[IL RUOLO DEL SINDACATO]

Roma, 30 luglio 2003

Relazione di Riccardo Terzi decontestualizzata

1) Di fronte alle profonde trasformazioni che attraversano il nostro tempo, sulla scena internazionale e nel campo delle relazioni economico-sociali, il movimento sindacale deve ridefinire tutto il quadro delle proprie scelte strategiche, e senza questa capacità di discussione rischia di trovarsi spiazzato. È giunto quindi il momento, anche per la CGIL, di una discussione a tutto campo, non essendo più sufficiente una gestione solo tattica, che affronta di volta in volta le emergenze che si presentano senza un disegno strategico di più largo respiro.

Aprire questa discussione è urgente e indispensabile, senza attendere il prossimo appuntamento congressuale, e perché questa discussione sia produttiva occorre affrontarla con spirito aperto, andando decisamente oltre la logica delle appartenenze o delle convenienze burocratiche. La CGIL deve essere all’altezza delle nuove sfide, come ha saputo fare in altri momenti decisivi della sua storia, e per questo ha bisogno di un grande sforzo collettivo di elaborazione e di ricerca.

 

2) L’orizzonte entro il quale il sindacato si trova ad agire è sempre più un orizzonte globale, e ciò richiede pertanto una strategia che sia capace di reggere a questo livello. Il movimento sindacale, sotto questo profilo, non è ancora sufficientemente attrezzato, in quanto non dispone di strutture internazionali davvero efficaci e dinamiche, che siano in grado di superare i particolarismi nazionali. C’è stata una grande e imponente mobilitazione politica contro l’intervento militare in Iraq, il quale ha rappresentato un gravissimo strappo alle regole del diritto internazionale e ha inaugurato la strategia della “guerra preventiva”. Il movimento sindacale è stato un attore importante di questa mobilitazione, e restano del tutto valide le ragioni di questo impegno, perché erano e sono in gioco questioni essenziali e di principio che riguardano l’ordine internazionale e la regolazione dell’uso della forza. Ma ora, a guerra compiuta, occorre dare una continuità politica a quel movimento, occorre tradurlo, passata la fase del più forte impatto emotivo, sul terreno politico e programmatico, e in questo passaggio risultano evidenti le nostre debolezze strutturali.

Il problema da affrontare è il funzionamento dell’insieme delle istituzioni internazionali, le quali richiedono una profonda riforma democratica, per porre fine al dominio unilaterale delle grandi potenze e per correggere radicalmente l’indirizzo neo-liberista oggi dominante, che ha l’effetto di esasperare le disuguaglianze su scala mondiale. Per affrontare questo ordine di questioni è necessaria una forte iniziativa internazionale, sulla base di un programma, di una piattaforma riformatrice, costruendo un sistema di alleanze che ci metta in grado di ottenere dei risultati concreti.

Ancora più evidente è questa necessità di azione politica incisiva nel contesto europeo, nel momento in cui è aperto il processo di definizione delle basi costituzionali dell’Europa, di riforma delle sue istituzioni, in un quadro geopolitico di straordinaria novità, con l’allargamento verso Est, con la costruzione quindi di un soggetto politico del tutto inedito e di grande complessità. Dall’esito di questi processi dipenderà il futuro degli equilibri mondiali, e dipenderà la funzione storico­politica dell’Europa, la sua capacità o meno di costituirsi come un soggetto politico autonomo e di esprimere una propria strategia globale. E allora, in una situazione che ha questa portata, il movimento sindacale non può limitare la sua iniziativa alle forme tradizionali della solidarietà internazionale o a una generica ispirazione pacifista, ma deve proporsi di agire nel vivo dei processi che si stanno definendo. La dimensione internazionale deve quindi divenire una dimensione strutturale per tutto il lavoro sindacale, non un’area riservata agli specialisti, ma il modo di essere di un sindacato pienamente consapevole delle interrelazioni globali che attraversano ogni aspetto della nostra esperienza sociale.

 

3) Il contesto politico nazionale è fortemente segnato dalle tensioni e dalle contrapposizioni che sono indotte dall’attuale governo di centro-destra, da uno scontro politico che investe tutte le questioni decisive della vita democratica. Ma la situazione è tutt’altro che stabilizzata, e sono in atto diversi processi nella società italiana e nei suoi orientamenti di fondo che rendono tutto il quadro politico più instabile ed aperto, come ha dimostrato chiaramente l’ultima tornata delle elezioni amministrative. Stiamo entrando in una nuova fase politica, nella quale tutti i rapporti di forza sono rimessi in discussione.

Il tentativo di costruire intorno alla destra un solido blocco sociale comincia a mostrare evidenti contraddizioni, e ciò soprattutto per il fatto che il governo non è affatto riuscito a garantire le condizioni di un nuovo “miracolo economico”, di un nuovo ciclo di sviluppo, ma ha condotto il paese e la sua economia in una situazione assai critica, con un effetto complessivo di stagnazione e di perdita di competitività. Nella vicenda politica sono i processi sociali di fondo gli elementi decisivi, ed è a questo livello che va colta la possibilità di disarticolare le basi di consenso su cui si regge l’attuale maggioranza. Il centro-destra ha cercato di rappresentare e di organizzare un determinato processo sociale, facendo leva sulle spinte individualistiche che percorrono la società italiana e offrendo ad una società incerta e insicura una prospettiva di crescita, di allentamento dei vincoli, di liberalizzazione e di innovazione. Secondo questa rappresentazione ideologica, alla sinistra statalista, burocratica e assistenzialista, che tiene bloccate le energie del paese, la destra oppone il modello di una società aperta e dinamica, in cui viene riconosciuta l’iniziativa personale e viene allargata la sfera delle libertà individuali. È uno schema che ha funzionato politicamente, ma che non funziona sul piano della realtà, dei risultati effettivi, e per questo tutta la situazione politica può essere riaperta e condotta verso nuovi sbocchi.

