I COMUNISTI E IL LORO RUOLO NEL GOVERNO
Una ricerca comune tra le diverse forze sociali per costruire il futuro della città e per rilanciare la funzione di Milano nell’economia nazionale
di Riccardo Terzi
Non ci chiuderemo in noi stessi a meditare sulla complessità e sulla difficoltà della situazione, ma lavoreremo per essere in tutti i campi della società una grande forza organizzata e di massa
Il partito comunista, a Milano, ha dovuto affrontare negli ultimi tre anni tutto quell’intreccio complicato di problemi che deriva dall’assunzione di una responsabilità di governo.
La svolta nella collocazione del partito è avvenuta, a Milano e nelle altre grandi città, come effetto di una impetuosa avanzata elettorale dalle proporzioni non prevedibili. Entrato in crisi il tradizionale sistema di potere democristiano, logorate le motivazioni ideologiche che lo sostenevano, lacerato dalla crisi generale della società italiana tutto il complesso di mediazioni sociali che la DC aveva saputo costruire, è diventato possibile per il nostro partito realizzare un’operazione di sfondamento, aggregare intorno la sé un arco di forze assai eterogeneo, che, partendo da motivazioni e aspettative diverse, si poneva il problema di un cambiamento della direzione politica.
Non c’è dubbio che il successo elettorale abbia colto il partito largamente impreparato: si è posta dunque con urgenza la necessità di operare una «riconversione» dello stile di lavoro, della formazione e dell’utilizzazione dei quadri dirigenti, delle forme di collegamento con la società.
Le difficoltà sono state e sono tuttora grandi, ma ciò è anche il segno del fatto che siamo una forza viva e radicata nella realtà. L’esame critico e autocritico va quindi condotto senza scadere nell’autolesionismo, senza perdere di vista il cammino che si è percorso, il carattere nuovo e più avanzato della situazione in cui oggi ci troviamo.
I risultati elettorali del ‘75 e del ‘76 hanno cambiato la qualità del nostro elettorato, sia perché la nostra influenza ha investito per la prima volta settori consistenti del ceto medio urbano, sia soprattutto per il fatto che questa adesione aveva il carattere di un movimento di opinione ancora tutto da consolidare.
È significativo che proprio nella grandi città si siano registrate le punte più alte dello spostamento elettorale: qui infatti vi è una stratificazione sociale più complessa, e vi è una maggiore mobilità delle correnti di opinione, essendo meno saldo il tessuto connettivo tra i partiti e la società civile.
L’approccio con il nuovo elettorato non poteva avvenire, se non in misura assai limitata, attraverso i normali canali organizzativi del partito, e quindi si trattava di riesaminare tutto il sistema delle nostre relazioni esterne. In questo campo c’è ancora un grande lavoro da compiere, c’è la necessità di abbandonare schemi ormai sorpassati ed inattuali.
Non credo che sia sufficiente sottolineare il valore dei momenti di autonomia che entro la società civile si sono venuti costruendo, e ribadire che il partito, non ha mire totalitarie. Questa sottolineatura, infatti, ci espone al rischio di accedere noi stessi a quella concezione, tipica della tradizione del movimento cattolico, secondo cui all’autonomia del sociale si aggiunge l’azione politica solo come mediazione esterna, come sfera separata la cui funzione è solo quella di una regolamentazione equilibrata delle tensioni sociali. Se la società viene intesa come un sistema di autonomie inviolabili, allora viene meno ogni possibilità di un progetto di trasformazione, e la politica si riduce all’amministrazione dell’esistente.
Il problema, per noi, per un partito rivoluzionario, non può essere quello di fissare sfere di competenza, di delimitare il nostro campo di intervento: si tratta invece di esercitare una più vasta funzione di direzione, di organizzare un movimento che superi le ristrettezze corporative e che esprima, sul terreno politico, una sintesi corrispondente agli interessi generali della società. Il pericolo non è l’ambizione alla totalità, ma l’adattarsi ad una funzione di parte e minoritaria.
Ora, il movimento tumultuoso del 15 giugno aveva in sé la domanda di un nuovo rapporto con la politica, e tale movimento può rifluire, può riadattarsi entro lo schema dell’interclassismo moderato, se noi non riusciamo a riscoprire il ruolo del partito come forza dirigente nazionale.
In una grande realtà urbana come quella milanese, il ruolo di governo del partito può consolidarsi se viene decisamente superata ogni tendenza minoritaria, se ci mettiamo in grado di misurarci con la realtà sociale complessiva, con le sue effettive rappresentanze, di costruire organicamente una politica di alleanze.
Nel passato, anche per effetto della discriminazione esercitata nei nostri confronti, in molti settori della società abbiamo dovuto limitarci ad una presenza di «testimonianza», dando vita ad organizzazioni minoritarie e prive, in generale, di una effettiva consistenza e capacita rappresentativa. Oggi è possibile guardare alla situazione in termini nuovi, con maggior fiducia nelle nostre capacita di influenza e di egemonia. Occorre dunque riconsiderare profondamente tutto il nostro rapporto con le categorie del ceto medio, definire in questa direzione una «strategia» di ampio respiro. Alcune esperienze nuove e significative sono state compiute nell’ultimo periodo, come ad esempio nel settore del commercio, dove l’azione dei comunisti ha favorito un processo unitario della categoria. Ma si tratta ancora di fatti isolati, di episodi, mentre si richiede invece uno sforzo coordinato di tutto il partito.
La situazione si presenta oggi certamente meno agevole di quanto non lo fosse nel ‘75, perché le forze moderate e conservatrici, dopo il disorientamento provocato dal 15 giugno, si vanno riorganizzando e cercano di mettere a punto una propria linea di controffensiva.
Non abbiamo di fronte un avversario disarmato e sbandato, non possiamo contare sull’esito fortunato di una qualche sortita, ma dobbiamo invece agire in tutto il tessuto della società, nel campo della cultura, dell’informazione, dell’economia, delle professioni, per spostare i rapporti di forza e per impedire che si ricostituisca un blocco moderato.
L’offensiva di destra, sviluppatasi con intensità crescente dopo il ‘75, cerca di utilizzare strumentalmente la difficile fase di crisi che il paese attraversa e che rimette in discussione il ruolo tradizionale di Milano, per accreditare l’immagine di una città in declino e per attribuire la ragione di ciò all’influenza deleteria che i comunisti avrebbero esercitato nel governo della cosa pubblica, al loro schematismo ideologico, alla loro politica «punitiva» nei confronti dell’iniziativa privata. Per quanto rozze siano queste argomentazioni, esse mettono in chiaro quale sia l’obiettivo politico a cui punta la destra conservatrice: l’isolamento della classe operaia e dei comunisti, la messa in crisi di tutta la nostra politica di alleanze, la riconquista quindi, di una salda capacità di egemonia sugli strati del ceto medio urbano, nel segno di una esaltazione retorica dei valori di imprenditorialità e di libera iniziativa che hanno, nel passato, animato e guidato lo sviluppo economico e civile dell’arca milanese. È allora evidente che nella nostra iniziativa politica il tema delle alleanze, diviene fondamentale e prioritario. Occorre che nei fatti, e non solo nelle nostre dichiarazioni di volontà, si realizzi tra le diverse forze sociali una ricerca comune, per costruire insieme il futuro sviluppo di Milano. È necessario ricercare con grande duttilità tutte le possibilità di intesa, così da coinvolgere le diverse forze economiche ed imprenditoriali nell’opera di risanamento e nel rilancio della funzione di Milano nell’economia nazionale.
Qui sta la prova decisiva per il nostro partito e per le forze di sinistra. Ogni errore di massimalismo è in questa fase una sicura premessa di sconfitta.
I problemi sociali più acuti, da quelli della casa a quelli dell’occupazione e della mobilità del lavoro, non potranno trovare soluzione concreta al di fuori di questo metodo di confronto, aperto e duttile, tra istituzioni politiche e forze sociali.
Questo disegno di costruzione di un esteso blocco sociale si scontra, sul piano politico, con una Democrazia Cristiana che lavora tenacemente per impedire questo sbocco e per esasperare le contraddizioni. Mentre a livello nazionale la situazione si è mossa nella direzione di una maggiore solidarietà tra le forze democratiche, a Milano il quadro è del tutto diverso, e sarebbe illusorio pensare di modificarlo sostanzialmente nel brave periodo. La DC milanese punta tutte le sue carte su un’ipotesi di ribaltamento della maggioranza, di rivincita elettorale, e solo in questa ottica riesce la trovare un minimo di unità interna e di attivizzazione delle proprie forze. Le differenziazioni all’interno del partito non sono certo scomparse, ma risultano offuscate dentro una linea che fa da leva soprattutto sull’orgoglio di partito, sul suo rilancio.
In realtà, questa ripresa di iniziativa e di attivismo da parte della DC non significa una ripresa di egemonia: c’è molta genericità, e manca un indirizzo di governo compiuto ed organico.
Da questa situazione derivano due importanti conseguenze. In primo luogo, è necessario che il nostro partito, pur tenendo ferma la propria strategia unitaria, non sia paralizzato da un’interpretazione rigida e meccanica della politica di intesa democratica, e tenga conto realisticamente del fatto che non sono oggi presenti le condizioni e i presupposti per un nuovo tipo di rapporto con la DC. La strategia del compromesso storico può significare dunque la ricerca di un quadro generale di solidarietà democratica, entro il quale continui a svilupparsi liberamente il confronto dialettico tra le forze politiche.
In secondo luogo, dobbiamo considerare quanto mai aperta la prospettiva politica, in quanto l’offensiva democristiana, per la fragilità dei suoi contenuti, per il suo carattere solo agitatorio, può avere successo solo se incontra uno schieramento di sinistra incerto e incapace di misurarsi con la realtà.
La ravvicinata scadenza dell’80 sarà dunque, per tutti, una prova risolutiva, e ad essa ci dobbiamo avviare sconfiggendo sul nascere ogni forma di disfattismo. Perché mai non dovremmo essere consapevoli dei mutamenti che abbiamo introdotto, dello sforzo di rigore e di serietà che abbiamo compiuto, della diversa qualità del nostro modo di operare nel governo locale?
Le difficoltà nei rapporti politici col PSI non hanno impedito di procedere nella direzione del rinnovamento, anche se talora sono emerse resistenze e spinte frenanti che hanno intralciato l’azione complessiva della nuova maggioranza di sinistra.
L’esperienza milanese dimostra, nel suo complesso, come possa essere proficuamente perseguito l’obiettivo di una politica unitaria delle sinistre, nel rispetto dell’autonomia di ciascuno, delle diverse caratterizzazioni ideali, senza preconcette diffidenze e fobie.
Se si sono venuti accentuando in questa fase politica gli elementi di conflittualità, ciò dipende anche dal fatto che, chiuso il periodo del centro-sinistra, comunisti e socialisti si trovano ad operare nella stessa area politica, sia a livello nazionale sia nelle realtà locali, che pertanto si accentua la questione dell’identità, dell’autonomia, dello spazio politico e ideale che ciascun partito può ricorrere. Noi dobbiamo quindi regolare i rapporti unitari in modo che questa ricerca di identità non sia intralciata, non sia motivo di rottura, e possa invece risolversi in un allargamento complessivo dell’area di influenza della sinistra.
L’attenta considerazione per il ruolo autonomo delle altre forze politiche implica, contemporaneamente, una rigorosa difesa della nostra identità di partito. C’è chi cerca di rappresentare lo stato attuale del nostro partito come uno stato di profonda crisi, da cui si può uscire solo con una trasformazione generale della nostra cultura e del nostro modo di essere.
La verità è che questo partito, con i suoi tratti distintivi, con il suo carattere di massa, con le sue doti di compattezza e di disciplina, è stato in questi anni ed e tuttora la forza fondamentale e insostituibile per una politica di cambiamento. Grazie a questa «macchina» organizzativa, abbiamo superato le prove più aspre e abbiamo assunto nella società italiana il ruolo che oggi ci compete.
Guai a noi se dovessimo lasciarci deviare da quella sorta di guerra psicologica che si sta organizzando su larga scala, e che punta a diffondere un clima di sfiducia. La verità dei fatti, in una tattica di logoramento psicologico, non ha più alcun valore; se si decide, ad esempio, che le elezioni all’Alfa Romeo debbono essere il segno di una decadenza ormai inarrestabile dei comunisti, a che vale opporre il semplice fatto accertato e documentato che i delegati comunisti sono notevolmente aumentati?
Come possono permettersi i fatti di smentire gli schemi di interpretazione che sono stati scelti in anticipo e da cui, appunto, deve discendere l’idea della crisi del partito comunista?
Il discorso sul partito richiede, quindi, in primo luogo una capacità di analisi oggettiva e di realismo, che non sia condizionata dalle manovre di logoramento che vengono tentate nei nostri confronti.
I problemi che ha di fronte il partito in una grande realtà urbana come quella milanese sono quelli di uno sviluppo più conseguente e generale delle proprie caratteristiche di grande partito di massa. Le trasformazioni profonde che sono avvenute nell’assetto urbano hanno agito anche sulla nostra organizzazione, hanno creato problemi e difficoltà, hanno talora indebolito quella rete di organizzazione capillare su cui abbiamo fondato la nostra forza. L’effetto più negativo è che, in una certa misura, si è riprodotta anche all’interno del partito la separazione tra fabbrica e società, tra attività produttiva e tessuto sociale. Se il disegno di cambiamento della società ha come sua forza motrice la classe operaia, è allora necessario che nella vita complessiva del partito il ruolo dei quadri operai abbia un peso determinane, che il carattere di classe del partito sia la bussola su cui si orienta tutta la nostra vita interna.
Il problema della democrazia interna e del suo sviluppo, ad esempio, deve essere affrontato ponendo al centro questa questione, considerando cioè la democrazia non come un esercizio astratto di diritti, ma come il mezzo per la formazione di una nuova classe dirigente.
Quando nelle nostre organizzazioni prevalgono concezioni democraticistiche, quando le esigenze operative sono sovrastate da un uso ridondante e retorico dell’arte della parola, il risultato inevitabile è l’emarginazione dei quadri operai, la loro estromissione dalle funzioni dirigenti.
E l’esempio degli altri partiti mostra visibilmente come l’effetto di certe decantate democrazie interne sia la progressiva liquidazione di ogni influenza dei quadri operai.
Il nostro partito, a Milano, ha mantenuto una sua spiccata caratteristica di classe, ed è questo un dato che dovrà essere sviluppato e valorizzato ulteriormente nell’imminente campagna congressuale. All’appuntamento del congresso ci stiamo avviando con un partito rinnovato, con una nuova generazione di militanti, su cui occorre far leva con piena fiducia. Ciò che soprattutto è necessario è lo sviluppo dello «spirito di combattimento», dello slancio, della partecipazione attiva, ragionata e appassionata, alla lotta politica.
Non ci chiuderemo in noi stessi a meditare sulla complessità e difficoltà della situazione e a coltivare l’arte ambigua dell’autocritica, ma lavoreremo invece per consolidare le posizioni conquistate, per essere all’altezza del ruolo di governo che abbiamo assunto, per essere in tutti i campi della società una grande forza organizzata e di massa.
Busta: 7
Estremi cronologici: 1978, 1 dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 47, 1 dicembre 1978, pp. 19-20