SINDACALISMO E POLITICA
Intervento sul Blog di Josè Luis Bulla (http://lopezbulla.blogspot.com) come conclusione di un dibattito che vi ha avuto luogo nel 2013-2014. Il titolo spagnolo è “Sindicalismo y política: Conclusiones de un debate a cargo de Riccardo Terzi”
Non pensavo affatto, inviando il mio scritto a Josè Luis, di poter aprire una discussione così impegnativa e di così ampia portata, e sono sinceramente grato a tutti quelli che hanno voluto intervenire in questo dibattito, con osservazioni critiche puntuali e approfondite, e soprattutto con una straordinaria passione intellettuale e civile. È per me una sorpresa graditissima, perché mi sono ormai abituato, in Italia, a riflettere in solitudine, senza che vi sia una qualche sede per un serio confronto collettivo.
Cercherò quindi di chiarire il mio pensiero sui diversi temi sollevati nella discussione. Con una premessa, che mi sembra importante: c’è tra di noi un comune sottofondo politico e culturale, una convergenza assai forte su quelle che sono le premesse fondamentali, per cui le differenze, che pure esistono, non sono che possibili articolazioni all’interno di un discorso che ha una sua forza unitaria, proprio perché sta ben piantato nel grande solco storico del movimento operaio, delle sue conquiste e delle sue sconfitte. Procederò per punti, non essendo a questo punto necessario riprendere il filo generale del discorso, che è stato colto esattamente in tutti gli interventi.
1) Organizzazione e burocrazia
La critica della burocratizzazione non è, non deve essere, il rifiuto dell’organizzazione, perché qualsiasi movimento sociale ha la necessità, per poter incidere nei rapporti di forza, di superare la fase della fluidità e della spontaneità e di darsi una struttura stabile, organizzata, capace di reggere anche nei momenti di difficoltà e di riflusso. Condivido totalmente quanto si è detto in proposito. Ma esistono diversi possibili modelli di organizzazione, e ogni volta si tratta di decidere quale forma organizzativa sia meglio rispondente alle esigenze del momento. In una fase di acuta crisi sociale e di profonde trasformazione del lavoro, come è quella attuale, l’accento va posto non sulla stabilità, sulla continuità, ma piuttosto sulla capacità di innovazione e di sperimentazione. La burocratizzazione può allora essere intesa come l’incapacità della struttura di rispondere alle nuove domande, come la forza d’inerzia che tiene inchiodata l’organizzazione ad una pratica, ad uno stile di lavoro, ad un rituale che ha ormai perso la sua efficacia.
E soprattutto è assai importante il discrimine individuato da Josè Luis tra sindacato dei lavoratori o per i lavoratori, perché ne discendono diverse e opposte logiche organizzative: democrazia aperta, allargata, partecipativa, o all’opposto il primato esclusivo dei gruppi dirigenti. Io ho parlato della necessità di spostare il baricentro verso il basso. Forse è meglio dire che non ci deve essere nessun baricentro, ma una circolarità sempre aperta tra l’alto e il basso, nelle due direzioni. Il che vuol dire che il lavoro di direzione è sì essenziale, ma non si costituisce come una funzione separata, e sta dentro un continuo processo di verifica democratica, essendo aperta a tutti gli affiliati la possibilità di critica e di proposta, con uno scambio permanente di idee e di esperienze. Ora, a me sembra che la crisi attuale richieda, per essere affrontata con qualche possibilità di successo, un di più di democrazia e di partecipazione, proprio perché su tutti noi incombe il rischio di una rottura del rapporto di fiducia tra lavoratori e organizzazione, e allora sono proprio le risorse di un reale processo democratico quelle su cui puntare, con decisione, per scongiurare il possibile declino. L’organizzazione, insomma, non è che il mezzo, lo strumento, che deve essere reso coerente con le necessità strategiche di una determinata fase storica, e quindi dobbiamo sempre saper neutralizzare le spinte all’autoconservazione, che tengono bloccata l’organizzazione in una perenne riproduzione del suo rituale, anche quando tutta la situazione esterna reclama un cambio di marcia. E mi sembra essere proprio questo oggi il rischio che incombe sul movimento sindacale.
2) L’ideologia
In che senso ho parlato della necessità, per il sindacato, di fondare la sua azione su una solida base ideologica? So bene tutta l’ambiguità di questa parola, e il suo possibile significato come “falsa coscienza”, come deviazione idealistica del pensiero verso una rappresentazione astratta che impedisce la lettura dei processi storici reali. Non mi sorprendono quindi le riserve di Isidor Boix e di Josè Luis. Io parlo di “ideologia” in un senso più ampio e più aperto, e mi riferisco alla necessità di disporre di una interpretazione della realtà, e in questo senso l’ideologia non è altro che l’insieme delle categorie, teoriche e filosofiche, con le quali ci mettiamo in relazione con il mondo, è il varco con il quale cerchiamo di aprirci alla comprensione della realtà. Se si preferisce, possiamo più semplicemente dire teoria, pensiero critico, coscienza storica.
In questa mia rivalutazione dell’ideologia c’è un preciso intento polemico, contro tutta quella tendenza, oggi così diffusa, a proclamare la fine delle ideologie e l’avvento di una società finalmente liberata dalla fatica del pensare, e tutta dedita al calcolo pragmatico delle convenienze, dentro un universo sociale e culturale che è dato una volta per sempre. Il mondo post-ideologico che viene così annunciato e proclamato non è altro che il definitivo adattamento alla realtà, così com’è, e ogni tentativo di progettare una diversa realtà viene bollato, alla radice, come un’intromissione dell’ideologia, come un riaffiorare di quegli spettri ideologici che hanno funestato tutta la storia del Novecento. La crociata anti-ideologica finisce così per essere, nella sua essenza, una crociata contro la libertà del pensiero e della ricerca, che si vorrebbero costringere dentro il perimetro angusto dell’attuale struttura sociale e dei suoi assetti di potere. Come si vede, siamo qui in presenza della più violenta e feroce ideologia, la quale pretende di imporre la totale identificazione della realtà e del pensiero. Se stiamo dentro questo orizzonte, abbiamo a disposizione solo gli strumenti dell’emendamento, dell’intervento sul dettaglio, essendo preclusa ogni progettazione di più larga portata. Ora, un sindacato dell’emendamento non vedo a chi possa interessare, e quali energie possa suscitare. Questo è il senso del mio richiamo alla “base ideologica”, il che vuol dire, in sintesi, che il sindacato ha un ruolo solo se ha una sua autonoma capacità di analisi critica della società e di elaborazione di un suo progetto di cambiamento.
Non basta, a mio giudizio, il richiamo alla prassi, perché la prassi, a sua volta, deve essere guidata da una teoria. In Gramsci, a cui molti interventi si riferiscono, c’è una “filosofia della prassi”, un’interpretazione della storia nella quale tutto è ricondotto al libero gioco delle forze in campo, al conflitto politico e sociale, senza più nessun residuo metafisico e trascendente, nella prospettiva di uno storicismo integrale. Ma si tratta, appunto, di una teoria, di una interpretazione, di uno sguardo ideologico sulla nostra condizione umana e su ciò che sta nelle nostre possibilità di azione e di costruzione politica. Azione e pensiero sono, in tutta la nostra tradizione, strettamente intrecciati, sono le due dimensioni che danno un senso e un’identità alla nostra esistenza. Come dice Engels, il movimento operaio è l’erede della filosofia classica tedesca: non è solo azione, mobilitazione degli interessi immediati, ma è pensiero che si incarna nella concretezza della lotta politica e sociale.
Ma da dove viene questa capacità di uno sguardo sul mondo, oltre l’immediatezza degli interessi? Qui c’è un discrimine tra la tesi, di Kautsky e di Lenin, che la coscienza viene dall’esterno, e la tesi opposta, che scommette su una progressiva maturazione politica e intellettuale a partire dalle esperienze concrete del movimento, il quale dunque ha in se stesso le risorse necessarie e sufficienti per superare lo stadio corporativo. Io sono, decisamente, per questa seconda alternativa, e credo che una delle ragioni del fallimento storico dell’esperienza comunista stia proprio in questa pretesa di dirigere dall’esterno e di affermare il “primato della politica”, con tutte le inevitabili degenerazioni autoritarie che discendono da questo principio. Rinvio ancora una volta a Bruno Trentin, alla sua ricostruzione e rivalutazione delle correnti libertarie e antiautoritarie che si sono opposte all’ortodossia leninista. Eresie sconfitte, ma è proprio l’eresia il germe da cui è possibile ripartire. L’autonomia, o indipendenza, del sindacato ha proprio qui il suo fondamento, nel rifiuto di una separazione tra teoria e prassi, una teoria affidata al partito politico, a cui la prassi sindacale deve adeguarsi, senza poter disporre di un proprio autonomo pensiero. Il sindacato, insomma, non può essere il braccio operativo che viene guidato dall’esterno, ma è la forza organizzata in cui un movimento reale prende coscienza di sé, ed elabora, via via, in piena autonomia, i contenuti della sua identità.
3) Il sindacato come parte e l’interesse generale
Che il sindacato esprima una posizione di parte è fuori discussione. Ma vi sono tanti diversi possibili modi di essere di parte. C’è un modo corporativo, o minoritario, che si ritaglia il suo piccolo spazio, e lascia che sia la politica ad occuparsi delle questioni generali. O ci può essere un sindacato che ha l’ambizione di fare della sua parzialità un punto di vista sull’intera struttura sociale, uno sguardo aperto sul mondo, in quanto il conflitto che esso interpreta e organizza è il nodo strategico da affrontare per un diverso modello di società. Insomma, c’è una parzialità rinunciataria, residuale, e c’è una parzialità espansiva, che a partire da se stessa cerca di leggere e di sottoporre a critica l’intera realtà sociale. Non c’è dunque nessun criterio assoluto che sia capace di definire il “bene comune”, ma c’è uno spazio democratico aperto nel quale si possono confrontare e fronteggiare diversi progetti. Il problema è se il sindacato vuole stare, con la sua autonomia, dentro questo spazio, e giocare lì la sua partita, o se pensa che in questo spazio abbiano diritto di cittadinanza solo le forze politiche, a cui tutta questa materia viene delegata.
La mia tesi è che i soggetti sociali devono essere a pieno titolo protagonisti del dibattito pubblico, senza delegare a nessuno questa funzione democratica, ed è da qui che discende tutto il problema dei rapporti tra sindacato e partito politico.
4) Il rapporto con la politica
Autonomia o indipendenza dicono in sostanza la stessa cosa, e non ha molto senso accapigliarsi in una disputa terminologica. La vera differenza sta piuttosto nel modo in cui si concepiscono i due campi del sociale e del politico: se c’è una linea divisoria, con relative sfere di influenza, o se c’è un unico campo, quello della nostra comune vita collettiva, e il sociale non è un segmento particolare del tutto, ma è un diverso modo di guardare al tutto, è un diverso angolo visuale a partire dal quale si interpreta l’intera vita sociale. Da qui vengono due opposte interpretazioni dell’autonomia: lo spazio del sociale come spazio separato, o il sociale che direttamente si confronta e si scontra con la politica. Possiamo dire: sindacato corporativo o sindacato generale. Per questo, non ho mai condiviso la formula: “a ciascuno il suo mestiere”, perché essa riproduce l’antico principio conservatore che ciascuno deve stare al suo posto, e che la decisione politica non è un affare di tutti, ma è una sfera riservata a chi dispone delle competenze necessarie. In questa logica conservatrice, secondo la quale la società è composta da distinti corpi funzionali ordinati secondo uno schema gerarchico, c’è solo lo spazio per forme corporative di rappresentanza degli interessi, e sull’altro versante c’è il governo tecnocratico degli esperti. Ed è proprio questo lo scenario che si sta affermando nella nostra civilissima e decadente Europa.
Tra questi due livelli, quello sociale e quello politico, c’è un fossato ormai incolmabile? Io ho parlato di “alterità”, e con ciò ho sicuramente dato l’impressione di cavalcare gli umori dell’antipolitica, ed è del tutto giusto chiedermi, su questo punto, un chiarimento. In linea di principio, il rapporto tra sindacato e politica resta sempre aperto a possibili convergenze. Non c’è solo lo scenario del conflitto, ma anche quello di una possibile condivisione di alcuni obiettivi generali, certo declinati diversamente, in chiave sociale o politica, ma tali comunque da offrire il terreno di un lavoro comune. Non ho nessuna obiezione teorica a questa impostazione. Ho solo un’obiezione di ordine pratico, con l’avvertenza che essa riguarda essenzialmente la situazione italiana, perché qui, nella nostra realtà, la divaricazione del discorso sociale e di quello politico è ormai esplosa in modo virulento, e l’idea di una normale e convergente divisione dei compiti appare del tutto fuori dalla realtà. Io temo che sia una tendenza non solo italiana, ma generale, ma non escludo che ci possano essere situazioni del tutto diverse, in altri paesi o in altri continenti. La testimonianza di Carlos Mejia è molto importante, perché ci fa uscire da una posizione tutta eurocentrica. Non ho quindi la pretesa di fissare un principio generale. La mia forzatura nasce solo da una considerazione della realtà italiana, dove tutta la storia della sinistra politica si è dissolta, e dove stiamo entrando in un nuovo universo ideologico e simbolico, nel quale tutto si gioca solo sulla fascinazione del leader, sul suo decisionismo, nell’irrilevanza dei contenuti programmatici. L’ascesa di Matteo Renzi, nuovo leader del PD, legittimato da un larghissimo consenso popolare, ha questo significato: la fine di una politica che interpreta il conflitto sociale, e l’avvento di una politica nuova, che conosce solo le ragioni della governabilità, dell’esercizio del potere. È per questo che parlo di alterità, perché il sindacato o riesce a marcare una sua radicale autonomia o viene fagocitato dentro i meccanismi del potere.
Resta il problema: è possibile rovesciare questa tendenza della politica, è possibile ricostruire un filo di connessione tra il sociale e il politico? È un tema cruciale, al quale per ora, nella situazione italiana, non so affatto rispondere. Ma è comunque evidente che il conflitto con la politica non è un destino metafisico, ma è un passaggio necessario per cercare di riaprire uno spazio democratico nel quale abbiano piena cittadinanza le ragioni del mondo del lavoro. Resta dunque aperto il problema sul destino della sinistra, sulla sua possibilità di rinnovarsi e di ritrovare le sue radici, e per ora non posso che lasciare in sospeso questo interrogativo. D’altra parte, non ho sufficienti elementi di conoscenza per giudicare della situazione di altri paesi, ma credo, per quello che posso capire, che in forme diverse e con diversi livelli di conflitto sia presente in tutto il nostro continente la necessità di una sfida sociale alla politica, e questo sarà un aspetto importante delle prossime elezioni europee, le quali si giocano proprio sul conflitto tra democrazia sociale e tecnocrazia.
5) Efficacia e democrazia
Ho insistito sul tema dell’efficacia, perché questo è l’unico possibile metro di misura dell’azione sindacale, come per altro della stessa azione politica, perché qui non si tratta né della verità, né dell’etica, ma solo del risultato, di ciò che accade nei rapporti di forza. Quando si dice strategia si dice, in sostanza, accumulo di forza, sui diversi terreni, e quando c’è la forza si può anche, come dice Sun-Tsu, “vincere senza combattere”. Il concetto di efficacia, che a me pare cruciale, deve quindi essere visto in una dimensione allargata, dove non si tratta solo dei risultati economici immediati, ma del più generale dispiegamento delle forze. Può esserci una battaglia che non dà risultati visibili, ma allarga il consenso. Può esserci una battaglia culturale, che sposta i rapporti sul terreno dell’egemonia. Condivido le osservazioni che si sono fatte su questo punto.
Resta un punto, complicato e controverso. Che rapporto c’è tra efficacia e democrazia? Io penso che tra questi due piani c’è una relazione, ma non è affatto una relazione semplice e lineare. Ci sono due opposti fondamentalismi, entrambi ingannevoli. C’è, da un lato, il mito decisionista, per cui occorre forzare il corso delle cose, e lo si può fare solo rinunciando alle lungaggini e alle tortuosità della democrazia. Conta la decisione, l’iniziativa, il coraggio di un leader che scompagina tutti i giochi di una politica avvitata su se stessa, e che riesce ad imporre una propria visione. Sull’altro versante, c’è l’idea che la democrazia sia di per sé la soluzione di tutti i problemi, che dunque si tratta solo di far saltare tutte le barriere che impediscono il libero esercizio di una democrazia partecipata. L’esperienza sindacale dimostra come le cose siano assai più complicate. Il processo decisionale è la costruzione faticosa, e sempre revocabile, di una sintesi, a diversi livelli di complessità, in cui entrano in gioco diversi interessi, diversi punti di vista, diverse soggettività politiche. Né il decisionismo, né il democraticismo risolvono il problema, ma serve un lungo attraversamento dentro le contraddizioni e dentro i conflitti della realtà sociale, per mettere insieme, faticosamente, ciò che è diviso, per individuare le possibili tappe di una sintesi, di una unificazione degli obiettivi. E questo è un processo sempre aperto, e sempre provvisorio. In questo lavoro, la democrazia non è la soluzione, ma è uno strumento, un momento importante di verifica, un’occasione per coinvolgere tutte le persone interessate e per farle crescere, per farle misurare non solo sull’immediato, ma sulle grandi scelte di prospettiva. È nel processo democratico che prende forma la possibile efficacia di un’azione collettiva, la quale non può dipendere solo da un impulso esterno, o dal comando di un gruppo dirigente. La democrazia, quindi, non è di per sé una garanzia di efficacia, ma è una condizione necessaria, perché una decisione partecipata, verificata, controllata dal basso, ha più possibilità di imboccare la direzione giusta, e soprattutto di suscitare la mobilitazione delle energie che sono necessarie per ottenere dei risultati.
6) La sperimentazione sociale
Mi sembra apprezzata l’idea che il sindacalista debba essere uno “sperimentatore sociale”. Si tratta ora di definire meglio il profilo, le competenze, il ruolo di un sindacalista di tipo nuovo, che sappia agire dentro la materialità dei conflitti, nell’impresa e nel territorio, in un rapporto vivente con le persone che si intendono rappresentare. Per dare un senso all’idea di un sindacato dei lavoratori, e non solo per i lavoratori. In questa nuova dimensione dell’agire sindacale rientrano tutti i temi fin qui accennati: i rapporti con la politica, l’indipendenza, la democrazia come conflitto, il progetto. Ma si tratta di calare tutte queste premesse teoriche nel vivo dell’attuale crisi, per capire come il sindacato possa essere non il testimone impotente di una crisi globale, ma una forza che agisce concretamente dentro l’attuale contesto. E questo è possibile solo se il sindacato si dà un orizzonte internazionale, perché è su questa scala che si decidono le sorti del mondo. Bisognerebbe dunque domandarsi quale declinazione e quale significato possa oggi avere l’antica formula “proletari di tutto il mondo unitevi”, se è solo una formula astratta, un’utopia, o se può essere un nuovo programma di azione.
Mi fermo qui, perché mi sono già troppo dilungato, sperando di avere comunque chiarito i punti più controversi. In ogni caso, vi ringrazio affettuosamente per tutte le vostre osservazioni critiche e per i vostri contributi, che mi hanno aiutato a vedere con più chiarezza i problemi che ci stanno di fronte, e sui quali il sindacato si gioca il suo prossimo destino.
Busta: 4
Estremi cronologici: 2014, 16 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Confronto”, pp. 281-290