WELFARE DALLO STATO ALLA COMUNITÀ
di Riccardo Terzi – Dipartimento Riforme istituzionali della CGIL
C’è nel Paese una grande, e forsanche eccessiva, attenzione ai problemi istituzionali, che rischia di generare una rappresentazione distorta della realtà.
Dal referendum sulla legge elettorale, che rispondeva all’esigenza reale di dinamizzare un sistema politico bloccato, prende le mosse una crescente e spesso ossessiva enfatizzazione del significato di rottura storica che avrebbe l’adozione del sistema maggioritario, con tutte le conseguenti ideologizzazioni intorno alla seconda Repubblica, al bipolarismo, all’elezione diretta; e in questo clima si alimenta anche l’uso abnorme dello strumento del referendum in quanto arma contro le mediazioni proprie della democrazia rappresentativa.
Si perde così di vista il funzionamento concreto delle istituzioni, il processo faticoso di riforma e di riorganizzazione della macchina amministrativa, e si alimentano aspettative illusorie circa l’effetto taumaturgico di determinati eventi: un certo tipo di legge elettorale, l’elezione diretta del premier, l’Assemblea Costituente. Anche il federalismo finisce per essere solo un vessillo ideologico, un evento mitico che incombe, come minaccia o come attesa di riscatto.
I problemi istituzionali sono così divenuti materia della contesa politica e della propaganda dell’identità e delle passioni di parte, e proprio per questa ragione, per questo clima politico ideologizzato e surriscaldato, siamo rimasti pressoché fermi quanto a realizzazioni concrete.
Nonostante tutta la retorica che si è sprecata sulla seconda Repubblica e sulla “rivoluzione” italiana siamo riusciti solo a cambiare le leggi elettorali, e anche questo è stato fatto in modo assai discutibile, dando vita infine ad un sistema inutilmente complicato e barocco.
La mia tesi è che la stagione delle riforme debba ancora cominciare e che non comincerà fino a quando saremo sovrastati dalla retorica e dai grandi proclami, fino a quando non riusciremo a ricostruire le condizioni per una politica ragionata, meditata, attenta alle complessità dei problemi che deve affrontare.
L’approccio federalista, proprio in quanto costringe a ripensare il modo di essere dello Stato e la distribuzione dei poteri, può indicare un cammino fecondo e può essere la chiave fondamentale per un’azione riformatrice che non sta alla superficie e interviene nel vivo dell’organizzazione materiale dello Stato.
Ma il federalismo è un processo, non un evento. È un programma di lavoro, lungo e complicato, non un obiettivo che si conquista in un giorno con un atto di forza o con una mossa politica azzeccata.
Qui sta il punto di critica della concezione della Lega, che ha finora solo agitato il tema del federalismo senza elaborare una linea operativa efficace. L’iniziativa di Mantova, con la proclamazione del Parlamento del Nord e con la richiesta di un’Assemblea Costituente che riscriva le regole della Costituzione, richiede una valutazione attenta e una risposta.
Finora sono prevalsi due atteggiamenti, entrambi a mio avviso non adeguati all’oggetto. Da un lato si è parlato di eversione, di minaccia all’unità nazionale. E una polemica fuori bersaglio, perché si tratta di una iniziativa politica, di una proposta di azione, che sollecita e in qualche modo prefigura cambiamenti istituzionali rilevanti, ma non rappresenta di per sé nessuna rottura della legalità.
Non si ripeta l’errore, già compiuto nel passato, di affrontare la Lega nel nome di una retorica nazionale ormai svuotata, perché così si regala a Bossi uno straordinario spazio di iniziativa e non si coglie, nel movimento reale e nel bisogno reale di cambiamento da cui è sorto il fenomeno della Lega, il nocciolo di verità che pure deve essere affrontato. D’altra parte, c’è stato un atteggiamento di sottovalutazione, come se Mantova fosse il luogo di una qualsiasi scampagnata o un fatto di folklore. No, trattandosi di una iniziativa politica, che ha in sé un forte messaggio simbolico, essa va politicamente misurata e valutata.
Ci troviamo ancora una volta nel campo della spettacolarizzazione della politica e dell’elaborazione del mito, dell’evento. In questo modo l’obiettivo del federalismo compie un passo indietro, perché torna ad essere l’oggetto di una campagna di agitazione e si perde così l’occasione per farne finalmente l’oggetto di elaborazioni puntuali e di precise iniziative politiche e legislative.
Affidare qualsiasi progetto di riforma al passaggio politico-istituzionale dell’Assemblea Costituente è un errore, sia per ragioni generali di politica costituzionale, perché verrebbe così delegittimata la Costituzione anche nei suoi princìpi fondativi, sia per ragioni di efficacia, perché ciò significa un generale rinvio di tutto ciò che può essere fatto anche subito, significa tenere inchiodata la politica italiana per alcuni anni in una disputa sui grandi princìpi, mentre potrebbero più utilmente essere individuati dei percorsi operativi, anche parziali, intorno a temi e a obiettivi sui quali si è già costruito un grado sufficiente di convergenza.
Se appunto pensiamo al federalismo come ad un processo, occorre allora una strategia riformatrice che fissi, a partire da ora, gli obiettivi più ravvicinati, i quali sapranno poi innescare un processo più ampio. Senza attendere riforme costituzionali, che hanno necessariamente tempi lunghi, è possibile realizzare un insieme di interventi per invertire la tendenza centralistica finora dominante e per potenziare le prerogative politiche e l’autonomia finanziaria delle Regioni.
Il primo passo può consistere in una seria riforma del sistema fiscale, nel senso del federalismo, ovvero dell’autonomia e della responsabilità dei governi regionali. Non mancano, in questo campo, elaborazioni e proposte concrete, che hanno tra loro differenze tecniche anche marcate, ma hanno un’ispirazione di fondo comune, essendo acquisito da parte di tutti gli studiosi più seri che il problema per il nostro Paese è quello di attribuire alle Regioni una reale autonomia decisionale nell’uso delle risorse e di garantire nello stesso tempo una distribuzione equilibrata tra le diverse aree del Paese, con meccanismi certi di perequazione. Il federalismo fiscale può essere una prima tappa, che anticipa e sollecita un più organico disegno di riforma delle istituzioni. Si sono appena rinnovate le rappresentanze regionali, con un nuovo sistema elettorale che dovrebbe favorire una maggiore stabilità di governo. Occorre vedere subito quali possano essere gli atti concreti perché questa nuova legislatura regionale non si chiuda anch’essa con una dichiarazione di fallimento. Serve allora un’attenta vigilanza sugli atti del governo e sulla legislazione nazionale perché siano aperti nuovi spazi di autonomia per tutte quelle materie che sono strategiche per lo sviluppo e la qualificazione dei sistemi territoriali: il mercato del lavoro, il sistema formativo, l’ambiente, le infrastrutture. E serve conquistare nelle Regioni una più forte capacità di governo, perché solo dimostrando di saper fare meglio e di più si potrà ottenere consenso su un progetto di riforma federalista dello Stato. Sta qui anche una precisa responsabilità del sindacato, che può contribuire, molto più di quanto non abbia fatto finora, ad un rilancio effettivo delle politiche regionali.
Insomma, tutti i soggetti politici, istituzionali e sociali che sono davvero interessati a modificare l’attuale assetto politico nella direzione dell’autogoverno locale, si attivino concretamente, mettendo a punto precisi progetti, senza limitarsi al piagnisteo inconcludente contro il levitano onnipotente dello Stato centrale. L’autonomia non discende dal cielo, ma la si conquista.
Anche il sindacato non ha le carte in regola, perché non ha ancora seriamente puntato su una strategia regionalista, e i suoi modelli organizzativi e contrattuali sono ancora prevalentemente modelli rigidi e centralizzati che non valorizzano la sperimentazione territoriale. Se non entrano in campo le grandi organizzazioni sociali, con proprie adeguate politiche territoriali, è assai improbabile che il progetto federalista prenda corpo. Le riforme istituzionali possono vivere in modo efficace se ad esse corrisponde un movimento della società e la scelta federalista, in particolare, ha senso solo in quanto occasione e strumento per una politica di autogoverno, per una più efficace partecipazione dei cittadini e delle loro organizzazioni alle scelte programmatiche e al loro controllo. Se invece il tutto dovesse ridursi ad un burocratico trasferimento di competenze non faremmo che riprodurre in modo più vasto i difetti di uno Stato inefficiente.
Se concepiamo così il federalismo, come un rapporto più diretto fra politica e società, come un metodo di governo più vicino alla domanda sociale, non c’è allora evidentemente, come talora si teme, una contraddizione con le esigenze dello Stato sociale.
Il punto d’arrivo di una seria azione di riforma dello Stato e dei suoi concreti meccanismi amministrativi può essere un sistema di autonomia che assegna i diversi compiti di governo ai livelli istituzionali che sono, di volta in volta, più adeguati e più vicini alla comunità sociale, decentrando tutto ciò che può essere utilmente decentrato e lasciando allo Stato centrale solo le funzioni essenziali e indivisibili di indirizzo generale e di garanzia dell’unità nazionale.
I pregiudizi ideologici nei confronti del federalismo dovrebbero essere fugati se si ha in mente come funzionano concretamente gli Stati federali, nei quali vi è, in forme assai varie, un intreccio di funzioni tra i diversi livelli e una pratica di cooperazione tra di essi e vi è in ogni caso un vincolo che riguarda l’universalità dei diritti fondamentali sull’intero territorio nazionale. Il modello tedesco è quello che in modo più convincente ed efficace ha saputo unire le due istanze dell’autonomia territoriale e della solidarietà nazionale.
Va quindi rifiutata la tesi che fa coincidere coesione nazionale e governo centralistico, e va respinto l’alibi delle diseguaglianze territoriali come argomento a sostegno della centralizzazione. In realtà, rappresenta un fatto di innovazione assai rilevante l’attribuzione di una piena autonomia organizzativa alle Regioni e agli enti locali anche per le materie che sono regolate da una precisa normativa di carattere nazionale, rendendo così possibile una struttura più flessibile e più aderente alle diverse situazioni. In linea di principio, l’amministrazione sul territorio dovrebbe competere esclusivamente ai poteri decentrati, superando così il “doppio binario” tra amministrazione statale periferica e amministrazione autonoma.
Lo Stato sul territorio è rappresentato dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione. In alcuni campi – penso ad esempio al sistema scolastico – ciò significa realizzare una riforma radicale di tutta la struttura burocratica. Sul terreno costituzionale, si tratta certamente di ridefinire le competenze tra i diversi livelli, come pure aveva suggerito la Commissione bicamerale, ma ciò che soprattutto è decisivo è riformare l’attuale sistema parlamentare con l’istituzione di una Camera delle Regioni, la quale possa funzionare come strumento permanente di raccordo e di concertazione tra lo Stato centrale e le Regioni.
Così, con una ispirazione federalista concreta e non demagogica, con il realismo e la prudenza di chi sa di dover metter mano ad un’impresa complessa di riorganizzazione dell’intera macchina amministrativa, possiamo iniziare un percorso di riforma, aperto alla partecipazione democratica e al controllo sociale. Questa può essere per il sindacato una prospettiva di lavoro per i prossimi anni.
Busta: 3
Estremi cronologici: 1995, giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: ?, giugno 1995