GLI STUDENTI COMUNISTI NELL’UNIVERSITÀ E NEL MOVIMENTO UNIVERSITARIO

Relazione di Riccardo Terzi

Università e società

1) Il punto di partenza di ogni ricerca sull’Università è la consapevolezza che, nella società capitalistica matura, il ruolo sociale dell’Università è profondamente mutato. Questa convinzione accomuna il movimento studentesco e tutte le forze, politiche e sindacali, che si sano misurate coi problemi della scuola e dell’istruzione superiore.

Il dato di fondo da considerare è il fatto che l’Università oggi non ha più soltanto la funzione di riprodurre le élites dirigenti e, con esse, l’ideologia della classe dominante, ma assume un ruolo determinante nella formazione delle capacità professionali e nell’esercizio della ricerca scientifica, così da influire direttamente sul tipo di sviluppo economico in atto.

Pertanto, ogni discorso sull’Università che prescinda da questo dato assume di fatto un valore conservatore. Considerare l’istruzione superiore come uno strumento di sola formazione culturale, che non entra in rapporto con la società se non a livello ideologico significa misconoscere l’interazione che di fatto si stabilisce fra strutture sociali e strutture scolastiche, e lasciare quindi che questo rapporto sia deciso dal libero gioco delle tendenze spontanee del mercato capitalistico significa dunque rimanere legati ad una concezione arcaica dell’autonomia dell’Università, quale viene sostenuta oggi soltanto dalle componenti più reazionarie del mondo universitario che vedono in questa autonomia-separazione una garanzia per i loro privilegi e interessi corporativi.

Non a caso il piano Gui delinea un modello di Università che si propone come fini fondamentali soltanto quelli della ricerca scientifica e dell’insegnamento superiore

 

2) È necessario considerare qui due lati della questione: il processo di adattamento spontaneo dell’Università alle mutate condizioni economiche e sociali del paese, e la volontà politica della classe dirigente che tende a costringere entro determinati schemi di classe lo sviluppo delle forze produttive.

Quanto al primo punto, va detto che, pur nel quadro tradizionale di un’organizzazione scolastica invecchiata e burocratizzata, sono intervenuti elementi di novità tali da far assumere un nuovo significato sociale e questa organizzazione. Infatti, il capitalismo non solo si serve dei canali dell’iniziativa privata per raggiungere determinati risultati nel campo della formazione professionale (e, a livello secondario, l’iniziativa privata copre tuttora una vasta area dell’istruzione), ma comunica anche alle strutture scolastiche la sua interna dinamica, per cui il rapporto fra vari settori dell’istruzione, i loro ritmi di sviluppo e le loro radici sociali si vengono rapidamente modificando.

Per la spinta oggettiva della produzione capitalistica, che richiede su larga scala la formazione di manodopera sempre più qualificata, le strutture scolastiche tendono a ricoprire l’intera area della popolazione giovanile, e ciò avviene attraverso uno sviluppo accentrato di determinati settori, dell’istruzione professionale anzitutto, ma anche dell’istruzione superiore.

Questo fenomeno fa sì che l’Università non sia più il centro di riproduzione della classe dirigente, ma lo strumento per la formazione anche di quadri tecnici superiori, destinati ad entrare nella produzione in modo subordinato, senza poter intervenire nelle scelte politiche ed economiche.

L’allargamento quantitativo dell’Università e il diverso reclutamento sociale pur con tutti i limiti che frenano tuttora questo processo, comportano dunque una trasformazione qualitativa del significato dell’Università. La classe dirigente non si allarga a tutto il quadro tecnico che l’Università produce, ma viene reclutata all’interno di esso.

Si viene formando quindi da un lato una maggioranza di tecnici, orientati professionalmente e predisposti ad un inserimento nella produzione che non contesti l’assetto sociale presente, e dall’altro una minoranza di dirigenti che aggiungono alle cognizioni tecniche una coscienza più ampia del quadro sociale entro cui devono svolgere la loro funzione.

Va, a questo proposito, rilevato che il permanere nell’Università di strutture autoritarie conserva una sua funzionalità sociale.