È in questo contesto che l’iniziativa sindacale può svilupparsi positivamente e può anche favorire sviluppi di carattere politico. Il sindacato infatti agisce direttamente nelle contraddizioni sociali, e può tentare di riorganizzare su nuove basi, su una piattaforma politica più avanzata, l’azione delle rappresentanze sociali, i loro rapporti, i loro obiettivi. Ma deve essere del tutto chiaro che il sindacato agisce esclusivamente sul terreno dell’organizzazione sociale e della rappresentanza degli interessi, ed è su questo terreno che esso si misura con l’azione di governo e con le forze politiche, valutandone le diverse linee programmatiche secondo il metodo della rappresentanza del mondo del lavoro.

Il sindacato non fa opposizione ideologica, non è schierato pregiudizialmente in un un campo politico, ma interviene, con la sua autonomia, nella dinamica dei processi sociali.

L’autonomia è la condizione di base che ne determina la forza e la capacità di incidere, di spostare i rapporti di potere nella società, di condizionare lo stesso processo politico. Ovviamente, non si può prescindere dal contesto politico in cui si agisce, né si può concepire l’autonomia come una sorta di agnosticismo politico. Il contesto attuale, con un governo di centro-destra che dispone di una larga maggioranza parlamentare e che si ispira ad un aggressivo programma neo-liberista, pone il sindacato di fronte ad una prova difficile. Ma non è accettabile la rappresentazione di questa situazione come l’instaurazione ormai compiuta di un regime, di un sistema di potere compatto ed esclusivo, per cui sono chiusi tutti i varchi e c’è solo la possibilità di un’estrema azione di resistenza. È questo un assunto del tutto errato, sia sul piano politico perché, come si è visto, c’è una situazione in movimento e non c’è affatto un blocco sociale consolidato, sia soprattutto se esso viene trasferito sul piano sindacale, spingendo il sindacato sul terreno improprio di un’opposizione di sistema, di tipo ideologico, che lo metterebbe definitivamente fuori gioco.

 

4) L’autonomia del sindacato ha il suo fondamento nella funzione di rappresentanza sociale, la quale agisce secondo la propria dinamica, che non coincide con i tempi e con le forme della politica. Qualsiasi sovrapposizione di questi due piani produce effetti negativi, in quanto indebolisce l’azione sindacale, costringendola ad un ruolo sussidiario rispetto al sistema politico, e limita la stessa autonomia dell’iniziativa politica, la sua capacità di sintesi e di mediazione sociale.

È necessario fare, in questa direzione, una scelta molto chiara e netta, e superare definitivamente ogni residuo di “collateralismo”, contrastando apertamente tutte le pressioni politiche che vorrebbero ricondurre il sindacato entro una determinata area di influenza, con l’argomento che in un sistema bipolare anche la società civile deve prendere posizione e schierarsi in uno dei due campi contrapposti. Questo argomento va rovesciato: il bipolarismo politico non deve condurre ad una colonizzazione dell’intera società, ma al contrario deve essere bilanciato da una più forte autonomia dei soggetti sociali. È qui in gioco il modello di democrazia che intendiamo costruire nel nostro futuro.

Da un lato, c’è la democrazia “verticalizzata”, plebiscitaria, che fa discendere tutto dalla legittimazione popolare del governo e del suo leader, travolgendo tutti i sistemi di autonomia, dalla magistratura all’informazione, dalle autonomie territoriali a quelle sociali; sul lato opposto, c’è l’idea di una democrazia allargata, strutturata, che riconosce il pluralismo della società e concepisce la stessa azione di governo non come un atto di decisionismo che si trasmette gerarchicamente dall’alto verso il basso, ma come un processo partecipativo e consensuale nel quale entra in gioco tutta la rete delle autonomie e dei corpi intermedi.

Il tema dell’autonomia ha quindi complesse e rilevantissime implicazioni politico-istituzionali, e un cedimento su questo punto significa farsi trascinare sul terreno del populismo, il che significa per il sindacato perdere la sua fisionomia e divenire una pedina da manovrare nel gioco della competizione bipolare, al servizio di qualche aspirante leader carismatico. Le due idee-forza per il sindacato sono autonomia e rappresentanza, che sono le due facce inseparabili di uno stesso processo. Se uno di questi due elementi entra in crisi, travolge necessariamente anche l’altro. Ora, questo processo deve essere rimesso in movimento, nella consapevolezza che abbiamo subito una battuta d’arresto, che autonomia e rappresentanza sociale sono oggi, per molti aspetti, obiettivi da riconquistare, da riattivare con un lavoro sindacale che ristabilisca un rapporto stretto con il mondo del lavoro e con le sue trasformazioni. Il nostro obiettivo è rappresentare il lavoro che cambia. E questo richiede una fortissima innovazione di tutta l’azione sindacale e dei suoi strumenti organizzativi.

E richiede, come condizione di partenza, un fortissimo ancoraggio al principio di autonomia, in quanto la rappresentanza non si costituisce per via politica o ideologica, ma solo in un rapporto diretto con le domande sociali e con la loro dinamica.

La via del sindacato è sempre una via pratica, sperimentale, che non muove dalla teoria, ma dall’ esperienza concreta dei soggetti sociali. L’autonomia è appunto l’originalità specifica di questo percorso, che parte sempre dalla realtà sociale e ne accompagna i movimenti, senza essere mai costretto entro schemi ideologici precostituiti. Senza autonomia non c’è sindacato, ma c’è solo un surrogato della politica, un movimento che ha nella sfera politica le sue motivazioni e i suoi effettivi centri decisionali. La piena riconquista dell’autonomia è quindi oggi il passaggio decisivo e il primo compito dell’azione sindacale.

 

5) Parlare di “riconquista dell’autonomia”, o di “risindacalizzazione”, significa riconoscere che c’è, per la CGIL, un problema non del tutto risolto per quanto riguarda il suo rapporto con la politica. Ed occorre quindi fare un bilancio di questa ultima stagione sindacale, caratterizzata da una grande mobilitazione di massa e, insieme, da una accresciuta difficoltà nelle relazioni unitarie. Si combinano, in questa fase, elementi di forza e di debolezza.

La CGIL, ponendo con grande nettezza il tema dei diritti, e assumendo una chiara linea di contrasto rispetto ai processi di precarizzazione del lavoro, si è posta alla testa di una grande mobilitazione civile e democratica e ha conquistato, in diversi settori della società italiana, una posizione di forte prestigio. Su questo medesimo terreno si sono determinate alcune serie linee di divergenza con CISL e UIL, che hanno portato alla firma separata del “patto per l’Italia”. Ci si può oggi interrogare sui vari passaggi tattici di questa vicenda e se davvero erano tutte precluse le possibilità di una mediazione unitaria. Ma c’è, al di là di questa ricostruzione critica, un punto politico che è decisivo: di fronte alle difficoltà unitarie, gran parte del gruppo dirigente della CGIL e del suo quadro attivo ha imboccato la strada dell’autosufficienza, ritenendo che la CGIL, finalmente libera di far valere senza condizionamenti la sua posizione politica, potesse reggere da sola lo scontro ed assumere il ruolo di punta nella mobilitazione politica contro il governo.

Di qui una serie di atti unilaterali, manifestazioni e scioperi, francamente non tutti dettati da una effettiva necessità, col risultato di generalizzare la divisione e di dare ad essa una valenza strategica. Si può creare così una falsa prospettiva politica, mettendo in sordina il problema dell’unità e coltivando l’illusione che sia sufficiente la “coerenza” delle posizioni, anche pagando il prezzo dell’isolamento.

L’unica cosa che conta è avere ragione “nel merito”. Ma il merito di un determinato problema è inseparabile dal contesto e dalla prospettiva strategica generale, e quindi una serie di posizioni giuste nella loro singolarità possono dare luogo ad una linea errata, o contraddittoria, proprio perché non si valutano tutti gli effetti politici e di contesto delle singole scelte. È per questa incertezza strategica che la forza della CGIL, la sua capacità di mobilitazione, rischia di capovolgersi in una debolezza. Alla fine di questa stagione sindacale, la CGIL si trova in una posizione critica, sia per gli strappi compiuti nel tessuto unitario, non occasionali ma insistiti e sovraccaricati di significato politico e strategico, sia per gli effetti di “politicizzazione” che ne sono derivati, per l’impressione, vera o presunta, di uno sconfinamento sul terreno politico, per condizionare la dirigenza dei DS, per offrire una interlocuzione politica ai movimenti, per gettare le basi di un nuovo progetto.

Dobbiamo quindi fare un bilancio critico e non autocelebrativo. E dobbiamo respingere la tesi che contrappone forza di mobilitazione e ispirazione unitaria, perché in una prospettiva di più lungo periodo è vero esattamente il contrario, che un movimento ha tanta più possibilità di incidere e di durare quanto più è larga e unitaria la sua base sociale.

I riflessi di tale concezione sono state ampiamente misurati con la sconfitta subita nel contratto separato dei metalmeccanici.

Un gruppo dirigente responsabile deve essere in grado di capire quando un ciclo politico si è concluso e si rende necessaria una correzione, una sterzata. Noi oggi siamo a questo punto.

Possiamo lasciare che le cose seguano per forza di inerzia il loro corso, e adattarci quindi alla prospettiva di una CGIL che cambia il suo statuto politico, e sostituisce l’unità con ‘autosufficienza, o viceversa possiamo dare il segno di un cambiamento, a condizione che questo segno sia esplicito, dichiarato e visibile.

 

6) In questa necessaria opera di correzione, la battaglia sui diritti non va affatto accantonata. È questo un tema centrale e strategico, sotto il profilo sia politico che sindacale, perché è in gioco il modello sociale, il suo sistema di relazioni, il ruolo che in tale sistema ha la persona del lavoratore, come titolare di una effettiva cittadinanza o come merce di scambio asservita alle logiche instabili del mercato.

È evidente che la questione dei diritti, soprattutto nel caso dei diritti sociali, ha a che fare direttamente con l’assetto dei poteri, in quanto un diritto è solo virtuale se non c’è un potere politico che lo garantisce e lo rende effettivo. Tutto il cammino del moderno costituzionalismo europeo, fino alla recente Carta di Nizza, è il tentativo di allargare la sfera dei diritti, di dare ad essi una forza giuridica vincolante, ma è un cammino accidentato, che spesso si scontra con l’effettività dei rapporti di forza e con la materialità dei processi politici concreti. Allora, il problema attuale è quello di declinare il tema dei diritti non solo in termini declamatori o propagandistici, ma sul terreno concreto dell’azione politica e sindacale. Si tratta, per il sindacato, in primo luogo, di “contrattualizzare” i diritti, di rivisitare quindi tutto l’impianto contrattuale per offrire ai lavoratori un sistema forte di garanzie e per impedire la balcanizzazione del mercato del lavoro, sotto il dominio della precarietà e della flessibilizzazione selvaggia.

È nella concretezza del lavoro sindacale quotidiano che dobbiamo tenere ben ferma la bussola dei diritti, ovvero della dignità del lavoro, cercando di volta in volta i punti possibili di avanzamento. Si colloca qui la necessaria azione di contrasto con la legge delega sul mercato del lavoro, e l’iniziativa da rilanciare sui progetti di legge proposti dalla CGIL, come base per un confronto politico e sindacale allargato.

Una strada del tutto opposta è quella che si è tentata con il referendum per l’estensione dell’articolo 18, la strada cioè di una spallata, di una prova di forza, spostando il confronto dal terreno sindacale a quello della mobilitazione politica, col risultato di scavalcare l’autonomia dei soggetti sociali e di avventurarsi in uno scontro politico-ideologico dall’esito assai dubbio, come hanno dimostrato anche precedenti esperienze.

II referendum è stato opportunamente disinnescato da una accorta conduzione politica dei maggiori partiti del centro-sinistra. La CGIL si è trovata in evidente difficoltà, e alla fine ha assunto una posizione discutibile e di scarsa efficacia. Ma questo è anche l’effetto di errori e di incertezze precedenti, perché non si è bloccata sul nascere la mobilitazione di alcune importanti strutture nella raccolta delle firme per il referendum, e non è stata contrastata con forza, sul terreno politico, l’idea di una radicalizzazione, di uno scontro frontale, secondo la quale non c’è ormai più nessuno spazio di negoziazione sindacale.

Il referendum nasce su questo equivoco: che gli spazi della concertazione siano ormai bruciati, e che con questo governo e con queste controparti imprenditoriali sia possibile attuare solo una linea di resistenza. La CGIL non può farsi trascinare su questo terreno. Ora, a referendum archiviato, il tema dei diritti può tomare nelle nostre mani.

 

7) Se si avvia davvero un processo di risindacalizzazione, secondo le due coordinate dell’autonomia e della rappresentanza, anche la prospettiva dell’unità sindacale può tomare di attualità e può realisticamente essere affrontata come un obiettivo per l’oggi, e non come un miraggio per un futuro immaginario. Parliamo del ripristino, a tutti gli effetti, dell’unità d’azione tra le tre confederazioni, e non dell’obiettivo più ambizioso dell’unità organica, che ha bisogno evidentemente di più lunghi tempi di maturazione, e potrà essere solo lo sbocco di un progressivo avvicinamento, sul terreno contrattuale, rivendicativo, programmatico, e di un conseguente mutamento del clima politico nelle relazioni reciproche. È questo un atto necessario di realismo, dovendo registrare la rapidissima involuzione che si è avuta in questi anni, passato il momento in cui l’unità organica sembrava essere a portata di mano. E sono molteplici le responsabilità di quel fallimento, anche all’interno della CGIL.

Ora si tratta di rimettere in moto un processo, valutando con oggettività la situazione data e le diverse posizioni in campo. Come sempre avviene nei momenti di rottura, c’è la tendenza a drammatizzare i punti di dissenso, e ogni confederazione fa leva sullo spirito di organizzazione e tende a rappresentare le differenze come la contrapposizione di opposti modelli strategici, e finché dura questa situazione il contenzioso si autoalimenta, e soprattutto si determina nel corpo attivo delle organizzazioni un atteggiamento integralistico di chiusura e di diffidenza.

La prima operazione da fare è quella di andare all’osso del problema, di individuare cioè quali sono i punti di divaricazione davvero sostanziali, depotenziando e relativizzando tutto il sovraccarico ideologico che è stato strumentalmente depositato, da una parte e dall’altra. Alla fine di questa operazione, troviamo sì un pluralismo di approcci e di culture sindacali, anche all’interno delle singole organizzazioni, ma nessuna vera discriminante di principio, se non sul tema cruciale delle regole della democrazia. Tutto il resto fa parie di una normale dialettica sindacale, che può essere incanalata dentro un processo di mediazione unitaria. Occorre dunque concentrare la nostra attenzione e il nostro impegno sul problema delle regole democratiche.

Possiamo utilmente seguire le indicazioni contenute nel documento Per riprendere il cammino dell’unità sindacale, sottoscritto da Gino Giugni e da altri autorevoli esponenti della cultura democratica italiana. Il percorso suggerito è quello della “definizione di un codice di autoregolamentazione”, rinviando ad un secondo tempo l’eventuale sanzione legislativa, e il terreno di mediazione, tra i due estremi di una democrazia solo associativa o solo referendaria, è individuato nella “rete rappresentativa e unitaria” delle RSU, che può “giocare un ruolo importante nella definizione di un sistema di democrazia sindacale”. Sulla base di un modello di “democrazia rappresentativa”, che concepisce le rappresentanze aziendali come l’effettivo punto di congiunzione tra iscritti e lavoratori, si può costruire un sistema di regole, entro il quale il pluralismo sindacale si possa sviluppare senza effetti distruttivi e senza atti unilaterali, governando le differenze e definendo gli strumenti di legittimazione delle decisioni.

I due semplicissimi principi regolatori possono essere i seguenti: la rappresentatività delle organizzazioni va misurata, e tutti gli atti decisionali sono legittimati dal principio di maggioranza. Occorre inoltre un impegno delle organizzazioni a privilegiare il percorso unitario e a ricercare in quella sede la risoluzione dei punti di conflitto, e anche questo può essere tradotto in norme di comportamento, in modo che ogni organizzazione non sia vincolata solo dai suoi meccanismi interni, ma sia sottoposta, per sua autonoma e responsabile decisione, ad un sistema di regole che la impegna nella ricerca di soluzioni unitarie, lungo tutto il processo negoziale, dalla piattaforma all’accordo. A partire da questi principi, non è impresa impossibile elaborare un protocollo che regoli tutte le relazioni sindacali.

D’altra parte esiste già nel settore pubblico un modello di regolazione che può essere, con tutti i necessari adattamenti, esteso al settore privato.

La CGIL deve prendere l’iniziativa. E perché questa iniziativa sia credibile e impegnativa, deve assumere da ora l’impegno a non compiere alcun atto unilaterale (piattaforme, scioperi, accordi), rinviando tutte le questioni controverse ad una sede unitaria di verifica e di mediazione. Deve essere chiaro che non è la CGIL l’ostacolo all’unità (e allo stato attuale ciò non risulta evidente), e che al contrario è la CGIL che invita le altre confederazioni ad un atto comune di responsabilità.

Ciò avrebbe un forte impatto sulle relazioni sindacali, e avrebbe l’effetto di mobilitare tutto il nostro gruppo dirigente diffuso e le nostre strutture nella ricerca di obiettivi, anche parziali, di unità, sia sul terreno delle regole sia su quello delle politiche rivendicative.

Questo forte rilancio dell’iniziativa unitaria è oggi maturo, perché, di fronte alla stagnazione del nostro sistema produttivo e alla perdita di competitività e di fronte ad un’azione di governo che non offre nessuna sede effettiva di confronto e di concertazione, gli elementi di convergenza tra le confederazioni sono obiettivamente molto forti, e c’è un comune interesse a superare la fase delle divisioni per fronteggiare insieme uno scontro politico-sociale di grande difficoltà.

 

8) L’accordo siglato tra CGIL CISL UIL e Confindustria è il segno più importante e significativo della convergenza programmatica tra le confederazioni sui nodi di fondo dello sviluppo del paese. È un passo che va nella direzione giusta, e che va adeguatamente sostenuto, facendone la base dell’iniziativa sindacale nei prossimi mesi, in vista delle scelte di politica economica che dovrà compiere il governo.

In questo quadro bisogna che ritorni al centro dell’impegno nazionale il mezzogiorno che di queste scelte per la competitività può rappresentare la leva possibile per portare tutto il paese a competere alla pari degli altri paesi avanzati in Europa e nell’economia mondiale.

La decisione delle confederazioni sindacali e di Confindustria di esercitare congiuntamente una pressione sul governo per realizzare una politica di sviluppo e per correggere in punti essenziali (ricerca, formazione, infrastrutture, mezzogiorno) la linea sin qui seguita, rappresenta una novità politica importante, perché si rompe il collateralismo governo-Confidustria che aveva caratterizzato tutta la precedente gestione della presidenza D’Amato. È anche questo un segno del nuovo clima politico che si sta formando nel paese.

Questo accordo dovrà essere gestito anche a livello territoriale, individuando tutti gli interlocutori possibili, istituzionali e sociali, per una ripresa di politiche di concertazione, anche nel quadro della nuova ripartizione dei poteri decisa dalle nuove norme costituzionali.

 

9) La concertazione resta la grande scelta strategica per il sindacalismo confederale, sia al livello centrale, sia ai livelli territoriali decentrati. Il punto di riferimento tuttora valido è il sistema di relazioni fissato nel protocollo Ciampi del ‘93, che può essere modificato e aggiornato nella sua strumentazione concreta, ma resta del tutto attuale nella sua ispirazione generale.

Dopo l’ingresso nell’euro, reso possibile proprio grazie a quell’accordo, si tratta ora di ridefinire gli obiettivi macroeconomici per il prossimo futuro, di decidere cioè quale politica dei redditi e quale politica di sviluppo sono oggi necessarie, confermando che scelte di questa portata possono essere efficacemente perseguite solo con il concorso delle forze sociali e con il metodo della concertazione. È questo un punto decisivo della critica all’attuale governo, che ha di fatto accantonato la conciliazione. E la crisi della conciliazione coincide anche, non casualmente, con un grave rallentamento dello sviluppo. Da ciò non dobbiamo affatto concludere che la conciliazione rappresenta una stagione politica ormai conclusa (e qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo, perché il sindacato può finalmente tornare ad essere un soggetto conflittuale e antagonista), ma dobbiamo al contrario esercitare una forte offensiva verso il governo perché si riapra un vero tavolo di confronto, e con lo stesso metodo dobbiamo operare nei nostri rapporti con le istituzioni locali, le quali presentano un quadro politico assai differenziato.

La concertazione come metodo e come sistema è il modo in cui il sindacato realizza la sua confederalità, la sua capacità di misurarsi con i problemi generali del paese, superando la dimensione corporativa, e di assumere vincoli di coerenza e di responsabilità in vista di determinati obiettivi condivisi. E oggi il tema centrale a cui finalizzare il confronto deve essere quello della ripresa dello sviluppo e dell’occupazione.

 

10) Nell’ambito delle regole per la concertazione è aperta la discussione sul sistema contrattuale. Il sistema attualmente in vigore ha tutto sommato conseguito i suoi obiettivi di fondo, e sono perciò da scartare le ipotesi che prefigurano un modello del tutto alternativo, come quelle ad esempio che si orientano verso un totale svuotamento dei contratti nazionali di categoria. Il sistema contrattuale organizzato sui due livelli ha il difetto, fondamentalmente, di essere un sistema zoppo, perché il livello decentrato non è garantito per tutte le imprese e coinvolge solo una parte, ancora minoritaria, del mondo del lavoro. Vi sono qui difficoltà oggettive e strutturali, date le caratteristiche della nostra struttura produttiva, basata largamente sulle piccole imprese. In questa situazione, un sistema che sposti drasticamente il baricentro contrattuale dal livello nazionale a quello decentrato rischia di lasciare del tutto scoperti, senza protezione contrattuale, decisivi settori di lavoro dipendente.

Lo spostamento verso il secondo livello, che pure è necessario, va quindi bilanciato e graduato, cominciando a sperimentare nuove forme contrattuali per aree territoriali, per distretti, per il settore dell’artigianato. Si tratta cioè di consolidare il secondo livello, cercando di renderlo effettivamente esigibile e generalizzato, e in rapporto a questo processo potranno essere gradualmente innovate le caratteristiche del Contratto nazionale, mantenendo comunque una struttura su due livelli ed escludendo la soluzione dei contratti regionali, che delimiterebbe una rottura verticale tra regioni forti e regioni deboli.

Il contratto nazionale, in prospettiva, oltreché difendere il potere di acquisto dei salari dall’inflazione reale, deve diventare anche strumento di riforma e innovazione delle politiche contrattuali, puntando ad un rafforzamento qualitativo e ad un’estensione quantitativa del secondo livello per la determinazione più concreta delle materie contrattuali (organizzazione del lavoro, sistema degli orari, salari di produttività, percorsi formativi, strumenti di partecipazione).

In questa prospettiva, che va attuata in una logica di prudente gradualità, vanno anche considerati i processi di integrazione europea, con la possibilità di avviare un effettivo coordinamento delle dinamiche contrattuali, e vanno esaminate le varie ipotesi di accorpamento contrattuale, per superare la frammentazione attuale.

Ma ciò che soprattutto appare oggi urgente è la riapertura di una discussione sui contenuti e sugli obiettivi della politica contrattuale, Mentre il mondo del lavoro è radicalmente cambiato, le nostre politiche rivendicative non sono state seriamente rielaborate. È il momento di aprire, su questo punto, una grande discussione di massa, nel sindacato e con i lavoratori. Il punto di svolta è nel fatto che, con l’affermazione dell’economia post-fordista, non sono più sufficienti le tutele sul luogo di lavoro, ma occorre considerare nel suo insieme la “carriera lavorativa”, la possibilità di gestire i processi di mobilità e di disporre delle risorse necessarie per orientarsi nel mercato del lavoro e per non essere spinti verso un esito precario e marginale e/o di espulsione anticipata del lavoro in conseguenza del raggiungimento della condizione di lavoratore anziano.

Il processo di invecchiamento della popolazione, la particolarità del fenomeno demografico in Italia, il basso livello di partecipazione al Mercato del lavoro di anziani e di donne, le aspettative di invecchiamento attivo e di una condizione di un età più libera impongono al sindacato di affrontare i problemi del lavoro e della sua qualità, della formazione permanente e della qualità della vita che avanzano gli anziani.

L’asse delle politiche rivendicative richiede sempre più una forte integrazione tra fabbrica e territorio, E allora, di fronte a questo processo, cambiano le priorità. I temi oggi cruciali sono la formazione, la crescita di una professionalità polivalente, il controllo delle flessibilità, e il governo dei tempi, la costruzione di un sistema di protezione sociale che aderisca a esperienze di lavoro saltuarie e intermittente, la riforma di tutti gli strumenti di governo del mercato del lavoro, per avviare davvero un sistema efficace di orientamento professionale e di incontro tra domanda e offerta. In sostanza, si tratta di costruire una politica rivendicativa e contrattuale che affronti le nuove modalità del lavoro e che contrasti i processi oggi prevalenti di precarizzazione e di negazione dei diritti, riaffermando un rinnovato equilibrio nel rapporto tra contrattazione e legge.

Il processo di cambiamento che è in corso, con il passaggio dalla rigidità della fabbrica fordista alla flessibilità del “capitalismo molecolare”, non può essere bloccato, o rovesciato, ma è possibile, su questo nuovo terreno, ricostruire una pratica sindacale che sia in grado di tutelare le nuove forme di lavoro. Ma per questo è necessaria una politica rivendicativa che sia in grado di intervenire non solo nel singolo luogo di lavoro, ma nel processo sociale allargato in cui è immessa la forza-lavoro.

Il nostro tema è quindi la qualità sociale del processo di modernizzazione. Modernizzare significa ispirare l’innovazione (tecnologica, produttiva, organizzativa) ai valori che sono il portato della storia moderna: autonomia personale, uguali diritti, primato della persona. La modernizzazione, in questo senso, non è la minaccia, ma è la ricerca delle soluzioni adeguate, in coerenza con il sistema di valori che abbiamo storicamente elaborato.

Vanno aggiunti due temi. Il primo è la necessità di una rivalutazione dei livelli salariali, soprattutto per le fasce lavorative più deboli, che sono ormai assai vicine alla soglia di povertà, e di una complessiva politica salariale capace di contrattare i salari di fatto valorizzando le professionalità.

Contestualmente va posto il problema di come assicurare alle pensioni il mantenimento nel tempo del loro valore e quindi del potere d’acquisto anche in relazione all’andamento del PIL e della produttività generale, attuando una politica di tutela dei redditi netti sulla base di una solidarietà esplicita verso le fasce più deboli.

Deve essere questo un obiettivo centrale della politica dei redditi, in linea con i maggiori paesi europei. Si inscrive anche in questo titolo la battaglia contro forme di dumping sociale per la regolarizzazione dell’economia sommersa e per il rispetto dei contratti, in un contesto nel quale le misure adottate dal governo non hanno prodotto effetti di qualche significato.

Anche l’azione del sindacato è stata su questo tema inadeguata, il che impone mettere a punto una linea di condotta più efficace capace di coinvolgere e promuovere la mobilitazione degli interessati.

Il secondo tema, più complesso, è quello delle forme di controllo e di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese e alle loro scelte strategiche, è il tema, mai seriamente affrontato, della democrazia economica. Occorre, in questo campo, riattualizzare le diverse elaborazioni sindacali e confrontarle con le diverse esperienze che si sono realizzate nel quadro europeo, e utilizzare tutti i nuovi spazi che si sono aperti con la normativa sulle imprese europee. A questo obiettivo possono concorrere diversi strumenti (consigli di vigilanza, azionariato, strumenti di cogestione, eccetera), che vanno tutti attentamente considerati e implementati in un progetto complessivo di riforma democratica del sistema di impresa.

 

11) Le nuove caratteristiche del mercato del lavoro richiedono oggi, più che nel passato, un sistema di welfare che sia capace di costruire per tutti un’efficace rete di protezione sociale, compensando i fenomeni di precarietà e di discontinuità del lavoro, e considerando anche il nuovo massiccio fenomeno dell’immigrazione e tutte le sue complesse implicazioni sociali. Occorre un welfare universalistico e inclusivo, che si rivolge alla persona, al cittadino, e assicura a tutti i diritti fondamentali di cittadinanza. Questa scelta è incompatibile con una linea di politica economica che punti a una radicale riduzione della pressione fiscale, perché ciò significherebbe necessariamente privatizzazione dei servizi sociali e creazione di nuove diseguaglianze.

Ed è incompatibile con il mantenimento di posizioni di privilegio per determinate categorie, come è stato a lungo, prima della riforma Dini, nel settore previdenziale, e come rischia di riprodursi tuttora, in vari campi, se manca un’azione politica consapevole per l’uguaglianza dei diritti.

Il welfare costituisce il terreno decisivo sul quale si fronteggiano opposte culture politiche: il modello di una competizione senza regole, che lascia agire liberamente gli spiriti vitali del mercato, o la costruzione di una società solidale e coesa. In questo senso, va nettamente respinto l’attacco governativo al sistema pensionistico. E va approntata una più larga piattaforma di rilancio e di riqualificazione del welfare, considerando nella loro connessione i diversi tipi di intervento: politiche assistenziali, formative, ammortizzatori sociali, misure di sostegno al reddito. È l’insieme della spesa sociale che va riorganizzata e potenziata.

In questa operazione di rilancio del welfare, occorre superare ogni visione centralistica e statalistica. È decisivo sia l’apporto delle istituzioni locali, sia un’integrazione dell’intervento pubblico con l’iniziativa di quella vasta rete associativa che costituisce il “terzo settore”. È proprio in questo campo che assume tutto il suo significato il principio della “sussidiarietà”, in quanto si tratta di operare non burocraticamente, ma in un rapporto di vicinanza con i bisogni sociali concreti, delle persone e delle comunità, offrendo servizi differenziati e personalizzati, e utilizzando per questo tutto il grande patrimonio del volontariato sociale. Mentre la sfera dei diritti fondamentali non può che essere regolata sul piano costituzionale secondo il principio di uguaglianza, le concrete modalità di attuazione e di organizzazione del welfare dovranno essere articolate nei diversi contesti territoriali.

E il sindacato deve essere un attore decisivo nella concertazione sociale di tali sistemi.

Anche in questo campo sarà sempre più decisiva la dimensione europea, e sarà necessaria un’opera di progressiva armonizzazione dei sistemi sociali nazionali. A questo confronto dobbiamo prepararci, senza chiuderci in una autosufficienza nazionale, ma al contrario sollecitando per il futuro un ruolo più forte dell’autorità europea nel coordinamento delle politiche economiche e sociali, per la difesa e il rilancio del modello sociale europeo.

 

12) Per affrontare il complesso di problemi fin qui delineati, in una più consapevole prospettiva strategica, la CGIL ha bisogno di realizzare un profondo rinnovamento organizzativo. La struttura attuale è troppo appesantita e burocratizzata, e soprattutto è ritagliata su un sistema sociale e produttivo che è ormai avviato al tramonto; l’effetto che ne deriva è una tendenza alla stabilizzazione e non all’innovazione, al presidio dei punti di forza tradizionali e non ad un processo di sindacalizzazione dei nuovi soggetti sociali.

Il compito di una riforma organizzativa è assai complesso, e porta con sé numerose implicazioni, che vanno tutte attentamente considerate, senza troppo sommarie improvvisazioni. L’importante è aprire finalmente una discussione, e prendere sul serio il tema della riforma organizzativa, che è stato fin qui solo vagamente accennato, ma mai sottoposto ad una verifica approfondita. Indichiamo qui, in prima approssimazione, alcune possibili linee di intervento:

 

  1. a) un processo sostanziale di decentramento dei compiti di direzione e delle risorse a ciò necessarie, così da creare un sistema di autonomie territoriali, capace di confrontarsi con il nuovo assetto istituzionale;
  2. b) un fortissimo investimento strategico nella direzione della sindacalizzazione dei nuovi lavori;
  3. c) un potenziamento dell’orizzontalità territoriale e il reinsediamento territoriale della CGIL, in quanto contributo ad un possibile processo di riunificazione del lavoro frammentato e di sostegno al federalismo solidale nonché di costruzione del welfare locale attraverso lo sviluppo della negoziazione sociale e la partecipazione nella forma della cittadinanza attiva.
  4. d) l’organizzazione di una seria battaglia politica interna per l’affermazione di nuovi criteri di selezione dei gruppi dirigenti, per superare le logiche di fedeltà, di conformismo, o di appartenenza politico-correntizia, le quali determinano nel corpo dell’organizzazione numerosi effetti degenerativi, e impediscono un rinnovamento qualitativo del quadro dirigente, ai diversi livelli;
  5. e) un reale processo di democratizzazione, con l’organizzazione sistematica di momenti di consultazione, di verifica, nei gruppi dirigenti e tra gli iscritti, in una logica aperta, e non sulla base di precostituiti accordi di vertice;
  6. f) il pieno riconoscimento del pluralismo interno, che non si esaurisce nelle aree congressuali, e anche dell’autonomia dei singoli dirigenti, puntando a costruire un sistema di direzione più aperto e plurale che rispecchi tutta la complessità delle culture politiche presenti nell’ organizzazione;
  7. g) una riforma degli organi della magistratura interna attraverso una composizione di tali organismi dettata non da ragioni politiche, ma dall’effettiva competenza giuridica e dai requisiti di autonomia e indipendenza;
  8. h) la costruzione di una rete di relazioni con le competenze esterne, con gli specialismi, con la cultura scientifica, considerando questo lavoro come un antidoto rispetto alle tentazioni di autosufficienza e di integralismo di organizzazione.

 

13) La cultura politica del sindacato, e segnatamente della CGIL, ha le sue basi nella tradizione riformista del movimento operaio, nel processo storico che ha creato tutte le più importanti istituzioni in cui hanno preso corpo gli obiettivi di solidarietà e di coesione sociale. Questa ispirazione riformista della CGIL va oggi apertamente rivendicata e riaffermata.

Il sindacato riformista è un’organizzazione che non si limita mai all’azione di protesta, di denuncia, di propaganda, ma costruisce soluzioni, fa coesione sociale, crea processi reali di solidarietà. E, fuori da questa tradizione riformista, il sindacato rischia di smarrire la sua essenziale ragion d’essere. Il riformismo, in questa accezione, non è un’ideologia, un’appartenenza politica, una dottrina, ma una prassi sociale, sempre aperta alla verifica e alla sperimentazione. Il sindacato riformista è il sindacato dell’azione concreta, che traduce sempre la sua critica in azione propositiva e costruttiva, senza restare mai prigioniero di astratti schemi ideologici.

Di questa ispirazione e di questa prassi oggi abbiamo una grande necessità, perché è l’unico modo per affrontare le sfide del nostro tempo.

 

14) È in questo senso che parliamo oggi di “risindacalizzazione”, nel senso di ricollegarci al grande filone storico del sindacalismo italiano e alla sua matrice pragmatica e riformista. Ciò non significa affatto l’assunzione di una linea moderata, accomodante, subalterna, ciò non significa non riconoscere gli elementi oggettivi del conflitto sociale insiti nella complessità e nella diversità degli interessi presenti nella società, ma significa che i nostri obiettivi devono sempre essere declinati in termini contrattuali e rivendicativi, che l’essenza del lavoro del sindacato è questa capacità di traduzione, di messa alla prova di tutte le costruzioni teoriche, nel vivo di un processo sociale. All’inverso, un sindacato politicizzato, ideologizzato, che antepone la purezza dei principi alla verifica della realtà, finisce per perdere la sua forza, perché si allontana dal suo terreno specifico, e lascia scoperta la sua funzione di rappresentanza sociale. D’altra parte, non mancano nella storia gli esempi che dimostrano questa tesi, questo rapporto tra ideologizzazione e declino, tra dogmatismo politico e impotenza sindacale. La storia della CGIL, nonostante i vincoli assai stretti che essa ha avuto con la sinistra politica, e che oggi è possibile superare in via definitiva, è una storia sindacale, condizionata dalla politica, ma mai allineata a imperativi di ordine ideologico. È ora il momento di far valere pienamente questa nostra tradizione, nel segno dell’autonomia sociale, della funzione irriducibile del sindacato come soggetto di rappresentanza.

 

15) Su questi temi ci sembra utile e non dilazionabile una verifica interna. Molte cose sono successe in questi anni, molti nodi non sono stati sciolti, molti approcci politici convivono nella CGIL senza essere stati messi seriamente a confronto. Questo documento è solo un contributo a questa verifica, senza chiusure preventive, senza logiche correntizie, nella convinzione che occorre da parte di tutti la disponibilità a rimettersi in discussione e ad avviare una nuova fase di confronto, con spirito aperto e senza verità prefabbricate.

Questa discussione non riguarda soltanto noi, i dirigenti e i quadri della CGIL, ma riguarda l’intero movimento sindacale, e riguarda anche, in termini più generali, il destino del nostro paese.

Per impostare bene la nostra discussione, dobbiamo saper guardare a questo orizzonte più vasto. Perché la funzione storica della CGIL è quella di promuovere la crescita civile e democratica del paese, attivando a questo fine una larga alleanza sociale. Discutere di noi stessi significa dunque discutere di un’azione sindacale che si misura con i problemi della società italiana.



Numero progressivo: D30
Busta: 4
Estremi cronologici: 2003, 30 luglio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -