LA BATTAGLIA PROGRESSISTA SUL “TERRITORIO”
Comunità chiusa, comunità aperta
di Riccardo Terzi
In una fase contrassegnata da grandi mutamenti e da grandi incertezze, si ripropone con forza un bisogno di identità, sia come singolo individuo, sia come comunità, come territorio, o come forza politica organizzata. Il “chi siamo” sembra essere il problema del nostro tempo.
Se davanti a noi stanno più incognite che sicurezze, cerchiamo allora di rispondere alla domanda di identità con un movimento a ritroso, risalendo alle radici, a una tradizione, vera o immaginata, a un mito fondativo che sia capace di ridare un senso alla nostra quotidianità. Se non sappiamo più dire dove andiamo, possiamo almeno dire da dove veniamo, e con ciò ci appaghiamo di una risposta che è illusoria, o quantomeno è solo parziale, perché essa ci schiaccia in una dimensione proiettata solo al passato. E così questa ricerca affannosa di un significato finisce per approdare a soluzioni conservatrici, perché ci rappresentiamo solo come gli eredi di una storia, come i continuatori di una tradizione. Finiamo per essere non salvati, ma inghiottiti dalle nostre radici.
Il discorso andrebbe sostanzialmente rovesciato: l’identità non è il nostro albero genealogico, ma è il nostro sguardo sul futuro, il progetto, la forza creativa che sappiamo immettere nella nostra vita, individuale e collettiva. Potremmo così distinguere tra identità morte e identità vive, tra vite che si adattano a essere solo il prolungamento di ciò che è stato e vite che prendono senso nell’esplorazione di nuovi territori, alla ricerca di nuove e più ampie forme di libertà. Tutto ciò si può riassumere nel conflitto dialettico di autorità e libertà. L’autorità è il deposito della tradizione, è il complesso dei valori tramandati, il quale però ha sempre bisogno di essere sorpassato, perché è solo nel movimento che prende forma l’essere proprio dell’uomo, il quale è “animale politico”, come dicono i classici, in quanto è sempre in cammino verso un qualche traguardo, e la sua umanità consiste appunto in questo non appagamento, in questo proiettarsi verso nuovi possibili orizzonti. La vera cruciale domanda riguarda quindi il “dove” vogliamo proiettare la nostra identità, il punto di approdo della nostra ricerca, e in questa domanda è messa in gioco la nostra libera responsabilità, alla quale infine non è possibile sottrarsi.
C’è un altro risvolto che deve essere colto, il fatto cioè che l’identità viene dichiarata e affermata proprio nel momento in cui essa si dissolve. È quando le differenze vengono livellate che allora si sente la necessità di riaffermarle, di esibirle, e in questo caso ciò che non ha più una vita reale diviene l’oggetto di una declamazione puramente retorica. Questa particolare dialettica l’ha colta esattamente Adorno nei Minima moralia, là dove spiega che l’individualismo dispiegato e declamato è l’effetto di un processo di massificazione che toglie ogni sostanza all’autonomia individuale. Io affermo la mia diversità proprio perché l’ho perduta. Le vere rovine dell’individualismo stanno qui, in questo svuotamento dell’autentica soggettività della persona, che viene guidata non da se stessa, ma dagli stereotipi del mercato.
Lo stesso processo avviene sul terreno delle identità collettive. La retorica sulle “tradizioni locali” è il modo in cui una comunità ormai del tutto spogliata della sua identità cerca un surrogato di identità, nella ricerca illusoria di qualcosa che si è disperso. Quando la diversità è reale, non c’è nessun bisogno di esibirla. L’enfasi sulla diversità è il risultato di un processo di omologazione. È un movimento complesso, in cui comunque la nostra identità è messa in bilico, esposta al duplice rischio del livellamento o della retorica, o alla loro combinazione. Lo stesso movimento femminista, che elabora una cultura della diversità, si afferma nel momento in cui sono saltati i confini tradizionali, e non ci sono più due mondi vitali, tra loro nettamente separati, ma c’è un incrocio dei ruoli e delle culture. E sul piano politico si può forse concludere, con un po’ di spirito maligno, che la sinistra è tanto più antagonista a parole quanto meno riesce a esserlo nella realtà. Sono tutte situazioni esposte alla retorica, essendo appunto la retorica una rappresentazione consolatoria, la costruzione di un immaginario che si sostituisce alla realtà oggettiva delle cose. E la retorica sembra essere il segno distintivo del nostro tempo, proprio perché essa offre una facile via d’uscita dall’incertezza, ed è una risorsa sempre disponibile anche per chi non ha più nessuna risorsa reale da spendere.
La conclusione non è l’irrilevanza del problema dell’identità, ma la necessità di poggiarla su una diversa base, di vederla cioè in connessione con il fare più che con l’essere, come il risultato di un processo dinamico e non come un’essenza che sta fissa in se stessa. Marx, nella famosa prefazione a Per la critica dell’economia politica, osserva giustamente che “non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso”. Ciò vuol dire che l’identità, sia quella personale sia quella di una qualsiasi formazione collettiva, non sta nell’intimo della coscienza soggettiva, ma sta su un altro piano, e può essere rintracciata solo a partire dai risultati dell’azione pratica, e fa tutt’uno con la funzione storica concreta che di volta in volta viene svolta.
Questa divagazione intorno al tema dell’identità mi serve come premessa per parlare di un problema che è centrale nell’attuale dibattito politico e che si riassume nell’idea, da tutti condivisa, che occorre ripartire dal territorio per restituire vitalità sia alla politica sia all’iniziativa sindacale. E in particolare mi occuperò di quella che viene chiamata, a mio giudizio impropriamente, “questione settentrionale”.
Quando parliamo di “territorio”, sappiamo davvero di che cosa stiamo parlando? La mia impressione è che, in assenza di un’analisi delle dinamiche sociali e istituzionali che investono il territorio, il consenso generale si realizza intorno a uno slogan del tutto vuoto di contenuti.
Il territorio può esser compreso solo vedendo tutto l’intreccio tra processi locali e processi globali, vedendo cioè come tutti gli equilibri tradizionali si trovino oggi a essere del tutto sovvertiti, perché l’economia si delocalizza, perché i flussi della globalizzazione investono e stravolgono tutte le comunità tradizionali, perché siamo in presenza di un’ondata migratoria che porta nel cuore della nostra civiltà occidentale l’antico conflitto tra il Nord e il Sud del mondo, perché insomma il territorio non è un facile rifugio nel quale ritornare, ma è divenuto un campo di conflitti, su cui occorre prendere posizione. Ecco che allora la parola “territorio” ha bisogno di essere declinata criticamente, di essere scissa nei suoi diversi possibili significati, per non fingere una comunanza di idee che non c’è. A questo punto, può tornare a essere utile quella distinzione tra identità vive e identità morte, perché il territorio viene usato per una operazione politica, che ha nella Lega la sua forza mobilitante, la quale si regge su una rappresentazione statica dell’identità, su una ideologia tradizionalista, che stringe il territorio nella morsa delle sue radici, del suo passato, fino all’invenzione di una immaginaria mitologia celtico-padana.
Qui si presenta a viso aperto, con una forte carica aggressiva, l’idea di una identità chiusa, la quale può affermarsi solo nel rifiuto di ogni contaminazione, nel respingimento di tutto ciò che è diverso. La Lega offre una risposta alla domanda di identità, ma questa risposta è il ritorno all’idea di una comunità autoritaria, dove si dà accoglienza solo nel rigido rispetto di un ordine precostituito, dove non c’è nessuno spazio praticabile per il pluralismo delle idee, per la diversità delle culture, per una autonoma costruzione della soggettività. La risposta consiste quindi in un movimento di abbandono e di rinuncia, nell’affidarsi a qualcosa che trascende la nostra volontà individuale, nell’affidarsi a una comunità di destino, e di conseguenza ai capi che, essi soli, hanno le chiavi di questo comune destino. Identità morta, quindi, perché l’autonomia del soggetto viene riassorbita dentro una logica che egli non può e non vuole controllare, e quindi la sua stessa identità non sta più nelle sue mani.
Questo movimento non è solo una distorsione soggettiva, ma produce effetti pratici e politici di grande rilevanza. Le identità morte sono identità aggressive, che hanno in sé una fortissima carica di violenza e di mobilitazione ideologica. Tutta l’Europa ha conosciuto gli effetti drammatici dei risorgenti nazionalismi, che hanno fatto riapparire antichi fantasmi di cui speravamo di esserci sbarazzati. Il punto di svolta di fronte al quale ci troviamo è quindi il seguente: se il progetto dell’Europa riesce a essere rilanciato, dando vita a una cittadinanza comune e a una struttura democratica unitaria, visibile e riconosciuta, o se il nostro continente torna a essere dominato dai particolarismi e se la crisi delle identità sfocia infine nel fanatismo delle appartenenze etniche o religiose. Il successo della Lega, così come quello di analoghe formazioni politiche in altri Paesi, è il segnale chiaro di un punto di crisi in cui oggi si trova il processo di costruzione dell’Europa. Far finta di nulla è una tattica suicida. E pensare di tenere tutto insieme, in un grande contenitore unito solo dalle convenienze economiche, significa lasciare che l’Europa non abbia più nessun peso politico.
Proprio perché siamo di fronte a una operazione politica e ideologica che ha avuto una forte presa nella realtà, è necessario il massimo di chiarezza nelle valutazioni politiche e nei comportamenti pratici. Fino a ora, è stata prevalente una posizione sfuggente e ambigua, come se avessimo a che fare solo con qualche eccesso verbale o con qualche manifestazione di folclore plebeo, come se si trattasse quindi solo di disciplinare questo processo, di tagliare le punte, di contrastarne le forme più estreme. Il giudizio sottinteso a questa linea di comportamento è che la Lega interpreta bisogni e problemi reali, dà voce all’identità profonda del Nord, e che dunque occorre agire sul suo medesimo terreno, con una linea più responsabile, ma orientata nella stessa direzione. Non c’è stato nessun vero combattimento, ma solo un gioco tattico, e il risultato è che la sinistra, o almeno gran parte di essa, non ha offerto un’altra visione, un’altra interpretazione della realtà, ma è apparsa piuttosto come una forma di leghismo temperato, fino all’idea balzana di un “partito del Nord”, evidentemente inutile, dato che lo spazio è già occupato brillantemente dal partito di Umberto Bossi. Occorre invece dire, a mio giudizio, che l’ideologia della Lega è del tutto incapace di rappresentare le effettive risorse e potenzialità del Nord, proprio perché ingabbia il territorio in una visione mitologica e lo costringe in una disperata e perdente operazione di autodifesa. Il modello è quello della fortezza, con le sue mura di cinta, con la sua comunità chiusa, che si deve difendere da tutti i possibili invasori. Una tale prospettiva sarebbe assolutamente rovinosa e segnerebbe il definitivo declino del Nord, tagliandolo fuori da tutto ciò che c’è di vitale nel nostro mondo contemporaneo, nella ricerca culturale come nei processi economici e sociali.
Il leghismo, per quanto temperato possa essere, è la malattia di cui il Nord deve sapersi liberare. E occorre dunque una linea di contrasto molto netta e determinata, senza ambiguità. Dove sta il punto sostanziale di questo scontro politico? Non sta, io credo, nella opposizione tra autonomia territoriale e unità nazionale. Non si risponde alla Lega con l’inno di Mameli e con la retorica del nazionalismo patriottico. Ciò che è davvero in gioco non è l’unità della nazione, ma l’idea del suo futuro e del suo posto nel mondo. Il problema non è l’Italia, ma la costruzione di una democrazia globale che sia capace di agire nei grandi spazi di un mondo sempre più interconnesso. Fin qui, l’unica linea di resistenza che si è opposta alla Lega è stata quella dell’unità nazionale. Ma questo tipo di risposta a me sembra del tutto inadeguato e insufficiente, perché il problema del Nord non è il suo rapporto con Roma, ma la sua relazione con l’Europa e con il mondo.
Noi tutti dobbiamo oggi collocarci in una più ampia dimensione spaziale, e da questo punto di vista tutte le vecchie mitologie del nazionalismo non sono ormai più di nessun aiuto, perché ci rinviano a un mondo in via di esaurimento.
Prendiamo un esempio: la disputa intorno all’uso dei dialetti. Davvero il dialetto può essere visto come un attentato all’unità nazionale, come lo strumento di una improbabile secessione? Al contrario, l’Italia può essere riconosciuta come il luogo di una identità unitaria solo se riesce a valorizzare le sue differenze, il suo pluralismo. Due delle nostre maggiori opere cinematografiche, La terra trema di Visconti e L’albero degli zoccoli di Olmi, sono ricostruzioni di un mondo locale, col suo linguaggio, con la sua cultura, sono la testimonianza di un’Italia plurale, che non si lascia raccontare e rappresentare dalla retorica nazionalistica. Nello stesso tempo, Visconti e Olmi si sono misurati con la grande cultura europea, con Thomas Mann e Joseph Roth, e sta proprio qui l’intreccio su cui costruire una possibile identità nazionale, il nostro pluralismo e la nostra apertura verso l’esterno, il nostro essere una nazione che è in movimento, che non si chiude in se stessa, che è il punto di incontro di un movimento complesso, in cui entrano in gioco diversi livelli di identità, diversi piani culturali. Ecco allora il vero discrimine: se il territorio è concepito come un universo chiuso, con una sua compattezza che esclude le diversità, o se viceversa è il luogo delle relazioni, e la sua identità sta nella flessibilità, nell’apertura, nella disponibilità sempre aperta ad accogliere gli stimoli di una realtà in movimento. Se guardiamo al cammino della nostra storia, vediamo che le grandi egemonie sono sempre il risultato di una operazione di apertura e di accoglienza. Vince sempre chi ha uno sguardo più lungimirante e più aperto, chi riesce a produrre una sintesi, in cui le diversità si possano riconoscere, mentre i settarismi finiscono sempre per essere sconfitti.
Per tutte queste ragioni, la Lega, che incarna in sé la politica della chiusura, dell’intolleranza, della fortezza, dell’identità morta, ha un esito rovinoso per il Nord, in quanto lo destina all’irrilevanza, a un localismo senza sbocchi.
L’operazione politica necessaria va esattamente nella direzione opposta. Il Nord ha un futuro solo se riesce a essere il crocevia delle relazioni con il mondo, se la sua vocazione è quella di essere il luogo della cooperazione, del confronto, della costruzione di quella rete globale a cui affidare l’obiettivo, drammaticamente urgente, di un nuovo ordine internazionale. La conclusione politica è che con la Lega, con la sua ideologia, si deve ingaggiare un vero e proprio combattimento corpo a corpo, nel vivo delle contraddizioni reali delle nostre comunità, cercando di declinare secondo una logica del tutto alternativa i problemi della sicurezza, dell’immigrazione, dell’identità, dell’autonomia territoriale. Ci può essere combattimento solo se si mettono in moto forze reali, organizzazioni di massa, e se si imposta un lavoro sistematico, in profondità, che entra quotidianamente nel vissuto concreto delle persone, se si elaborano parole d’ordine, proposte, soluzioni, messaggi simbolici efficaci. È in questo senso che dobbiamo tornare a occuparci del territorio, non per una scelta banale, non per l’ovvietà che è meglio esserci che non esserci là dove si svolge la vita reale, ma perché il territorio, con la densità delle rappresentazioni ideologiche che lo attraversano, è divenuto il luogo decisivo di una competizione tra opposte strategie, tra opposte visioni del mondo.
E questa competizione può essere vinta solo con un grande sforzo progettuale, per dare ai nostri territori, spesso devastati dalle più diverse e scoordinate iniziative imprenditoriali e speculative, una fisionomia, una struttura, per farli essere una comunità riconoscibile, organizzata, capace di scommettere non sulle proprie lontane radici ma sul proprio futuro. L’identità non può che essere il risultato di questo progetto di riqualificazione degli spazi, per dare un senso, un indirizzo, all’insieme delle nostre attività e delle nostre relazioni. E per questo dobbiamo sbarazzarci delle mitologie conservatrici, che ci condannano a stare fermi, proprio nel momento in cui tutta la situazione è messa in movimento.
Dovremo esplorare più a fondo tutte le traiettorie possibili di questa nuova progettualità. Sul piano culturale, il tema centrale è ovviamente quello di organizzare una comunità multietnica, imparando a mettere tra loro in comunicazione i diversi linguaggi, le diverse forme di pensiero e di religiosità, ponendoci nella prospettiva della costruzione di uno spazio democratico comune, nel quale sia possibile, senza presunzioni e senza intolleranza, trovare le risposte ai problemi del mondo globalizzato. Tutta la cultura occidentale è sfidata nella sua pretesa di assolutezza, e la sua egemonia è messa alla prova in un confronto, che è ormai ineludibile, con altri modelli, con altri stili di vita. Se ragioniamo in questa prospettiva, allora l’immigrazione può essere un’occasione, uno stimolo, il terreno su cui organizzare un grande e fin qui inesplorato lavoro culturale, e le nostre città possono candidarsi a essere il laboratorio in cui prende forma una nuova idea di cittadinanza, fatta non solo di valori astratti, ma del dialogo vivente tra le persone.
Sul piano sociale, una nuova progettazione è resa necessaria e urgente dai processi che hanno via via frammentato e corporativizzato il tessuto delle nostre società, facendo loro perdere la loro forza di coesione e la loro interna solidarietà. I diversi pezzi della società camminano ognuno per suo conto, senza preoccuparsi dell’equilibrio dell’insieme, senza riuscire a costruire un sistema integrato, e così abbiamo contemporaneamente situazioni di eccellenza e di degrado, di sviluppo e di marginalità, e siamo così sempre più esposti al rischio di una lacerazione, di una rottura. Per questo occorre un lavoro politico, per definire le forme di una cittadinanza unitaria, universalistica, e occorre uno stile di governo che sia aperto alla collaborazione e al confronto con le parti sociali, con la rete delle rappresentanze, per concertare e coordinare l’azione dei diversi soggetti, in vista di obiettivi condivisi, nell’interesse della comunità.
Ma tutto questo richiede una comunità aperta, democratica, plurale. E quindi questo lavoro di progettazione è inseparabile dalla battaglia culturale per affermare una diversa idea, una diversa identità del territorio, ed è inseparabile dalla costruzione, paziente e faticosa, di nuove forme di partecipazione, di coinvolgimento democratico dei cittadini, perché è solo nella pratica di una democrazia di massa che è possibile contrastare le derive autoritarie che minacciano il nostro futuro. Il territorio, in conclusione, non è una nuova divinità a cui offrire sacrifici, ma è il campo di battaglia, in cui è messa in gioco l’egemonia culturale e politica per il prossimo futuro.
Busta: 5
Estremi cronologici: 2009, ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, n. 10, ottobre 2009, pp. 69-78