ORGANIZZAZIONE E POLITICA NELLA REALTÀ METROPOLITANA

di Riccardo Terzi

1) Non c’è discorso sul partito politico che non sia anche, contestualmente, discorso sulla politica. Il partito come puro strumento, come macchina, come forma, non esiste se non per astrazione, come concetto provvisorio, e trova la sua ragion d’essere e il suo contenuto effettivo nella concretezza d’una data situazione politica.

Non ritengo possibile scindere questi due momenti, e mi sembra pertanto che sarebbe infruttuosa una discussione che non prenda le mosse dalla esperienza politica reale, dai suoi risultati, dalle sue contraddizioni.

Se oggi si ripropone il tema del partito e si avverte la necessità di una discussione attorno ad esso, ciò avviene perché c’è stata in questi anni una storia politica complessa, c’è stata tutta una serie di passaggi, di tentativi, di prove politiche concrete: la politica di solidarietà democratica, il suo esaurimento, la ricerca di una nuova prospettiva.

Anticipo qui una possibile linea interpretativa.

I momenti di sviluppo e di espansione sono quelli in cui il partito riesce ad essere, insieme, forza di governo e forza alternativa.

Così è stato nel 1975-1976: in quegli anni si mette in moto un vasto spostamento di forze nella società, che puntano ad una nuova direzione politica del paese, ad un ricambio di classe dirigente, e il PCI riesce ad essere il punto di riferimento e di raccordo di tutto questo processo.

Se invece i due momenti, del governo e dell’alternativa, sono tra loro separati, allora si determina un periodo di crisi o di stagnazione, il partito può apparire insediato nell’area di governo senza essere portatore di un disegno e di una capacità effettiva di cambiamento, oppure può rappresentate una forza di opposizione, compatta ma inerte, tagliata fuori dal corso fondamentale degli eventi.

Non si tratta solo di un problema nostro: la difficoltà di coniugare alternativa e governabilità è chiaramente visibile in tutta la storia recente del PSI e ne spiega l’andamento tortuoso.

La storia dei due partiti della sinistra è sempre una storia intrecciata e non ci può essere, per nessuno di essi, una definizione valida della propria collocazione e della propria prospettiva che non ricomprenda in sé il tema più generale del ruolo della sinistra.

Così è anche oggi. Se dovesse prevalere uno spirito di partito chiuso e ristretto tutta la sinistra sarebbe spinta in un vicolo cieco.

La questione è quella di gettare le basi di un’alternativa di governo credibile e non propagandistica, e ciò può avvenire solo sulla base di una rinnovata intesa tra le forze della sinistra.

Tutta la discussione che si è avuta all’interno del partito in questa ultima fase si muove, pur tra oscillazioni, in questa direzione. Con il comunicato della Direzione del 27 novembre dello scorso anno si chiude una fase politica e prende corpo l’obiettivo di una alternativa democratica.

Da ciò può venire un nuovo corso della politica del partito, un nuovo ciclo politico.

Lo strumento partito deve essere messo in sintonia con questa prospettiva, la sua forma adeguata sta nell’essere funzionale a questa esigenza di ricongiungere il carattere di governo del partito e il suo essere portatore di un’alternativa politica.

 

2) Il punto di osservazione di Milano, come grande area metropolitana, è particolarmente fecondo per tentare di inquadrare i problemi attuali del partito.

In questi anni, a Milano e in altre grandi città, è stata messa concretamente alla prova la possibilità di dar vita ad una politica di alternativa democratica, e proprio a Milano ciò suscitava legittime preoccupazioni ed incertezze, data la relativa debolezza nostra e la forza del blocco di potere capitalistico.

Ora, superato il difficile e insidioso passaggio della verifica elettorale del 1980, il partito ha potuto liberarsi da quella pericolosa condizione di insicurezza che l’ha frenato e impacciato negli anni passati.

Il varco che si era aperto con il voto del 15 giugno del 1975 non era stato imboccato e percorso con sufficiente determinazione, e restava l’idea che si trattasse di una fase di provvisorietà, nell’attesa che maturassero le condizioni di una più ampia solidarietà democratica.

Era questo un errore di prospettiva politica. Tutta l’esperienza di questi anni ci dimostra che la vitalità della democrazia consiste nello sviluppo di una libera ed aperta competizione, in cui ogni forza faccia valere pienamente i propri valori, la propria fisionomia.

Quando si oscura la linea di demarcazione tra i partiti politici, allora la vita democratica si impoverisce e si allenta la tensione politica, oppure sorge il sospetto del regime e scatta immediatamente una reazione nel corpo della società.

Ciò che a noi viene chiesto è di scendere in campo con la nostra identità, di essere il punto di riferimento e di aggregazione per una battaglia di lungo periodo che si ponga l’obiettivo di un profondo rinnovamento dello Stato.

Se c’è stato un ritardo nel dichiarare a viso aperto la nostra piena legittimità come forza di governo e come asse di un’alternativa politica, tuttavia si è dimostrato che questa è una via percorribile, che essa non porta necessariamente all’avventura e a lacerazioni traumatiche nel tessuto democratico.

In realtà, a me pare che il fatto rilevante che caratterizza la presente fase politica sia proprio la messa in discussione, a livello di massa, del regime vigente, delle sue forme e della sua logica. Una tale tendenza investe forze sociali diverse, e certamente può dar luogo a sbocchi e a spinte politiche assai differenziate, anche ad esiti pericolosi. Ma si tratta, appunto, di partire da questo dato di crisi, di coglierne tutta l’ampiezza e complessità, e di non rimanere invischiati in un realismo politico miope che condanna la sinistra ad essere forza di supporto e a subire come un dato indiscusso la centralità politica della Dc come cardine insostituibile del regime democratico.

Per la Democrazia cristiana il problema delle alleanze politiche si riduce ad un problema di cooptazione e di assimilazione. È evidente che l’accettazione di un tale terreno significherebbe per la sinistra un atto unilaterale di abdicazione, una rinuncia alla propria ragion d’essere. L’esperienza accumulata a partire dal 1975 ci offre quindi un utile materiale di verifica e di riflessione. Per quanto riguarda il nostro partito e la sua esperienza a Milano, possiamo dire che non è stata colta con prontezza la portata dei nuovi compiti di governo, che il modo di essere e di operare dell’organizzazione non ha saputo compiere quella “riconversione” che il nuovo quadro politico richiedeva. E ciò indubbiamente ha pesato in senso negativo, lasciando che apparisse in maggior risalto ed evidenza il ruolo del partito socialista. Tra linea politica e strumento partito non si è trovata, in sostanza, una sufficiente sintonia.

 

3) Nelle grandi concentrazioni urbane abbiamo assistito, in questi anni, a spostamenti politici di grande ampiezza: nuovi ceti, nuovi soggetti politici sono venuti emergendo e anche strati sociali tradizionalmente passivi si sono messi in moto e tendono a farsi valere come forza autonoma e organizzata, non sentendosi più garantiti e rappresentati da un sistema di potere ormai attraversato da una crisi profonda. Il venir meno delle grandi opzioni ideologiche crea le condizioni per un’ampia mobilita elettorale, e allora ogni volta il consenso va conquistato e dipende da ciò che un partito fa, e non da ciò che dichiara di essere. Questo processo di laicizzazione e questa tendenza ad una visione pragmatica della politica, segnano sostanzialmente un progresso rispetto all’inerzia che ha caratterizzato nel passato il nostro sistema politico, paralizzato in blocchi contrapposti, ma nel contempo pone a tutti problemi e difficoltà nuove, e richiede una grande capacità di dialogo aperto con la società.

Non si tratta semplicemente di uno spostamento politico, ma di una rottura culturale non reversibile, di un processo profondo attraverso cui le forze sociali tendono ad una affermazione autonoma del loro ruolo e dei loro diritti, rimettendo in discussione un dominio politico non più legittimato dal consenso, non più capace di egemonia.

La sinistra ha una grande carta da giocare, un’occasione non facilmente ripetibile, ma deve sapere che la domanda di cambiamento la coinvolge direttamente, che essa stessa e messa alla prova e viene giudicata con severità.

Inoltre è evidente che questa opposizione del sociale al politico contiene un’ambivalenza e può avere anche un esito conservatore e corporativo, e che pertanto non si tratta solo di assecondare i movimenti in atto, ma di intervenire su di essi e di guidarli.

Ecco che allora il campo di azione del partito appare oggi assai più vasto, che il sistema dei suoi collegamenti sociali ha bisogno di una straordinaria espansione, Non è più rintracciabile una chiara linea di demarcazione tra le nostre roccaforti sicure e il campo avversario nel quale si può penetrare solo con grande difficoltà, ma occorre sapersi muovere con grande agilità in tutte le direzioni.

Nella moderna società le grandi correnti d’opinione si trasmettono in tutto il corpo sociale, e certe linee di tendenza oggi minoritarie possono rapidamente diffondersi e modificare l’intero clima politico. Così è avvenuto, in effetti, in questo decennio: con il movimento del sessantotto si è verificata una rottura che ha investito l’intero corpo sociale e ne ha sconvolto gli equilibri, attivizzando forze prima passive e scuotendo anche le certezze tradizionali del movimento operaio.

Assai evidente è questo fenomeno tra le nuove generazioni, in cui si afferma, al di là della diversa collocazione sociale, un orientamento culturale e ideale largamente omogeneo, una “cultura della crisi” che penetra in tutto il tessuto sociale.

La società tende ad una unificazione culturale, diviene più fluida nei suoi processi, e cambia, quindi, per molti aspetti, il modo di essere della politica.

Per illustrare con una formula questo concetto, potremmo dire che c’è un processo di ritorno dalla guerra di posizione alla guerra di movimento; nel momento in cui entra in crisi tutto un sistema di potere, e c’è il rischio di un crollo e di una disgregazione che travolgano l’ordinamento democratico, non può più bastare una conquista graduale di posizioni, ma si impone una iniziativa che punti a dare, anche sul terreno culturale, una risposta al problema della direzione politica del paese e del suo avvenire. Non è un caso che il fenomeno del terrorismo abbia oggi uno spazio prima impensabile: vi è in questo il segno della crisi e del precipitare degli eventi. La politica dei gruppi terroristici non è solo follia e fanatismo, ma disegno consapevole, calcolo politico, tentativo di forzare e di esasperare il processo della crisi.

L’ampiezza del fenomeno e i legami molteplici che esso ha potuto stringere, in modo più o meno diretto, con settori operai e con ambienti culturali, dimostra che siamo ad un punto decisivo di trapasso: che è posta, in sostanza, la questione di un nuovo ordinamento politico. La partita sarà vinta da chi sa guardare, con più lungimiranza, all’avvenite della società italiana.

Chi invece si attarda in calcoli e manovre di breve respiro si troverà rapidamente spiazzato. Ecco perché tutta la nostra iniziativa politica deve avere oggi una accelerazione, in quanto ci troviamo nel pieno di uno sconvolgimento politico che non consente più di procedere a piccoli passi.

 

4) Rispetto alla situazione che ho cercato di tratteggiare, l’organizzazione del partito appare in ritardo, non abbastanza dinamica, non adeguata ad una fase politica di crisi e di rapidi spostamenti.

La struttura organizzativa del partito ha come sua caratteristica fondamentale una distribuzione orizzontale sul territorio in corrispondenza con i livelli amministrativi dello Stato. Si pongono contemporaneamente due esigenze, tra loro contraddittorie: rivitalizzare questa struttura e superarla.

Sono del tutto evidenti le difficoltà obiettive che si oppongono alla costruzione di una struttura capillare sul territorio in una grande concentrazione urbana.

Grandi sforzi sono stati compiuti, con una politica organizzativa che ha portato alla costruzione di nuove sezioni, al rinnovamento delle sedi e delle attrezzature: il risultato indubbio di tutto questo lavoro e il fatto che il Pci è l’unica forza politica che dispone di una struttura sufficientemente capillare, di una vera e propria rete organizzativa che, di fronte all’impetuoso sviluppo della società, ha saputo, sia pure faticosamente e parzialmente, adeguarsi.

Ma questa rete organizzativa, che è uno dei punti di forza di cui possiamo disporre, rischia progressivamente di essere svuotata e debilitata nelle sue funzioni politiche. È in atto una crisi delle nostre strutture di base: crescente mobilità dei gruppi dirigenti, in una misura che non può essere ricondotta all’opportuno ricambio fisiologico, senso di frustrazione, sfilacciamento di quei rapporti esterni che configuravano la sezione come un effettivo centro di iniziativa politica. Come reazione a queste tendenze negative, si tratta di ridefinire una linea di politica organizzativa che abbia come criterio ispiratore la centralità della sezione in quanto fondamentale struttura di base.

Il tema della centralità della sezione può suggerire numerose considerazioni, ma una mi sembra la questione davvero decisiva e determinante.

Il fatto è che tutte le decisioni politiche di un certo rilievo avvengono ad un altro livello, che solo formalmente la sezione conserva i suoi requisiti di prima e fondamentale istanza politica, che nei fatti essa tende a ridursi a compiti solo operativi (propaganda, mobilitazione a sostegno delle iniziative centrali, ecc.). La questione è quindi quella della democrazia nel partito.

Mi pare che stia qui il problema cruciale su cui dobbiamo lavorare con grande impegno e con coraggio innovativo.

È anche questo un segno dei tempi, dell’evoluzione della società: nel passato agivano altri meccanismi, altre forme di identificazione con il partito, ma oggi è assolutamente impensabile un’attivizzazione estesa di quadri e di militanti che non sia fondata sul riconoscimento concreto del loro ruolo nei processi decisionali, sulla creazione di spazi reali di democrazia.

C’è un dato rivelatore: i quadri più capaci tendono sempre più a collocarsi in un ambito diverso da quello della sezione, nel lavoro delle assemblee elettive, o negli organismi di massa, o nelle strutture di zona e di federazione. Il quadro fondamentale del partito e staccato dalle strutture di base, non partecipa se non in modo del tutto episodico alla loro attività, Basterebbe fare un’indagine sulla composizione degli organismi dirigenti provinciali: nei comitati federali sono una piccola minoranza i compagni che hanno una responsabilità politica nelle sezioni. E allora le strutture di base diventano la sede dell’apprendistato politico, della sperimentazione di nuovi quadri, destinati poi ad altre più elevate funzioni.

Per dare all’indicazione della centralità della sezione un senso concreto occorre che essa divenga, sotto ogni profilo, il passaggio obbligato: per le scelte politiche e per la selezione dei quadri. Ciò comporta un ribaltamento della prassi abituale, nel senso che il movimento dal basso verso l’alto deve divenire il movimento fondamentale. Non mi nascondo tutte le difficoltà di questo mutamento, che rimette in discussione tutto un modo di essere del “centralismo democratico”, ma non mi pare impossibile dare un segnale chiaro di svolta.

Vorrei fare, in via del tutto ipotetica, alcuni esempi di un possibile rinnovamento democratico: affidare le decisioni politiche impegnative all’approvazione degli organismi di sezione anche sulla base di opzioni alternative, fissare per gli organismi dirigenti provinciali una regola che imponga una percentuale significativa di compagni impegnati negli organismi di sezione, applicare anche in via sperimentale forme di elezione degli organismi dirigenti con voto segreto su liste aperte, consolidare e definire con un preciso e impegnativo regolamento il metodo delle elezioni primarie per i candidati del partito.

Lo stesso funzionamento dei nostri congressi (e dei nostri organismi) può essere sostanzialmente riformato, facendo sì che alla discussione onnicomprensiva, che accentua i compiti di mediazione dei gruppi dirigenti, subentri una discussione e una decisione su punti politici chiaramente definiti.

Si tratta, con misure di questo tipo, tutte ovviamente da discutere e da approfondire, di riportare alla sezione il centro della vita del partito, e di ricondurvi la massa fondamentale dei nostri quadri. Il funzionario di partito, il consigliere comunale, il dirigente di un organismo di massa, l’intellettuale, tutti questi quadri, oggi largamente esentati dalla attività di base, debbono essere ricondotti alla sezione, non sulla base di una spinta volontaristica, ma perché lì, nella sezione, è il vero punto di partenza della formazione della volontà politica. Questo sviluppo della democrazia è oggi essenziale per coinvolgere nuove forze, per dar vita a una nuova leva di militanti. Non è democraticismo. È il fatto che oggi la politica tende sempre più ad apparire, e ad essere, una sfera separata, una specializzazione, e che pertanto si può sanare questa separazione solo se si costruisce uno strumento che sia, nel suo funzionamento sostanziale, permeabile, capace di accogliere e di riflettere i movimenti della società.

 

5) Questo obiettivo di rivitalizzazione democratica delle nostre strutture di base deve essere perseguito con grande tenacia, anche perché tra tutte le forze politiche italiane il PCI è l’unico partito in grado di proporsi seriamente un tale risultato, in quanto già dispone di una struttura articolata assai ricca e di un prezioso potenziale di energie di base.

E tuttavia lo sviluppo della società moderna pone in misura sempre più grande questioni che inevitabilmente sfuggono alla rete delle strutture territoriali.

Tutti i compiti relativi all’elaborazione di una linea di governo, che sia adeguata ai livelli alti dello sviluppo, presentano una tale complessità da rendere inagibile un movimento lineare dal basso verso l’alto. Vi è anzitutto il fatto che la dimensione dei problemi tende sempre più ad essere rapportata al livello dell’intera area metropolitana, rimettendo in discussione gli attuali assetti istituzionali ed esigendo, pertanto, un superamento radicale di ogni forma di municipalismo o di “cultura di quartiere”. A me sembra che tutta una visione della partecipazione sia oggi messa in crisi e segni il passo: organismi di quartiere, democrazia diretta nella scuola, forme di autogoverno in un ambito territoriale ristretto, tutto ciò ha un valore necessariamente limitato e non risolve il problema dell’organizzazione di una democrazia moderna.

Prendiamo l’esempio della grande città: la dimensione del quartiere è sempre meno significativa in una realtà urbana che realizza una estrema mobilità e in cui l’aggregazione avviene sempre più su una base più ampia e più complessa. Il cittadino milanese vive la dimensione della città nella sua interezza, e non si lascia racchiudere nei confini angusti del quartiere.

Abita in un quartiere, ma lavora in un altro, e ha legami ed interessi che lo collegano in modo assai vario con la intera città. O vogliamo forse ritornare a quello stile di vita che confina l’esistenza nel cerchio di rapporti fissi e ripetitivi e di una angusta e pettegola familiarità da paese?

C’è un movimento progressivo che conduce ad una continua dilatazione degli orizzonti. Talvolta la cultura di sinistra sembra essere refrattaria a questa tendenza, e-si perde in rimpianti idealistici.

Ma, nonostante ciò, la vecchia cultura dialettale e paesana è in via di estinzione, e i grandi mezzi di comunicazione uniscono ciò che prima era separato. Tutto ciò mi sembra un fenomeno indubbiamente positivo.

La dimensione urbana: con essa dobbiamo fare i conti cogliendone, insieme con le contraddizioni, la grande forza progressiva che essa sa sprigionare, la liquidazione di vecchie incrostazioni, il più aperto e universale senso della vita che essa sollecita.

In sostanza, nella grande città, all’aggregazione orizzontale del quartiere, che era nel passato preminente, subentra ora in misura sempre più grande un tipo di aggregazione che potremmo definire “verticale”, basato sulla comunanza degli interessi, culturali o professionali o di qualsiasi altra natura.

Ciò non è senza conseguenze per l’organizzazione del partito. La nostra attuale rete organizzativa non può contenere ed esprimere questi processi.

Per entrare in contatto con strati rilevanti della società, si richiedono strutture specializzate: centri culturali che affrontino determinate tematiche, centri giovanili, momenti vari di aggregazione e di elaborazione nei quali possa riflettersi la complessità sociale e culturale della città.

Si tratta allora di ripensare e di riorganizzare tutte le nostre strutture “verticali”, di dare un ruolo più rilevante alle commissioni di lavoro, che attualmente sono costrette entro uno schema organizzativo troppo rigido che ne limita l’iniziativa e che tende a burocratizzarle.

Insomma, per i vari settori della società abbiamo bisogno di una struttura aperta e con ampi margini di autonomia, capace di una propria vita politica e proiettata a costruire un sistema vasto di relazioni sociali.

Anche da questo punto di vista, c’è da correggere una tendenza centralistica troppo rigida, che diviene ormai un impaccio, e diviene necessario aprire anche dentro il partito un certo pluralismo. Nel campo della ricerca e della elaborazione culturale, in modo particolare, l’esistenza riconosciuta di diverse posizioni, di diversi indirizzi, non è un dato negativo, ma uno stimolo utile per l’insieme del partito.

Da ciò viene anche la necessità di una linea di decentramento che modifichi lo stile di lavoro dei gruppo dirigente nazionale e che sappia meglio modellarsi su una realtà, quale è quella italiana, articolata e policentrica, non riconducibile entro parametri organizzativi, culturali e politici che siano uniformi e centralizzati.

 

6) Abbiamo parlato di due esigenze contraddittorie: rivitalizzare le strutture territoriali di base, e nel contempo puntare sempre più decisamente su forme di organizzazione politica per settori di interesse, svincolate dai criteri di rappresentanza territoriale.

Il rapporto tra queste due questioni è il rapporto tra democrazia e specialismo. Noi dobbiamo sviluppare entrambi i lati di questo rapporto. In quanto partito di governo dobbiamo saper tradurre la linea politica generale in un complesso di scelte concrete, di obiettivi, di elaborazioni settoriali, e ciò comporta uno stile di lavoro che valorizzi queste capacità, che tenda a formare una nuova figura di “quadro dirigente”, il cui compito non si esaurisca nei generico orientamento, nell’arte pura e astratta della politica.

D’altra parte, occorre che ogni singola scelta sia sottoposta ad una rigorosa verifica democratica, che non si costituisca anche dentro il partito una élite politica a cui sia consentito prendere decisioni sopra la testa dell’organizzazione.

Democrazia e specialismo, sono i due lati contraddittori della società moderna. Nella realtà, questi due lati sono disgiunti: c’è un rigonfiamento di partecipazione democratica che tende a restare fine a se stessa, a scadere nel vuoto esercizio verbale, e c’è, d’altro lato, una frantumazione dei saperi e dei poteri che tende a negare le istanze della democrazia e a costituirsi come un complesso di “corpi separati” incontrollati.

La contraddizione c’è, e anche nel partito tende spontaneamente a riprodursi. Altre forze politiche hanno seguito un percorso che conduce all’abbandono di ogni istanza democratica: il partito diviene una macchina elettorale che affida il proprio rapporto con i cittadini ai mezzi di comunicazione di massa, a una politica “di immagine”, o alla mediazione di potenti organizzazioni corporative.

In questo senso la Democrazia cristiana, in una realtà come quella milanese, non esiste più come partito politico di massa. Esiste come un conglomerato elettorale in cui confluiscono diversi canali organizzativi: le associazioni confessionali, le corporazioni di categoria, i mass-media.

A ciò spingono fattori oggettivi, ma in questo esito è anche la ragione della crisi dei partiti.

Quanto più il sistema politico si distacca dalla società e si costituisce come corpo separato, tanto più può essere rimesso in discussione. Il sistema di potere democristiano sta attraversando, appunto, questo passaggio: esso è sempre meno espressione organica di un blocco di forze sociali, e per questo diviene vacillante la sua capacità di egemonia.

Una forza alternativa può essere capace di affermarsi se riesce a costruire un tessuto democratico reale, a non riprodurre in se stessa la contraddizione-separazione tra società e politica, tra democrazia e specialismo. Quali caratteri debba avere oggi un moderno partito di massa, ecco la questione.

Partito di massa, in opposizione alla tendenza che spinge verso il partito di opinione; partito moderno, capace di calarsi nella realtà di oggi, di rinnovare le sue forme, di offrirsi alle forze più vitali della società come un punto di riferimento dinamico e flessibile.

 

7) Occorre a questo punto render chiaro, per dare un senso complessivo a tutto questo discorso sui problemi attuali del partito, il fatto che sta cambiando il rapporto con la politica, che siamo in presenza di un mutamento profondo delle coscienze, non ancora del tutto visibile ed esplicito, che pone in discussione la stessa dimensione politica. Soprattutto nei grandi centri urbani si sono venuti intensificando, negli ultimi tempi, fenomeni e comportamenti di tipo nuovo: sul piano politico, l’astensionismo, l’accresciuta mobilità elettorale, gli atteggiamenti di sfiducia diffusa verso l’intero sistema dei partiti; sul piano del costume, il rilievo nuovo che ha assunto tutta la tematica della vita soggettiva, e tutti quei segnali che, sbrigativamente, sono stati catalogati sotto la categoria del riflusso.

Sarebbe fuorviante, a mio giudizio, una valutazione che riducesse tutto questo complesso di espressioni della coscienza pubblica sotto il segno del qualunquismo e della regressione individualistica. Un tale approccio moralistico ci preclude la possibilità di comprendere la natura dei problemi e delle sollecitazioni che ci vengono dalla società.

Possiamo forse trovare una chiave di interpretazione di quanto si sta verificando nel superamento e nella messa in discussione del primato della politica.

Un esempio significativo ci viene dal processo in atto nelle nuove generazioni: sono caduti i miti dell’estremismo sessantottesco, è entrata in crisi la tendenza ad una politicizzazione assoluta, a una concezione “ideologica” semplificatrice ed estrema, e tutto ciò si risolve nel recupero di una più equilibrata e misurata razionalità.

La politica non riesce più a riassumere in sé tutte le manifestazioni del reale, ad essere l’esclusivo e totale quadro di riferimento. Ecco allora l’emergere di nuove tematiche, l’affermazione della loro autonomia e della loro irriducibilità, come avviene per tutti i problemi della vita soggettiva, del privato, come avviene nel movimento delle donne, che vuole affermare una sua carica dirompente al di fuori degli schemi politici consueti, e una tale tendenza ad emanciparsi dalla politica e visibile in tutta una serie di fenomeni sociali e culturali.

Di qui l’immagine di disgregazione che la società offre. Ma se ci fermassimo a questo primo giudizio, cadremmo in errore, e saremmo spinti su un versante pericoloso, su una linea di restaurazione.

Tutto il fenomeno “radicale”, preso nella sua sostanza, sta in questo movimento della società: esso è una critica della politica, delle sue forme tradizionali, ed e questa una tendenza di cui occorre cogliere la portata complessiva, al di là dei fenomeni strettamente politico-elettorali (voto radicale, astensionismo), che possono essere un episodio marginale e transitorio.

Questa critica della politica ha in sé due potenzialità contrapposte: può essere l’affermazione di una più elevata coscienza civile, di una più netta presa di coscienza della società come soggetto e come artefice della politica, oppure può avere il senso di un ritorno ad uno stadio corporativo della coscienza pubblica, di un offuscamento che riconduce l’individuo entro la sfera ristretta dei suoi interessi immediati e delle sue relazioni private.

La partita oggi in corso e tra queste due eventualità, tra questi due esiti possibili.

Ecco perché tutta la questione del partito politico e del suo modo di essere viene oggi rimessa in discussione. Senza una capacità di rinnovamento delle forme della politica, tutta la società può essere spinta nella direzione di una “americanizzazione” della vita e delle coscienze, di cui già sono visibili molti sintomi allarmanti.

Nelle grandi concentrazioni urbane questo complesso di problemi si manifesta in modo più netto, proprio perché più acute sono le contraddizioni e più visibile il divario tra emancipazione politica ed emancipazione umana, tra democrazia e libertà.

Se ci fermiamo al primo lato di questo rapporto, se restiamo nel quadro di quella concezione, ancora tutta politica, che punta ad una espansione di massa della democrazia, non cogliamo la novità dei processi, e allora ci apparirà come riflusso, come ripiegamento, tutto ciò che non rientra nel nostro modello politico.

Insomma, nella critica della politica, nel fermento confuso che oggi agita la società in opposizione ad un sistema politico irrigidito, non è più prevalente, come è stato nel passato, l’orientamento reazionario e qualunquistico, ma c’è un dato nuovo, potenzialmente progressivo, in quanto la politica viene ricondotta alla sua radice, ai bisogni primari dell’uomo, alla qualità della vita.

L’essenziale è cogliere questo cambiamento di clima, Per un partito come il nostro, che ha alle spalle un suo sistema di valori compatto e una concezione alta e spiccata del suo “ruolo dirigente”, non è agevole compiere questa riconversione. Ciò comporta anche ripensamenti teorici rispetto alla nostra tradizione. La domanda che ci viene rivolta a proposito del nostro retroterra ideologico non è solo una astuta provocazione, ma è, per tanta parte della società e per noi stessi, una questione reale.

Ciò che suscita diffidenze e timori è proprio quel primato della politica, così fortemente radicato nella nostra tradizione, e a cui possono essere fatte risalire le deformazioni autoritarie che il socialismo ha storicamente subito.

D’altra parte, non è in atto negli stessi paesi socialisti un processo analogo, una spinta della società ad uscir fuori da un sistema politico rigido e a far valere la propria autonomia?

Un nuovo tipo di rapporto tra partito e società non è dunque per noi un ripiegamento tattico, ma una concezione più matura e sviluppata della stessa prospettiva socialista.

 

8) L’approdo di tutto questo percorso può essere una pericolosa riproposizione dello spontaneismo: il partito che asseconda ed interpreta la spontaneità sociale.

È necessario allora, pur dentro la complessità della società moderna, rintracciare quel filo conduttore essenziale che ci riporta alla nostra ragion d’essere come partito di classe. In questo rapporto è il centro motore di tutta l’iniziativa del partito.

Ma occorre che il tema della centralità operaia sia adeguatamente impostato: una tale centralità non esiste come puro fatto materiale, e anzi in questa sua forma essa sembra travolta dai processi sociali in atto, e può allora essere legittimata l’idea che fa della politica una tecnica permanente di mediazione tra interessi materiali diversi, tra i quali occorre di volta in volta trovare l’equilibrio possibile,

Nella realtà milanese, è questo un aspetto decisivo. Tutto un modo di essere tradizionale del movimento operaio è rimesso in discussione, ed è forte la pressione, di gruppi politici e sociali, a relegare la classe operaia in una posizione marginale. Questa tendenza è presente nell’ambito stesso della sinistra, nei processi nuovi e nella dinamica che hanno investito l’area socialista, e anche, parzialmente, negli stessi cambiamenti che si sono verificati nella natura del nostro partito.

Nel rapporto tra partiti e sindacato si esprime questa difficoltà e questa crisi. Il sindacato è in un momento critico, e subisce un attacco multiforme, di cui è un sintomo grave l’esistenza, anche nel partito, di una tendenza ad una critica aspra, generalizzata, a tutta l’esperienza sindacale di questo decennio.

È dunque evidente che la questione si pone oggi, rispetto al passato, in termini nuovi, che la forza della classe operaia non può più farsi valere come pura forza materiale, che la sua centralità non può che essere il risultato di un processo politico complesso, di una elaborazione, di una strategia di alleanze sociali.

Il ruolo centrale della classe operaia può affermarsi solo sul terreno politico e presuppone il superamento e il ripudio di ogni forma di operaismo chiuso, dello stadio corporativo della coscienza di classe.

La difficoltà attuale della nostra politica dipende molto dalla difficoltà che incontra questo sviluppo più maturo del ruolo dirigente della classe operaia.

C’è ancora un limite corporativo non superato, e ciò comporta una battaglia politica non facile dentro lo stesso movimento di classe.

Se non viene risolta questa questione fondamentale, è lo stesso ruolo del partito che non riesce ad esplicarsi: da un lato sta il rapporto con la classe operaia come rappresentanza di interessi determinati, dall’altro sta una politica che non si alimenta di questo rapporto e che non riesce a sufficienza a dimostrare una sua diversa qualità nell’ambito del sistema politico.

La lotta e dunque su due versanti: contro l’operaismo corporativo, contro ogni forma di immaturità politica della classe operaia, e insieme contro la politica come mera mediazione.

Questi due difetti si ritrovano anche dentro il partito, e la separazione esistente tra fabbrica e territorio fa sì che convivano, giustapposti.

Nella fabbrica tende ad affermarsi una politica ristretta, chiusa dentro un orizzonte para-sindacale, e all’esterno la politica si sviluppa su dei binari che non incontrano mai, o quasi mai, la realtà produttiva, il cuore della vita economica, la fabbrica.

Vi è insieme il difetto dell’operaismo e il difetto contrario. È questo un nodo difficile da districare, anche dal punto di vista organizzativo, perché la separazione è reale, e tutti i processi oggettivi spingono nel senso di questa separazione.

Le esperienze organizzative fin qui tentate per un raccordo tra fabbrica e territorio (i consigli dei lavoratori comunisti) vanno tuttora perseguite con grande tenacia, ma hanno un limite, e non possono di per sé rimuovere l’ostacolo di fondo.

Non si tratta allora tanto di misure organizzative, ma di processi politici.

Nella fabbrica si può approdare ad una visione politica più ampia se prende corpo il modello di una democrazia industriale che consenta alla classe operaia, nella sua autonomia, di esercitare una funzione dirigente.

E analogamente è un processo di maturazione del partito come forza di governo che può offrire alle organizzazioni territoriali un campo d’iniziativa meno ristretto e una capacità, quindi, di intervento anche sui processi produttivi.

 

9) La formula usata all’inizio, forza di governo e forza alternativa, ti dà il quadro in cui tutti questi problemi si pongono.

So bene di non aver indicato se non sommariamente problemi, esigenze.

Ma già sarebbe utile che di tutto questo si discutesse con animo aperto, nella convinzione che molte cose stanno cambiando e che noi stessi dobbiamo saper dire e fare qualcosa di nuovo.

L’esigenza di un’alternativa politica è nelle cose, è oggettivamente aperta.

Ma, certo, non può maturare spontaneamente: occorre un partito che sappia prendere in mano questo problema con fermezza, con decisione, e con realismo. E questo partito deve essere in grado di parlare il linguaggio della società di oggi, di entrare con essa in un rapporto fecondo, di raccogliere in uno schieramento ampio e multiforme tutto un arco di forze sociali.

Il quadro della società non è quello dello sfascio e della disgregazione, come spesso viene rappresentato. C’è una cultura del catastrofismo da cui consegue, necessariamente, l’istanza di un potere politico forte o di una unità nazionale compatta, capace di creare un argine nei confronti di una società non più regolabile dentro le normali regole democratiche.

In realtà tutta questa rappresentazione “ufficiale” della crisi non è che un estremo tentativo del sistema politico di confermare e legittimare il proprio dominio. Noi abbiamo subito un processo di logoramento nei momento in cui anche la nostra proposta politica è sembrata muoversi in questa ottica.

Nella società esiste un complesso di energie potenziali che possono essere attivate alla condizione che la politica si presenti loro con un volto rinnovato, non come una sfera separata, ma come la possibilità di riprendere possesso della propria esistenza, individuale e collettiva.

Pensiamo, ad esempio, al mondo della cultura e della scienza, al ruolo che esso può avere in un’azione di governo che sia finalmente sottratta alla logica aberrante dei gruppi di potere, ai loro interessi inconfessabili, al personale politico miserevole che essa produce.

Tutte le questioni complesse dello sviluppo di una società moderna richiedono questo apporto della scienza, Ma ciò può avvenire solo se si afferma una diversa qualità del potere, se un segno chiaro e autenticamente nuovo appare sulla scena politica.

È questo il processo da avviare: un rinnovamento del sistema politico che restituisca alle forze più vive della società fiducia in se stesse e nella possibilità di un cambiamento.

Il nostro partito può rispondere, più di qualsiasi altro, a questa domanda. Ma c’è, per essere all’altezza di questo compito, tutto un cammino da percorrere, un ripensamento del modo di essere del partito, del suo stile di lavoro, della sua cultura politica.



Numero progressivo: G20
Busta: 7
Estremi cronologici: 1981
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Estratto rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Note: 2 copie
Pubblicazione: “Critica marxista”, n. 2, 1981, pp. 97-109