Se nel passato l’autoritarismo nella scuola era il riflesso dell’autoritarismo nello stato, e da esso traeva una giustificazione ideologica, oggi la giustificazione viene trovata nell’esigenza di produrre una tecnica politicamente neutrale, impegnata soltanto a riprodurre il ciclo della produzione, senza intervenire criticamente a determinare i fini sociali. A questo scopo il principio di autorità, mascherato dal principio dell’efficienza, è una strumento indispensabile per spegnere l’aspirazione ad una cultura che sia critica e sia fondatrice di scelte socialmente rilevanti.

In secondo luogo, l’adattamento spontaneo dell’Università alle modificazioni sociali avviene mediante una utilizzazione delle ricerca scientifica ai fini della produzione già nell’ambito della vita universitaria. Si intrecciano una serie di rapporti fra gli organi predisposti alla direzione della ricerca e i consigli di amministrazione delle grandi imprese, per cui il tecnico viene avviato ad un ruolo subordinato non solo indirettamente, per l’ambito delimitato delle sue conoscenze, ma anche direttamente, per il tipo di ricerca che gli viene richiesta già nel momento della sua formazione professionale.

La conclusione di questi rilievi è che, indipendentemente da ogni trasformazione strutturale e istituzionale, l’Università entra in una relazione di tipo nuovo con la società, uniformandosi a certe esigenze immediate che vengono dallo sviluppo produttivo.

Sarebbe sbagliato recepire questi fenomeni in termini moralistici, per giungere alla denuncia di ogni integrazione sociale e alla rivendicazione di una astratta autonomia.

È infatti necessario distinguere, all’interno dello sviluppo produttivo, un aspetto oggettivo e propulsivo che sarebbe vano voler sacrificare, e un aspetto politico-soggettivo, e cioè l’intervento politico della classe dominante che inquadra la produzione entro determinati schemi di classe.

 

3) Veniamo così a considerare le linee generali della politica capitalistica che trovano un’espressione fedele e coerente nell’azione governativa. Anzitutto, è evidente che la mancata riforma della scuola secondaria pregiudica apriori ogni discorso sull’Università e che è impensabile una proposta di riforma dell’Università che non investa ad un tempo le strutture generali della scuola italiana.

Ora, tutte le forze borghesi si trovano unite nel richiedere una scuola secondaria che continui ad essere organizzata secondo il tradizionale dualismo fra istruzione professionale e formazione generale. Ciò significa, per l’Università, una selezione sociale e il mancato utilizzo di tutto il capitale intellettuale esistente; una scelta della specializzazione, da parte dello studente, arbitraria, non motivata da una precedente individualizzazione degli orientamenti e delle capacità professionali; la necessità di partire, nella specializzazione, dai primi elementi generali, dato il carattere enciclopedico della scuola secondaria; l’impossibilità di organizzare in modo libero e articolato i corsi di studio; la necessità di fornire un quadro insegnante che corrisponda all’impostazione arretrata della scuola secondaria.

Il disegno che, anima gli esponenti della classe dominante è quello di mantenere una rigida distinzione dei ruoli sociali, a cui devono corrispondere diversi livelli di qualificazione tecnica e culturale. Per questo, il piano governativo fissa tre binari distinti e fra loro non comunicanti; l’istruzione professionale a breve termine, medio e lungo termine. Sulla base di questa impostazione, chi è costretto ad imboccare la strada dell’istruzione professionale a breve termine non ha altri sbocchi possibili, se non quello, teorico, di cambiare scuola.

Di fronte a questa politica scolastica il cui carattere classista non ha bisogno di essere dimostrato, è importante definire una corretta linea alternativa. Ai fini di questa esigenza, assume scarso rilievo il problema della “comunicazione orizzontale”, della possibilità cioè di passare da un settore scolastico all’altro, in quanto l’eventuale realizzazione di questa mobilità, che non viene d’altronde esclusa in linea di principio, lascia immutate le strutture nei loro caratteri essenziali e può tutt’al più interessare solo alcuni casi individuali.

Altrettanto poco corretto sarebbe porre l’ accento sull’esigenza di una generale unificazione della scuola secondaria, così da consentire il rinvio della scelta professionale fino ai 18 anni; non solo perché vi è il problema politico immediato dello sviluppo dell’istruzione professionale, a cui bisogna saper dare una risposta valida fin da oggi, ma anche perché è pur sempre necessaria un’articolazione della scuola secondaria, e una scelta di orientamento professionale a questo livello, non ci sembra essere necessariamente arbitraria.

Due ci sembrano essere invece i criteri su cui deve poggiare una proposta alternativa:

  1. a) l’esigenza di una struttura aperta verso l’alto (comunicazione verticale) che consenta a tutti gli studenti di raggiungere i livelli più alti dell’istruzione;
  2. b) il collegamento, ad ogni livello, fra momento professionale e momento culturale, collegamento non estrinseco, ma inteso come esigenza permanente di verifica pratica delle conoscenze teoriche.

Ponendoci questo obiettivo, è possibile ristrutturare sia l’istruzione tecnico-professionale sia le tradizionali scuole umanistiche, assicurando a ciascuno di questi binari una pari serietà scientifica ed efficacia professionale. (Cfr. la relazione Petruccioli al Convegno degli studenti medi comunisti, Città Futura n. 2-3)[1].

 

4) Su questa base va ripreso il discorso interno all’Università.

La politica governativa a questo livello è indicativa di un orientamento modernizzante, e neocapitalistico, il suo sbocco sarebbe la rottura dell’unità degli studi superiori. La proposta di introdurre un primo livello di diploma si giustifica sulla base delle richieste, provenienti dal mondo della produzione, si tratta appunto di definire un particolare iter scolastico per i quadri tecnici intermedi.

Questa proposta ci trova decisamente ostili, non solo per particolari modi di realizzazione che sono previsti (formazione di scuole superiori aggregate all’Università) e che renderebbero impossibile un facile passaggio dal livello intermedio a quello superiore, ma per la sua sostanza.

Infatti, una adeguata riforma della scuola secondaria può soddisfare molte delle esigenze oggettive della produzione, mediante un più stretto legame fra formazione culturale e istruzione professionale; e in secondo luogo il momento della preparazione professionale deve potersi inserire come una componente essenziale nella vita del dipartimento.

È qui necessario aprire un discorso più ampio, sulle trasformazioni delle funzioni tradizionali dell’Università e sui nuovi rapporti che devono intercorrere oggi fra queste diverse funzioni.

 

5) La funzione per eccellenza che è stata affidata all’Università è quella delle elaborazione culturale. Ciò è avvenuto prevalentemente attraverso le selezioni dei licei, e quindi sotto il segno di un orientamento idealistico. Il che significa concretamente che l’Università ha avuto la funzione di riprodurre all’infinito una cultura accademica e apologetica che rappresentava la continuità dell’egemonia ideologica della classi dominanti. Ora, non sfugge a nessuno la crisi in cui versa attualmente una cultura di questo tipo, crisi dovuta ad una molteplicità di fattori: allo sviluppo di nuove funzioni sociali legato direttamente alla produzione, e che riducono l’ambito di azione dell’intellettuale di tipo tradizionale, alla crescente capacità del movimento operaio di esprimere sue esigenze culturali, autonomamente fondate, alla nuova dimensione dei problemi, storici e sociali, tale da richiedere una più ricca disponibilità di strumenti ai analisi, di ricerca e di critica. Ma da tutto ciò sarebbe superficiale dedurre che la cultura tradizionale, ideologica e umanistica, non ha più una sua funzionalità sociale e rimane soltanto come un residuo del passato. Se infatti la caratteristica della società capitalistica matura è quella di tenere disgiunti il momento dalla della democrazia e il momento della decisione, è ad essa funzionale un’organizzazione della cultura fondata sulla separazione fra tecnica e cultura.

In altri termini la permanenza di una cultura come ideologia consente che all’altro polo si sviluppi una tecnica neutrale e pseudo-oggettiva a che a nessun livello sia possibile ritrovare un punto di congiunzione fra cultura e realtà sociale, e quindi una funzione critica della cultura.

Questa coesistenza di idealismo e di empirismo è la garanzia per la riproduzione ininterrotta del ciclo capitalistico, e in questo quadro quindi la cultura tradizionale assume una precise funzione sociale, nel senso della conservazione.

La società capitalistica avanzata non rinnova questo rapporto; si limita soltanto a richiedere una maggiore strumentazione tecnica e sostituire alla spontaneità del processo produttivo una tecnica razionalizzatrice, ma politicamente neutrale, che sorregge lo sviluppo produttivo senza orientarlo.

Cambia quindi il peso sociale della vecchia cultura, ma non il suo ruolo, e il problema di fondo rimane invariato: come dare vita ad una cultura che sia discriminante, che consenta cioè di operare delle scelte sul terreno sociale.

Nell’attuale organizzazione dell’Università questa cultura ideologica può apparire come un residuo secondario di fronte allo sviluppo assunto dalla ricerca scientifica: ma basti pensare alla funzione che esercita nella formazione del personale insegnante, e quindi all’azione paralizzante nei confronti della scuola secondaria. Ma soprattutto resta come un permanente alibi culturale, che ridimensiona il senso di tutto lo sviluppo scientifico attuale.

 

6) Quanto alla ricerca scientifica, essa è venuta sviluppandosi ai margini della cultura tradizionale, acquistando via via un peso sempre crescente. Ma questo fenomeno a cui ci riferiamo qui soltanto per i problemi politici che implica -non si è manifestato senza gravi contraddizioni.

Anzitutto, inserendosi in un quadro sociale caratterizzato dalla legge del profitto, la ricerca scientifica ha subito una serie di deformazioni, non solo nella sua utilizzazione sociale, ma anche nei suoi procedimenti metodici. In altri termini, l’esistenza di interessi precostituiti, a cui la ricerca deve unificarsi e subordinarsi, fa sì che venga compromessa la possibilità di attenersi comunque ad una corretta applicazione del metodo scientifico. Ciò non significa affatto che basti uno sviluppo incondizionato della metodologia propria della scienza per stravolgere la logica del capitalismo. È chiaro infatti che il problema è in ultima istanza di carattere politico: ciò che conta sono le scelte politiche centrali a livello nazionale, il tipo di sviluppo che si intende mettere in moto, e proprio perché interviene questa mediazione politica, è sempre possibile orientare in una direzione precostituita la ricerca scientifica appare provocare uno scarto fra la ricerca e lo sviluppo produttivo.

Il che significa che non si stabilisce un rapporto diretto fra la ricerca e lo sviluppo produttivo, nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi.

Senza quindi indulgere a nessuna visione illuministica, ci resta il compito di registrare alcune situazioni di fatto, che caratterizzano la fase attuale del capitalismo, e cioè gli impedimenti contro cui si trova ad urtare la ricerca scientifica, il suo svilupparsi ancora prevalentemente al di fuori dell’organizzazione scolastica, la sua impossibilità di darsi autonomamente dei fini politico-sociali. Ma soprattutto va sottolineato il fatto che il livelle degli studi superiori, si tende a separare il momento della ricerca da quello della formazione professionale (e la proposta di una articolazione dei titoli è la conferma più chiara). Con queste conseguenze: che la ricerca resta appannaggio di ristrette élites dirigenti e perde ogni possibilità di concreta verifica sul terreno sociale, che l’avviamento alla professione avviene al di fuori di un quadro teorico e culturale più complesso e assume necessariamente un valore integrato.

È questa una tendenza estremamente pericolosa, a cui vanno contrapposte delle proposte risolutrici.

Infatti, noi registriamo oggi una sfasatura fra l’articolazione oggettiva delle professioni, quale è determinato dello sviluppo economico in atto, e l’organizzazione degli studi superiori, che si modellano tuttora a misura di una società molto più arretrata.

A questo livello, non possiamo non proporci una integrazione sociale dell’Università, ma bisogna piuttosto scegliere fra diverse forme di integrazione.

Vi è da un lato la soluzione neocapitalistica, che supera la suddetta sfasatura livello più basso, razionalizzando la formazione professionale dei quadri tecnici intermedi (primo livello di diploma) con un meccanico riferimento alle esigenze della produzione e lascia poi che ai livelli superiori permangano tutti gli equivoci e gli anacronismi della cultura tradizionale.

Nello sforzo di delineare una soluzione del problema, va sottolineata l’esigenza di trovare una integrazione che contrasti con le tendenze spontanee del capitalismo e con gli interessi politici della classe dirigente.

L’ipotesi generale da cui partire è quella di uno stretto collegamento fra ricerca scientifica e formazione professionale, così da raggiungere sia l’obiettivo di una incisività della scienza al livello delle scelte sociali, sia quello di una razionale articolazione dei ruoli professionali che non decada al livello del tecnicismo modernizzante.

Il luogo e lo strumento per questa unificazione può essere il dipartimento, come nuovo centro di organizzazione della vita universitaria. Il dipartimento rompe le vecchie classificazioni culturali, si apre a tutti gli sviluppi della scienza, si impone un’esigenza permanente di verifica delle ipotesi e dei metodi della ricerca, e realizza questi obiettivi scegliendo il metodo del lavoro collettivo e delle decisioni democratiche.

Questa deve essere la cellula fondamentale dell’Università, nella quale le varie funzioni che all’Università sono affidate si trovano congiunte in una ravvicinata e non meccanica connessione. È chiaro infatti che, in quest’ambito, elaborazione culturale e ricerca scientifica fanno tutt’uno e realizzano, ad un tempo una formazione professionale ad un alto livello di specializzazione.

 

7) Per comprendere il valore politico di questa proposta, è necessario riferirsi alle vicende dell’azione governativa e della battaglia per la riforma.

In una prima fase, si riscontrano da un lato una generica aspirazione ad una riforma che fosse democratica quante alle forme di gestione e progressiva quanto ai contenuti, aspirazione che accomunava le forze più diverse della sinistra e del mondo della scuola, e dall’altro una netta chiusura conservatrice, propria dello forze clericali e governative, secondo le quali esisteva solo un problema di sviluppo quantitativo.

Intorno al piano Fanfani che poneva il problema della scuola solo in termini finanziari si era appunto realizzato uno schieramento di questo tipo.

Ora, è evidente che gli schieramenti si sono completamente modificati, sia per le divisioni politiche che sono intervenute nelle forze di sinistra, sia per il carattere ammodernante e non più conservatore in senso stretto che hanno assunto la prospettiva a lungo termine della classe capitalistica.

Un punto di riferimento importante è dato dalle linee della relazione Ermini (Commissione di indagine) che rappresentano il punto di elaborazione più avanzato delle forze capitalistiche intorno al problema dell’Università. È possibile qui unificare da un lato lo sforzo di fornire un quadro di soluzioni efficienti, uscendo dai limiti di un atteggiamento puramente conservatore, e dall’altro la preoccupazione di mantenere queste proposte nei limiti della razionalizzazione capitalistica.

Per questi suoi caratteri la relazione Ermini riusciva ad egemonizzare una serie di forze politiche intermedie e a soddisfare alcune esigenze corporative.

Ma era altresì nella logica delle cose che, nella loro concreta mediazione politica gli aspetti più avanzati di quella linea (v. dipartimenti) fossero condotti a rifluire nell’ambito di un disegno moderato. È questo il senso del rapporto fra relazione Ermini e piano Gui, e sarebbe errato vedersi una contrapposizione o negare gli attuali orientamenti del governo assumendo come punto di riferimento le linee della commissione di indagine.

Infatti, al di là delle inevitabili oscillazioni legate alla contingenza politica, la classe dominante ha espresso una sua proposta omogenea, con la quale bisogna misurarsi nella sostanza e non nei dettagli.

L’attuale momento politico vede, dopo una vasta lotta del mondo universitario contro il piano Gui, una soluzione a livello governativo che rappresenta la mediazione di esigenze diverse e che si muove del tutto all’interno della linea capitalistica di riforma. Siamo quindi in una fase di lotta ancora aperta, e anzi ancora più ravvicinata, in una fase in cui alla maturazione oggettiva dei problemi deve corrispondere, in sede politica, una più precisa definizione degli obbiettivi.

Una linea quale quella da noi indicata, fondata su un modello di dipartimento che lega formazione professionale e ricerca scientifica, entra in un rapporto antagonistico con le esigenze capitalistiche che stanno alla base dell’attuale proposta tecnocratica di riforma, e pertanto, nella presente fase politica, assume un valore di rottura e indica una prospettiva di non breve termine.

Non è quindi per una pretesa irriducibilità delle nostre proposte all’assetto sociale capitalistico, irriducibilità che andrebbe comunque verificata ma per una valutazione dei termini attuali dello scontro di classe, che si giustificano le scelte qui proposte, le quali valgono anzitutto per se stesse, come obiettivi i lotta e di mobilitazione, prima ancora di essere verificata la loro possibilità di realizzazione.

 

8) Ma avanti a questo piano della battaglia politica immediata, vi è altresì l’esigenza di delineare il modello di Università che noi prefiguriamo, nelle sue linee generali e in una prospettiva a lunga scadenza.

Sorge allora la seguente questione: quale sia il valore teorico generale delle nostre proposte, o, in atri termini, quale definizione del ruolo dell’intellettuale decisi dal tipo di organizzazione della vita universitaria che abbiamo indicato.

Vi è anzitutto un dato di fatto: che viene meno la figura dell’intellettuale nella sua accezione tradizionale e cioè come classe speciale la cui specificità consiste nell’ assumere il compito di rappresentare a livello ideologico l’intera società, e a questa figura si sostituisce quella del tecnico specializzato che entra in un rapporto determinato con l’attività produttiva.

Noi crediamo che l’Università debba accelerare questo processo, e in questo senso scegliere come suo metodo, prevalente quello della ricerca scientifica specializzata.

Una generalizzazione del metodo scientifico, se da un lato non impedisce certo l’egemonia di ideologie borghesi, in quanto queste possono comunque assumere nel proprio ambito una metodologia scientifica, dall’altro riporta il dibattito culturale ad una esigenza permanente di verifica critica e favorisce quindi un’opera di demistificazione. Senza quindi pretendere ad una identità di scienza e analisi marxiste è vero tuttavia che il marxismo soltanto può senza limitarsi far proprio il metodo scientifico, e che quindi in una scuola non ideologica logica è possibile in una misura più larga realizzare una presenza culturale autonoma del movimento di classe.

È questo, d’altro canto, l’unico obiettivo raggiungibile e auspicabile; in quanto, in ogni fase dello sviluppo, la scuola sarà comunque luogo di scontro sul terreno culturale fra forze sociali e politiche diverse, e questa dialettica dovrà potersi mantenere anche in una fase più avanzata di costruzione del socialismo, pur nel quadro di rapporti di classe e quindi di relazioni culturali profondamente diversi.

In sostanza si tratta di far valere ad ogni livello l’istanza metodologica e critica propria della scienza, così che il confronto non sia arbitrario ma verificabile, mediante una ricca disponibilità di strumenti di analisi e di ricerca.

E pertanto, la nostra preoccupazione non è quella di formare delle coscienze non integrate o disadatte, come se la scelta di classe fosse solo il frutto di una chiarezza razionale ma di formare una nuova leva di intellettuali, aperti a un rapporto vivo con la società, ma disposti a far propria la mitologia della vecchia cultura apologetica e impegnati a unificare le proprie convinzioni.

Possiamo iniziare a trarre alcune conclusioni dalle analisi e dalle proposte precedenti per vedere le possibilità del movimento studentesco in riferimento alle scelte politiche che si intende compiere.

Il punto di partenza deve essere la dimensione specifica che noi ravvisiamo nell’Università: esse, non è soltanto lo specchio ove si riflettono le contraddizioni generali della società ma essa stessa agisce sulla società, sullo sviluppo economico attraverso la formazione di una determinata figura di tecnico o di intellettuale, attraverso la elaborazione di forme determinate di cultura.

Se questo è vero l’ipotesi deterministica che analizza solo le componenti strutturali e quindi vede come unica forza non integrata di lotta quella a livello dei rapporti di produzione demandando alla costruzione del socialismo la creazione di una Università diversa e concependo come unica forma d’azione possibile nell’Università quella di una conquista ideologica delle singole coscienze è erronea e superficiale. È possibile al livello specifico dell’Università trovare obiettivi che propongono una struttura universitaria tale da postulare un rapporto con la società che contrasti con le esigenze a breve e medio termine del Capitale.

Oggi la scissione tra scienza e tecnica, tra cultura e professione che trae origine dalle esigenze di perpetuare i rapporti e le categorie del modo di produzione capitalistico e contemporaneamente rafforzare l’egemonia politico-culturale attraverso la mistificazione dello sviluppo capitalistico come “aumento” e “progresso” delle forze produttive, come efficienza, e attraverso la conseguente mistificazione dei rapporti di classe nel ciclo della neutralità della tecnica si riflette a livello della dimensione specifica della organizzazione scolastica nella richiesta di una determina strutturazione della scuola e dell’Università: l’articolazione di tre livelli di laurea rigidamente giustapposti e il pericolo di perpetuare anche ai livelli superiori dell’istruzione la scissione tra istituti tecnico-professionali e licei etc. ; quindi, gli obiettivi di lotta che come l’unificazione degli istituti tecnico professionali, il liceo unico l’opposizione alla creazione degli istituti aggregati, la istituzione del dipartimento, propongono il ricongiungimento organico tra ricerca scientifica e tecnica, tra formazione professionale e cultura vuol dire creare la possibilità e l’ opportunità di una contraddizione, e non solo nelle singole coscienze, tra questa Università e il ruolo che il capitalismo maturo le assegua e le richiede.

Non a caso si è voluta sottolineare il verbo proporre; si ritiene infatti altrettanto erronea e superficiale le posizione di coloro che sostituendo al concetto marxiano di rivoluzione quello sociologico di progresso ritengono possibile l’evoluzione a sé stante anche se parallela a quella della società, delle strutture scolastiche, evoluzione poi che al punto massimo del suo sviluppo farebbero giungere senza scosse la società capitalistica al socialismo.

Se su questa base è possibile un’azione politica non integrata e che anzi riapra continuamente le contraddizioni del capitalismo; occorre vedere che cosa deve e può divenire il movimento universitario per funzionalizzarsi a queste scelte politiche.

Tra il riformismo evoluzionista e gradualistico e il coscienzialismo dei missionari vi è la strada del movimento sindacale di massa.

Dire sindacale non vuol significare un movimento costituito dalla somma di tanti interessi settoriali e corporativi ma un movimento fondato su rivendicazioni oggi largamente presenti e sentite nel mondo universitario e che hanno due caratteri specifici:

1) quello di investire le condizioni di vita e di studio dello studente quale egli immediatamente vede e quindi quello di nascere su un terreno di immediatezza;

2) quello di proporre un ruolo dell’Università che contrasta le esigenze a breve e medio termine dello sviluppo economico del capitalismo e mette in discussione la funzione dell’Università come momento di conferma e di trasmissione delle ideologie della classe dominante rendendo possibile alla scienza, e alla tecnica verificare criticamente il proprio rapporto con la società e la direzione di tale rapporto.

 

In questo senso il movimento universitario è oggi tendenzialmente anticapitalistico nel suo riferirsi obiettiva all’interno della lotta di classe ma sarebbe una richiesta astratta e velleitaria quella di volerlo fare essere quello che non può essere: forza che scientemente mette in discussione globalmente l’assetto della società capitalistica proponendosi di superarla. Come comunisti certo valutiamo secondo una logica di classe e qui si impone per noi la valutazione del valore che un movimento universitario siffatto ha un riferimento alle prospettive del movimento operaio.

Proprio in quanto sindacale esso non è garantito dal rischio della integrazione e qui dipenderà dalla capacità del movimento di classe di sapere recuperare in un disegno rivoluzionario i contenuti di questo movimento di sapere costruire giorno per giorno i nessi reali e non propagandistici con questa forza oggettiva con questo movimento reale della società, il riassorbimento nell’assetto capitalistico o il legame organico con i fini della classe operaia. Non si tratta quindi di assegnare al movimento universitario una funzione che non può istituzionalmente assolvere ma di ricercare noi come comunisti organizzati a tutti i livelli, sia dentro che fuori del movimento universitario, questi nessi con il movimento di classe questa generalizzazione e questa qualificazione dei contenuti e degli obiettivi del movimento attraverso un’analisi sempre più rigorosa e una battaglia nel partito onde superare la concezione delle riforme a compartimenti stagni.

A questo punto viene di necessità portare il discorso sui circoli universitari comunisti. Noi crediamo che oggi occorra sottolineare con forza l’inutilità delle fughe in avanti: giovani forze intellettuali hanno pensato, in momenti in cui era difficile un inserimento nel Partito, di fare dell’UGI un ben configurato organo politico in cui si potessero svolgere determinate discussioni altrimenti impossibili. Oggi occorre avere il coraggio politico di sapere essere dei dirigenti e non solo delle belle promesse che mai fioriranno: l’UGI deve divenire un’altra cosa perché solo per quella via essa può essere forza promotrice, organizzatrice, dirigente di movimenti oggettivi della società; quel dibattito rientri e continui nelle sue sedi per farsi proposta politica precisa, verifica politica di determinate tesi, di precise e rigorose elaborazioni. Attorno a questa esigenza politica immediata di meglio precisare i rapporti tra il momento della organizzazione unitaria e il momento del Partito nasce e si dà una prima dimensione l’organizzazione comunista.

I circoli universitari oggi sono molto dissimili gli uni dagli altri: o sono il gruppo comunista dell’UGI che discute i suoi problemi immediatamente politici all’interno dell’organizzazione universitaria o sono sede di elaborazione culturale sui generis, una sorta di circolo di cultura stile anni cinquanta: manca una linea organica di attività una funzione specifica e generale nel contempo.

 

Essi devono essere uno dei momenti attraverso cui l’organizzazione rivoluzionaria realizza il proprio rapporto con gli intellettuali partendo dalla loro dimensione specifica di studenti e specialisti: il loro apporto al partito è in riferimento ai problemi generali del movimento operaio partendo dalla loro condizione specifica; il dibattito e l’intervento sui problemi dell’Università e della loro condizione di ricercatori riconquista e richiede la generalità dei problemi di strategia del movimento operaio. Per questa via non si mette tra parentesi il valore oggettivo anticapitalistico del movimento universitario ma rafforzando ed estendendo il movimento si cercano e si costruiscono nel contempo i nessi tra esso e il movimento operaio. Solo in questo modo il rapporto non è esterno e strumentale: i comunisti contribuiscono a rafforzare il movimento combattendo inutili pregiudiziali, portando tutto il peso della loro elaborazione specifica sull’Università ed attraverso essa contribuendo a qualificare gli obbiettivi, ad evitare il rischio dei corporativismo e del settorialismo.

Per questa via si viene anche qualificando un nuovo inserimento degli intellettuali nel Partito, un inserimento non subalterno ed apologetico di una linea politica per cui da un lato si ha la concretezza dei problemi corporativi e dall’altro la astratta genericità di oziose discussioni “di linea”, ma un contributo specifico a ricercare il nesso tra i problemi della loro collocazione della società e quelli dell’Università e i problemi posti dalla rivoluzione nei punti alti dello sviluppo capitalistico.

Questo momento di generalizzazione dei contenuti e di qualificazione degli obiettivi non è una esigenza che si pone solo al livello del movimento nella sua generalità ma anche a livello di facoltà, considerando le facoltà come settori della scienza: si pensi ai problemi politico-culturali che pone una discussione dei fisici e degli economisti per fare degli esempi tra i più facili. In questa direzione ci si può muovere anche per una diversa articolazione dei circoli universitari sulla base delle facoltà intese nella accezione generale di grandi settori della scienza.

In un disegno siffatto occorre chiarire il nostro pensiero in riferimento all’attuale struttura della rappresentanza universitaria.

È indubbio che la rappresentanza universitaria è omogenea, in via istituzionale, alle forme di organizzazione del potere politico della società capitalistica essa, portando le spinte promananti dal movimento studentesco a livello politico, da un lato apre al movimento universitario la possibilità di una battaglia politica ma dall’altro proprio per questo rende il movimento universitario passibile di mediazione politiche e quindi è la via attraverso cui passa e può passare l’integrazione del movimento stesso.

Questa bipolarità della rappresentanza va compresa a fondo per poter vedere con chiarezza lo stato presente del movimento e sapere indicare soluzioni corrette.

La rappresentanza è in via istituzionale un utile strumento di pressione del movimento universitario e oggi mantiene aperte certe possibilità politiche di estrema importanza.

Giustificare queste affermazioni in sede politica richiederebbe un ampie discorso sulle vicende politiche degli ultimi due anni del movimento universitario. Noi crediamo che questo sia compito più che di queste note, delle due relazioni che apriranno il convegno e con questa breve affermazione si è voluto solo sottolineare e richiedere una maggiore attenzione ai compagni nel cogliere il valore degli organismi della rappresentanza.

[1] Marzo-aprile 1964


Numero progressivo: F25
Busta: 6
Estremi cronologici: [1964?]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -