CONGRESSO DELLA FGCI
Bari ottobre 1962
Intervento di Riccardo Terzi
Credo opportuno partire da una valutazione delle nostre tesi, attraverso l‘esame di alcuni problemi che ritengo decisivi. La questione pregiudiziale è quella del senso da dare alla nostra organizzazione, della sua collocazione all’interno del movimento operaio.
A questo proposito il documento congressuale evita due errori, che finirebbero per menomare e falsare il significato della Federazione Giovanile Comunista. Si è evitato giustamente di limitare il discorso ai problemi esclusivamente giovanili, di ridurre pertanto l’attività della FGCI ad un’attività settoriale e specialistica: un’impostazione di questo tipo metterebbe in forse l’autonomia della nostra organizzazione, non solo subordinandola in modo troppo meccanico al Partito, riducendola ad una “commissione” dei problemi giovanili, ma subordinandola anche alla stessa società borghese, che tende appunto a considerare il mondo giovanile come una questione a sé stante, come un problema in ultima analisi pedagogico e non politico.
Deve essere nostra (invece) l’affermazione che affrontare i problemi dei giovani è un modo di affrontare i problemi generali della società, e che una soluzione non potrà trovarsi in espedienti pedagogici, ma in una prospettiva politica che risolva i problemi di fondo della società. I giovani rappresentano infatti un nodo essenziale delle contraddizioni del sistema, una zona di intensa frizione che non può essere isolata dal contesto generale, se non a prezzo di alimentare i miti e gli errori del giovanilismo, che già più volte abbiamo denunciato.
Nello stesso tempo però non si vuole fare del nostro dibattito congressuale una inutile e sbiadita copia di quello del Partito, ma si sono affrontati i problemi generali dal particolare angolo visuale che si impone ad una organizzazione giovanile, prestando quindi particolare attenzione alle conseguenze che lo sviluppo capitalistico determina sulla formazione di una nuova generazione. Ciò significa esaminare la collocazione della nuova generazione all’interno dei rapporti di produzione esistenti, significa collegare le aspirazioni dei giovani al problema del rinnovamento della società; significa quindi assumerci un impegno politico serio, ma con la precisa consapevolezza dei limiti che ci si impongono, dei confini entro cui si deve svolgere la nostra ricerca e la nostra azione. La nostra organizzazione si presenta quindi come uno strumento teorico-pratico, che nel momento in cui affronta, da un determinato angolo visuale, i problemi dei giovani e organizza la gioventù intorno a prospettive immediate di lotta, non può mancare di intendere la propria azione come un momento imprescindibile dell’elaborazione della prospettiva strategica, organicamente connesso con la problematica generale del movimento operaio.
Il primo obbiettivo della nostra ricerca è quindi la verifica della posizione che occupano oggi i giovani nella società italiana; a questo proposito è giusto ridimensionare il giudizio affrettato e ingenuamente ottimista che ne fu dato dopo i fatti di luglio, mostrando come il ribellismo non sappia spesso sfociare in una chiara consapevolezza dei propri compiti e della prospettiva politica in cui vanno inquadrati.
Ma più importante è l’osservazione fatta nelle nostre tesi che la ribellione dei giovani non trova oggi la sua origine nell’esclusione dalla vita sociale e dal processo produttivo, che la gioventù non è più un esercito di riserva su cui grava il peso dalla disoccupazione e la mancanza di ogni ‘istruzione professionale; le classi dominanti infatti, approfittando dalla favorevole congiuntura economica, si sforzano di inserire i giovani nell’attuale realtà sociale, di farne un settore vitale della produzione, per cui oggi la ribellione si presenta come il frutto dell’esperienza diretta delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, e la gioventù diviene il settore dove gli squilibri del sistema e la sua sostanza reazionaria vengono meglio in luce. È indubbio che questo comporta un livello superiore della rivolta dei giovani, che da esercito di riserva divengono parte integrante del sistema; questa situazione nuova, se aumenta i pericoli di un assorbimento e di un cedimento alla corruzione neo-capitalistica, accresce anche le possibilità di colpire più profondamente le strutture del sistema, mediante un’azione non più solo protestataria, ma immediatamente efficace ed incisiva.
Proprio per questo, per il fatto che i giovani subiscono con più forza l’attacco neo-capitalistico, per il fatto che le nuove generazioni dovranno mettere alla prova il disegno riformistico-conservatore della borghesia, per il fatto che essi vengono immessi con violenza nella realtà disumanizzata e contradditoria del moderno capitalismo, per questo il discorso di fondo che noi dobbiamo affrontare è quello sul significato del neocapitalismo e delle varie manovre riformistiche, è il discorso problematico ma improrogabile sulle prospettive del movimento operaio, sulla definizione della nostra tattica e strategia rivoluzionaria. Non manca nelle tesi la coscienza e la denuncia dei pericoli neocapitalistici, ma manca una ricerca chiara ed impegnata sulle prospettive dalla rivoluzione socialista in Italia; si è evitato di intervenire con una parola nostra nel dibattito appassionato che a questo proposito si è venuto sviluppando. È questo un limite che va rilevato, un limite serio perché oggi i giovani, per respingere le insidie dal capitalismo moderno, i suoi miti e le sue mistificazioni, hanno bisogno di una risposta a questi problemi, hanno bisogno di sapere per quali vie deve passare la rivoluzione socialista, e quale sarà il contenuto preciso dalla società nuova che vogliamo costruire nel nostro paese; dobbiamo essere in grado di direi come e contro chi ci si deve battere.
Questi problemi di prospettiva sono stati messi in primo piano al Congresso della nostra Provincia, che non ha evitato di avanzare anche delle critiche a certe posizioni ambigue e possibiliste presenti nel Partito. Abbiamo avanzato dalle precise richieste, per una chiarificazione della nostra linea strategica, per una più approfondita elaborazione politica: non vorremmo che queste richieste andassero eluse.
Il giudizio che credo quindi di poter esprimere sulle tesi è il giudizio di una certa insufficienza, pur all’interno di una giusta impostazione metodologica. Considerazioni analoghe si possono fare sul modo con cui vengono affrontati i problemi organizzativi.
Anche qui si parte da un’affermazione profondamente giusta: l’affermazione del necessario rapporto che si deve stabilire fra il momento della ricerca teorica e il momento della azione pratica. Ciò significa che la FGCI deve essere in grado di affrontare i problemi teorici nuovi che vanno emergendo, e che sono posti dallo sviluppo capitalistico o dal rinnovamento politico in atto nei paesi socialisti, e significa soprattutto che questa ricerca non deve assumere un carattere chiuso e intellettualistico, ma deve investire tutta l‘organizzazione, in modo che al nuovo livello dei problemi teorici vadano corrispondendo forme di organizzazione e di lotta nuove e più avanzate.
Non sembra però che ci si sia sforzati di ricavare da questa giusta affermazione un discorso serio e costruttivo sui problemi dell’organizzazione: si ha l’impressione che l’analisi teorica non sia stata portata fino in fondo, che a un certo punto ci si sia fermati, preferendo adottare criteri di giudizio empirici,
Vediamo di esaminare distintamente i due aspetti del problema: la ricerca teorica e l’azione pratica. Non mi sembra che la FGCI nel suo complesso abbia saputo affrontare con sufficiente impegno i problemi teorici nuovi, che sono i problemi del neocapitalismo e della strategia rivoluzionaria che la classe operaia deve contrapporgli, i problemi del passaggio dal socialismo al comunismo, dell’abolizione dello Stato, e così via. Questo dibattito teorico, quando c’è stato, è stato limitato a gruppi di intellettuali impegnati, senza costituire un momento generale della vita dell’organizzazione. Questo non perché siano prevalse tendenze intellettualistiche, ma perché non si è mai dato sufficiente rilievo al problema essenziale dell’educazione ideologica dei compagni, che è condizione fondamentale perché la ricerca teorica possa trovare il suo giusto posto nella vita dell’organizzazione, e perché possa quindi realizzarsi quell’unità di teoria e prassi che tutti riteniamo necessaria, spesso però solo a parole. Questa non-corrispondenza della situazione reale ai principi teorici affermati può trovare una sua risoluzione non in una vaga affermazione di principio sulla necessità dell’azione educativa a livello ideologico, ma in una compiuta e organica politica culturale che dia ai compagni dirigenti quegli strumenti e quelle indicazioni indispensabili, perché il problema sia affrontato con una certa serietà; fino a quando l’attività ideologica sarà lasciata all’iniziativa personale e alla genialità di alcuni compagni, le soluzioni saranno solo parziali e provvisorie.
Il secondo aspetto della questione investe direttamente le forme dell’organizzazione; data la connessione esistente fra la ricerca teorica e l’attività pratica, se il momento teorico avanza, anche l’organizzazione dovrà trovare forme adatte al nuovo livello raggiunto. È questo che si sottintende quando si dice che sono superate certe forme di attivismo primitivo, e che il tipo di attività dei Circoli è ormai inadeguato alle nuove esigenze. L’elaborazione teorica del movimento operaio tende sempre più chiaramente alla definizione di una alternativa concreta ed articolata, rifuggendo dalla pura denuncia protestataria, -e questo vale soprattutto per i giovani che escono dallo stato di esercito di riserva e si trovano di fronte ai problemi posti dallo sviluppo capitalistico-, per cui il movimento operaio a tutti i livelli ha bisogno di fare della propria organizzazione un momento positivo, e non solo sovversivo, un momento che possa già essere una premessa della futura società socialista.
Si tratta di contrapporre al processo disgregatore della società capitalistica, che favorisce i moventi individualistici, uno sforzo massiccio di organizzazione, nella consapevolezza che è questo l’unico strumento che ha la classe operaia per combattere efficacemente la borghesia e le sue sovrastrutture, si tratta di combattere senza cedimenti le istanze private e individualistiche, per formare una classe operaia coerente ed unita, unita nel senso che ha saputo darsi una vita associata autentica, superando le barriere poste dai pregiudizi borghesi, che ha saputo formarsi insieme alla lotta rivoluzionaria.
È con questo metro che dobbiamo giudicare della validità della nostra organizzazione, ed è alla luce di queste considerazioni che comprendiamo perché i Circoli che abbiamo oggi sono insoddisfacenti: perché, anche quando sono numerosi e hanno una loro attività autonoma, questa attività non riesce ad essere uno strumento di coesione e di elevamento ideologico, ma è spesso un’attività da oratorio, che risolve forse certe esigenze propagandistiche, ma che non rappresenta un’antitesi al processo disgregatore in atto e lascia intatti i moventi individualistici e gli atteggiamenti alienati. In una parola, il Circolo non è uno strumento di formazione rivoluzionaria.
Questa problematica è del tutto ignorata nelle nostre tesi, che si limitano a cercare le cause del non funzionamento dei Circoli in ragioni esclusivamente economiche ed organizzative: si dice che lo spostamento di manodopera ha intaccato la struttura del Circolo, e che si impone la necessità di un allargamento della base territoriale del Circolo, collegandolo anche più direttamente ai luoghi di lavoro. Questo è certamente vero, ma non si può ignorare che la causa profonda di questa crisi sta nel processo di disgregazione e di disumanizzazione della società capitalistica, che tende a un progressivo svuotamento ideale, e nel fatto che il Circolo non ha saputo opporsi a questo processo, anzi l’ha in certi casi assecondato; per cui appare chiaro che non sarà in semplici misure organizzative che potremo trovare la soluzione dei nostri problemi;
Il discorso delle tesi mi sembra pericoloso: è la ricerca di false o secondarie motivazioni di tipo economicistico, con le quali si evita di riconoscere la complessità del problema, la sua dimensione politica e morale, e si sfugge con superficiale facilità alla necessità di un esame autocritico. E quando poi si passa all’indicazione delle soluzioni pratiche, non avendo colto il fondo del problema, si sa dire ben poco. Ci si limita a dire quello che il Circolo dovrebbe essere: “un Circolo moderno, di grosse dimensioni, composto di centinaia di iscritti, con una sede propria nel centro urbano, dotato di moderne attrezzature, capace di svolgere una propria attività politica, culturale e ricreativa e di sostenerla con una politica amministrativa efficiente. Ma tutto questo è una pura costruzione della fantasia, un vagheggiamento idealistico, fino a quando non si indicano le forme di azione e gli strumenti reali da utilizzare. E un Circolo con centinaia di iscritti e moderne attrezzature, qualora ci piovi dal cielo, che cosa dovrà fare, in che direzione dovrà muoversi? Il discorso deve per forza spostarsi sui contenuti dell’attività del Circolo, deve diventare un discorso politico. È necessario, da parte di tutti, un rinnovato impegno umano e rivoluzionario, una lotta a fondo contro la corruzione neocapitalistica e socialdemocratica, è necessario saper dare una prospettiva, saper dare un senso all’attività dei compagni. Il problema è quello di dare alla FGCI un effettivo contenuto rivoluzionario, di farne, sulla base di una nuova acquisita coscienza, una organizzazione di lotta.
Questo tipo di discorso rimane ancora piuttosto astratto: abbiamo tutti la consapevolezza dalla difficoltà di muovere in questa direzione i nostri Circoli, che spesso non sono che un insieme inorganico di tesserati. Questi giovani noi li conosciamo fuori dalla fabbrica, fuori dalla scuola, nei momenti di evasione, legati fra loro da interessi qualunquistici.
Da dove si dove partire per legarli fra loro in una comune coscienza rivoluzionaria, per muoverli nella direzione della lotta e della discussione politica? Si deve partire dalla fabbrica, dalla scuola, dai luoghi di lavoro, ci si deve spostare dai Circoli di zona ai gruppi di fabbrica e di istituto. Questa è la risposta che molti compagni avanzano, e che io credo di poter condividere, pur non avendo una sufficiente esperienza in questo campo. L’alienazione della società borghese va combattuta anzitutto là dove si produce l’appropriazione privata e lo sfruttamento, là dove la borghesia esercita la sua violenza e si libera delle sue mistificazioni democratiche. Ma questo non può essere inteso come una formula risolutiva; è una indicazione che può essere produttiva solo all’interno di un giusto orientamento politico, solo quando si sa evitare che la lotta nella fabbrica si fermi agli aspetti rivendicativi, interni al sistema.
Il discorso sull’organizzazione deve essere completato dal discorso politico sulla cosiddetta “unità della nuova generazione”. Questa espressione, che ricorre spesso nei nostri documenti, è per lo meno equivoca e merita di essere precisata meglio. D’accordo quando si dice che bisogna evitare ogni sterile contrapposizione di idee e ricercare, attraverso il dialogo, soluzioni comuni, nell’affrontare i problemi concreti del mondo giovanile. Ma non possiamo più essere d’accordo qualora si intenda che ciò che conta sono le cose concrete che si fanno, e che sulle “cose” è sempre possibile trovare un accordo, un ‘unità politica; in tal caso si avvallerebbe una politica opportunistica, svuotata di un vero contenuto ideologico. Né vorremmo che questa unità divenisse qualcosa di mitico, avulso dai contrasti reali. I giovani non sono una classe a sé stante, ma nel mondo giovanile ritroviamo, sia pure in forme meno rigide, le stesse divisioni di classe che caratterizzano la società nel suo insieme, l’unità della nuova generazione deve essere spogliata da ogni rivestimento mitico e idealistico, e ricondotta al problema reale dell’unità della classe operaia.
Formare una nuova generazione vuol dire anzitutto rinsaldare nei giovani l’unità di classe, e rinsaldarla non solo sulla base di rivendicazioni immediate, interne al sistema, ma sulla base di una consapevolezza ideologica, sulla base di valori che rappresentino un‘alternativa alla società senza valori.
È da precisare che impegno ideologico non deve significare settarismo culturale, ma è impegno a un confronto con le altre ideologie, per respingerle come ideologie borghesi o per trovare in esse valori comuni, come possibile base di una comune azione rivoluzionaria.
L’unità della classe operaia implica quindi il dialogo col mondo cattolico, un dialogo da intendersi non come manovra strumentale o come compromesso opportunista, ma come momento essenziale e decisivo della nostra strategia rivoluzionaria, fondato sulla consapevolezza dei valori impliciti nella stessa ideologia cattolica, pur all’interno di una mistificazione religiosa, che è ovviamente estranea al pensiero marxista. Il nostro compito è quindi quello di rendere operanti questi valori e di chiedere ai cattolici un impegno coerente, una scelta diversa da quelle del passato.
Questo nostro discorso sull’unità della classe operaia non vuole escludere il problema delle alleanze, ma porre una precisa linea discriminante fra le alleanze strategiche e le alleanze tattiche, vuole fondare il concetto di unità sulla precisa identificazione dei rapporti di classe, respingendone ogni interpretazione mitica e idealistica.
Per questo, ritengo sia essenzialmente diverso il discorso che dobbiamo fare per i cattolici e per la sinistra socialdemocratica e piccolo-borghese; l’alleanza con la piccola borghesia riformista non potrà mai assumere un carattere organico, ma avrà sempre soltanto il valore di parziali e temporanee convergenze.
Il problema dell’unità della classe operaia, che lo sviluppo capitalistico rende sempre più decisivo, ci impone di esaminare i nostri rapporti coi compagni socialisti. Il discorso sarebbe lungo e in parte scontato. Siamo tutti d’accordo infatti nel rilevare un processo involutivo nella politica del PSI e nel denunciare i pericoli gravi che ne derivano per il movimento operaio. Ma in questa polemica, giusta e necessaria, purché sia condotta in termini puramente politici e non recriminatori, si è prestata scarsa attenzione alle posizioni della sinistra socialista. Si sono tirate le facili accuse di massimalismo ed estremismo, sottintendendo che la parte vitale del PSI è, in ultima analisi, quella autonomista e che un discorso costruttivo si potesse fare solo con la corrente di maggioranza. Questa sottovalutazione, quando non è denigrazione, della sinistra socialista è inaccettabile. Riconosco facilmente che non sono mancati scivolamenti verso posizioni estremistiche di tipo operaistico, ma questo va ricondotto allo sbandamento e al travaglio ideologico di questa corrente, che si è trovata di fronte alla necessità di darsi una sua precisa collocazione e funzione all’interno del movimento operaio. E va riconosciuta attualmente una acquisita maggiore maturità; va riconosciuto che i problemi che si pongono i compagni della sinistra socialista sono in gran parte i nostri stessi problemi, e che il problema della collocazione della sinistra socialista è un problema vitale per tutto il movimento operaio. Da qui la necessità di un atteggiamento nuovo verso la sinistra socialista, la necessità di instaurare dei rapporti organici, nella consapevolezza della grande funzione che i compagni socialisti possono avere per l’unità del movimento operaio, Il problema dei rapporti unitari passa attraverso questa mediazione, senza rinunciare però al dialogo con tutto il PSI, senza auspicarne una rottura e senza rinunciare alla polemica anche dura, quando si presenta necessaria.
Va anche rilevato che quell’atteggiamento di intolleranza che fu tenuto da molti verso la sinistra socialista si è trasportato in parte anche nei rapporti interni del nostro partito, portando al fenomeno della “caccia all’estremista”. Il modo con cui sulla nostra stampa si è parlato di certi congressi della FGCI è il segno di una mentalità burocratica, incapace di intendere il centralismo democratico Come unità che si realizza attraverso il dibattito e non come unità precostituita artificialmente.
È questa una questione di metodo che non va sottovalutata, tanto più che siamo nel momento del dibattito congressuale, quando cioè tutta la linea del partito viene messa in discussione. La pubblicazione delle tesi non deve avere il significato di una risoluzione definitiva, ma di una indicazione e di un orientamento da verificare ulteriormente.
Ma le riserve non sono soltanto formali, sono anche politiche. Con l’accusa di massimalismo e simili vengono spesso respinte con estrema facilità idee ed ipotesi degne di considerazione, degne per lo meno di essere confutate più seriamente. Sono le varie posizioni che parlano di “alternativa globale” e che insistono sugli aspetti nuovi del neocapitalismo e sulla prospettiva della società opulenta. Questa alternativa globale è massimalistica solo nella misura in cui non viene fondata sull’analisi dello sviluppo capitalistico e non sa dare una risposta concreta ai problemi emergenti, rifugiandosi in un vano mito rivoluzionario.
Al di là delle polemiche verbali, è mia opinione che tutti noi dobbiamo avere la convinzione che i singoli problemi devono essere visti nel quadro di una prospettiva socialista, e che l’elemento di giudizio sta sempre nel grado di capacità che le singole battaglie hanno di opporsi al sistema, di affermare, contro il dominio dei monopoli, l‘egemonia della classe operaia.
È usando questo metro di giudizio che ci accorgiamo di dover ridimensionare il giudizio positivo da noi espresso su alcune riforme, nella misura in cui queste riforme diventano integrabili dal capitalismo moderno, nella misura in cui vengono assorbite all’interno del processo di ammodernamento capitalistico, perdendo quindi ogni valore di rottura, ogni significato di alternativa. La nazionalizzazione dell’energia elettrica e le regioni sono un esempio di come certe nostre rivendicazioni possano essere assorbite e snaturate dal capitalismo avanzato. Non si tratta di negare le contraddizioni secondarie e di ridurre la nostra linea politica alla lotta nella fabbrica ma di condurre una lotta all’interno di ogni singola rivendicazione e riforma, per metterne in evidenza gli aspetti qualitativi, gli aspetti che si oppongono al sistema e segnano il passaggio a un sistema nuovo, abbandonando parole d’ordine e obbiettivi corrispondenti a una fase anteriore dello sviluppo capitalistico. L’attuale fase politica rappresenta un momento più avanzato, ma solo dal punto di vista storico, nel senso che il capitalismo sta maturando le sue caratteristiche e le sue contraddizioni, e non dal punto di vista dei rapporti di classe. La nostra linea politica sarà giusta solo se ci rendiamo pienamente conto di questo, se individuiamo esattamente qual è l’avversario di classe storicamente decisivo, che è sempre più chiaramente il capitale monopolistico avanzato.
Per questo fare della battaglia antifascista e costituzionale il momento centrale della nostra lotta sarebbe un errore mortale, perché le forze del clerico-fascismo sono forze storicamente già superate, pur avendo ancora una forza e una capacità di condizionamento che non vanno sottovalutate. Queste forze vanno combattute con decisione, senza farsi illusioni però sulla possibilità di avanzare verso il socialismo, con tutte le forze antifasciste unite, con la consapevolezza che la lotta decisiva si svolge su altri piani, contro quella stessa borghesia oggi disposta a favorire il discorso dell’antifascismo e a richiamarsi alla Resistenza, cercando con questo di darsi una patente di forza democratica e progressista; patente che noi dobbiamo negargli, non solo mostrando le sue responsabilità storiche, ma anche la sua natura di classe essenzialmente conservatrice, organicamente incapace di risolvere in modo reale i problemi della libertà e della emancipazione degli uomini.
Busta: 6
Estremi cronologici: 1962, ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina con numerose correzioni a mano. Probabilmente sbobinatura dell'intervento
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -