica del riformismo, si tratta semplicemente di mettere a disposizione della classe operaia degli strumenti di educazione per elevarne il livello culturale. La condizione oggettiva dell’operaio, la scissione che subisce nel processo di produzione, non sono messe in discussione né contestate. E allora è possibile soltanto aggiungere all’abbrutimento del lavoro una qualche porzione di cultura, giustapporre alienazione e conoscenza, senza che il primo termine possa essere rimosso.
Il carattere aberrante di questa posizione sta non tanto nel fatto che viene elusa la necessità di una soluzione globale del problema, quanto nella erroneità delle stesse soluzioni parziali. Infatti, non soltanto rimangono immutati tutti i dati della condizione oggettiva, ma, proprio per questo, la cultura, che viene impartita dall’esterno, non può essere che la cultura borghese.
Per essere più chiari, mancando una esperienza culturale della massa, che muova dalle sue condizioni di esistenza, e che si traduca in un’attività pratica, è possibile soltanto un apprendimento esteriore, e quindi una cultura astratta, borghese.
È questo l’inevitabile sbocco di tutte le illusioni riformiste, che pretenderebbero di utilizzare per l’emancipazione della classe operaia quelle stesse strutture politiche, proprie dell’assetto sociale borghese, che contribuiscono a rendere permanente la lacerazione sociale e l’antagonismo delle classi. In tal modo, vittime di questa contraddizione logica, i riformisti non vanno oltre le pie intenzioni dei vecchi filantropi, che si proponevano di fornire un aiuto morale agli sfruttati, per rendere loro più “accettabili” quelle condizioni sociali che bisognava invece rovesciare con la forza.
«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti», fino a quando le classi sfruttate non siano in grado di compiere un’esperienza politica rivoluzionaria che dia il senso di una nuova e più avanzata prospettiva culturale. Per questo non bastare una generica «diffusione della cultura». La cultura di massa, le scuole popolari, i circoli di cultura popolare, non spostano di una virgoletta la realtà soffocante della società borghese; perché, attraverso strumenti di questa natura, le masse possono soltanto entrare in contatto con un patrimonio culturale alla cui formazione non hanno partecipato, e che, al limite, non sono neppure in grado di capire. Mantengono quindi la loro posizione subalterna e non possono superare la loro interna scissione. Anzi, questa cultura, in quanto cultura borghese, è funzionale a questa scissione e la consolida.
Basti pensare all’efficacia che in questo senso esercita l’educazione religiosa, che contrappone alla realtà materiale dell’esistenza un’immagine artefatta dell’uomo, nel nome della quale è possibile accettare un’esistenza abbrutita e lacerata. E questa scissione ideologica, fra individuo e persona, esistenza ed essenza, è riprodotta nelle sue linee generali da tutta la cultura borghese.
E allora, dove sta la soluzione del problema? Può sembrare che resti aperta soltanto la via del massimalismo e della denuncia.
Ma una lettura attenta di Marx ci consente di uscire da questa alternativa fittizia fra capitolazione e verbalismo rivoluzionario. È proprio da questo estremo avvilimento della classe operaia, e dalla presa di coscienza di questo avvilimento, che può avere origine un processo risolutore. È il lato negativo che muove la storia, e non si tratta quindi di “moderarlo”, ma di farlo esplodere nel processo rivoluzionario. «Non si tratta di sapere che cosa questo o quel proletario, o anche il proletariato tutto intero, si propone temporaneamente come meta. Si tratta di sapere che cosa esso è e che cosa esso sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo suo essere. La sua meta e la sua azione storica sono tracciate in modo sensibile e irrevocabile nella situazione della sua vita, come in tutta la organizzazione della odierna società borghese». La rivoluzione è quindi nelle cose, è il prodotto dello sviluppo capitalistico.
Vediamo un aspetto particolare di questa verità: la divisione del lavoro, fondamento di ogni società divisa in classi, comporta, in ogni soggetto, una mutilazione delle facoltà umane, per cui esso diviene capace solo di certe mansioni. Ma nella fabbrica meccanizzata, la divisione del lavoro perde ogni carattere di specializzazione, di mestiere, e riduce il lavoro dell’uomo ad un semplice accessorio della macchina. In questa estrema parcellizzazione, che sconvolge la vecchia classificazione dei mestieri, sono le premesse oggettive di una riconquista della dimensione unitaria. «La forma estrema di estraniazione in cui, nel rapporto capitale-lavoro salariato, il lavoro, l’attività produttiva, appare rispetto alle sue stesse condizioni e al suo stesso prodotto, è un necessario punto di passaggio, e pertanto contiene già in sé, solamente ancora in forma rovesciata, a testa in giù, la dissoluzione di tutti i presupposti limitati della produzione, e piuttosto crea e produce i presupposti incondizionati della produzione e di conseguenza le piene condizioni materiali per lo sviluppo totale, universale delle forze produttive dell’individuo».
Basta intervenire su questa realtà rovesciata, per rimetterla in piedi, attraverso l’azione rivoluzionaria.
Ma qui veniamo ad affrontare il vero problema di fondo: questa oggettiva necessità della rivoluzione, già matura all’interno della società borghese, può essere verificata solo là dove le forze produttive hanno raggiunto il loro massimo sviluppo, e cioè nelle società di capitalismo avanzato. Ed è questo l’ambito specifico della nostra lotta, per cui questa riflessione intorno al pensiero di Marx non può risolversi nella divagazione intellettuale, ma deve condurci à scelte politiche valide e vincolanti fin da oggi.
Ora, proprio nei paesi capitalistici sviluppati, la necessità della rivoluzione sembra particolarmente lontana e sfuggente. Ma non possiamo dimenticare che nelle forze produttive sono presenti gli uomini con la loro coscienza che, se la rivoluzione è un fatto necessario, ciò non significa che sia un fatto meccanico. E allora non possiamo non riprendere il problema della “educazione”, che si presenta ora, dopo aver spazzato via le deformazioni riformiste, come il problema della educazione alla coscienza di classe.
Abbiamo prima visto la sterilità di ogni educazione impartita dall’esterno; ad essa bisogna contrapporre un’esperienza culturale che avvenga nella lotta per trasformare le proprie condizioni di esistenza. La milizia rivoluzionaria è l’unica reale forma di educazione per le masse, e questa educazione è possibile proprio grazie allo stato di subordinazione sociale in cui le masse si trovano, alla loro esclusione dalle fonti della cultura borghese.
Ed è qui, credo, che possiamo trovare una ragione della stasi del movimento di classe nella società capitalistica matura. L’azione dei partiti di classe si è mossa ancora troppo sulla base dei presupposti stalinisti, è stata cioè prevalentemente un’azione esterna, coercitiva, una sovrapposizione politica alla realtà del movimento. Ciò che nel passato è stato necessario per violentare il corso della storia, rischia di essere un freno oggi, se è vero che è possibile riconquistare già nel corso della lotta l’unità della dimensione umana e ricongiungere la sfera politica alla sfera civile, senza affidarsi alla onnipotenza dello stato, se è vero cioè che la rivoluzione è nelle cose.
È il rapporto partito-classe che si trova ad essere posto in discussione, ed è l’azione “educatrice” del partito. Forse anche noi abbiamo accarezzato l’idea di una cultura, e quindi di una coscienza, impartita dall’esterno e non rivissuta nella pratica; e il fatto che fosse una cultura marxista non sposta di molto la questione. Ciò che conta è stabilire un legame vivente fra la teoria e la pratica, ed è nella pratica appunto che si supera il rigido dualismo fra cultura borghese e proletaria, e si riconquista la continuità e il valore della tradizione;
Si tratta di mettere a punto una strategia all’altezza di questi compiti, una strategia che non assolutizzi la funzione del partito – e quindi dello stato -, ma realizzi fra il partito e la classe un rapporto, reale e non ideologico, fatto di organizzazione e di direzione, capace di articolarsi in forme originali di partecipazione creativa delle masse. Questa educazione alla coscienza di classe è la condizione per poter pretendere dalla società borghese che sciolga le sue lacerazioni, che liberi tutte le energie umane soffocate, che trapassi quindi nella società socialista.
Busta: 7
Estremi cronologici: 1965, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “La città futura”, marzo 1965, pp. 27-28