OLTRE IL SOLIDARISMO
Nuovi rischi - La semplificazione autoritaria
di Riccardo Terzi
Stato, regioni, città. I rapporti e le reti. Innovazione istituzionale e ruolo dei soggetti sociali. Per ricercare soluzioni vere ai problemi dell’Italia
Milano e Napoli: nel loro rapporto è racchiuso emblematicamente il tema dell’unità nazionale, con le sue contraddizioni insolute. Dalla comunicazione, il confronto, la collaborazione tra queste due grandi città simbolo possono perciò concretizzarsi opportunità e occasioni che occorre non lasciar cadere.
L’idea è che i destini sono incrociati. Non c’è meridionalismo autosufficiente; non c’è un Nord che trova da solo la strada per l’Europa, mandando a pezzi l’identità dell’Italia come nazione.
La nuova Europa che si sta costruendo, ancora in mezzo a fortissime difficoltà e resistenze, non potrà che essere un diverso e più avanzato punto di equilibrio tra identità nazionali forti. Non a caso si è affermata la leadership tedesca, che non è solo l’effetto di una economia forte, ma anche di un rilancio della coesione nazionale dopo la riunificazione con l’Est.
In questa prospettiva, la Lega Nord, che pure ha dei meriti per avere sollevato questioni importanti e reali e per avere problematizzato, al di là della retorica ufficiale, il tema della nazione, compie un gravissimo errore di strategia, perché non ricostruisce su nuove basi l’identità nazionale, ma alimenta uno stato permanente di conflitto, di contrapposizione radicale, di rancore e di egoismo, che alla fine, anche evitando gli estremi esiti del separatismo, non può che indebolire il tessuto unitario della società italiana, nelle sue diverse articolazione territoriali.
L’idea di nazione non è un residuo storico da archiviare, ma va rimotivata e rifondata ed il federalismo può essere appunto il modo per ripensare la nazione e per costruire una coesione di tipo nuovo, che riconosca e valorizzi le differenze territoriali e promuova l’autogoverno dei sistemi locali.
Le vecchie strutture dello Stato Nazione vanno rimodellate lungo due direzioni: verso l’integrazione europea e la costruzione di una sovranità politica sovranazionale, perché è questo il livello obbligato delle grandi scelte strategiche nell’epoca della mondializzazione dell’economia; verso il recupero della dimensione locale per dare vita a sistemi territoriali integrati, con una più diretta partecipazione dei cittadini. Per realizzare questa duplice e complessa operazione, è indispensabile in ogni caso un nuovo livello di integrazione fra il Nord ed il Sud d’Italia. Se l’Italia come nazione si disgrega, se non sa controllare e risolvere i suoi conflitti territoriali, non riesce a costruirsi nessun futuro. Non si tratta di muoversi nel solco di un solidarismo tra il Nord e Sud tradizionale e per certi versi scontato. Io credo infatti che non ci si può più limitare a declamare per l’ennesima volta le ragioni della solidarietà.
L’idea-forza su cui ci sembra utile lavorare non è il meridionalismo in astratto, ma è piuttosto la costruzione di una rete di relazioni, di convenienze reciproche, di sinergie, che può essere costruita sull’asse Milano-Napoli. Ciò avrà tanto più un valore di carattere generale, sarà un esempio significativo delle relazioni tra il Nord e il Sud dell’Italia, quanto più il punto di partenza rimane estremamente concreto, operativo, non ideologico. Parliamo per questo di queste due grandi aree metropolitane, delle loro relazioni, delle loro possibili integrazioni, e vogliamo esplorare tutte le possibilità di collaborazione nei diversi campi.
Nella scelta di Milano e Napoli c’è, a mio avviso, anzitutto una ragione simbolica: sono questi infatti i luoghi rappresentativi delle due anime della nazione, dello spirito imprenditoriale del Nord e della creatività meridionale. In realtà, non si tratta affatto di caratteri etnici, territorialmente definiti, come siamo abituati a pensare secondo uno stereotipo piuttosto grossolano, ma si tratta di elementi che entrano nell’identità comune della nazione, e che sono entrambi vitali e produttivi solo nel loro rapporto reciproco. Lo spirito pragmatico ambrosiano, lasciato a se stesso è la cosa più miserevole che si possa concepire: finisce per essere solo un attivismo cieco, un frenetico lavoro di routine che gira su se stesso, senza che mai entri in campo il senso di questo fare e il suo rapporto con la vita e con la dignità delle persone. Purtroppo sta accadendo che Milano si stia davvero avvicinando a questa sua immagine, e proprio per ciò decade, perché rischia di perdere il senso e la prospettiva del suo fare quotidiano, e si intristisce in un falso efficientismo. Sull’altro versante, è altrettanto inconcludente il napoletanismo folcloristico, fatto di spensieratezza e di individualismo romantico, il quale finisce per essere l’accettazione passiva di un destino di emarginazione e di arretratezza. Ma Napoli si sta muovendo, e sta finalmente ricostruendo la sua dignità.
Sono due realtà in bilico, che attraversano un passaggio rischioso, e che in questo movimento hanno bisogno di ridefinirsi, e che per questo hanno anche bisogno di incontrarsi e di dialogare. Ecco perché può essere interessante ragionare non in termini generali sul rapporto Nord-Sud, ma sul destino e sulle prospettive di due specifiche realtà urbane, ciascuna delle quali ha un grande bisogno di innovazione, di valorizzazione delle sue risorse, di ricostruzione di una identità, insomma di una strategia che guarda al futuro.
D’altra parte, la storia dell’Italia è una storia di città. E proprio in questo momento di difficile transizione politica, le città tornano ad essere un punto di riferimento importante e dimostrano di sapere produrre una nuova classe dirigente. Con l’elezione diretta dei sindaci è scattato un processo di riappropriazione democratica del potere locale, ed i sindaci delle grandi città, forti di questa legittimazione popolare, hanno assunto un ruolo di primo piano nella vita politica nazionale. È un primo passo importante nella riforma dello Stato. Lo coglie esattamente Bassolino in una sua intervista all’Unità: “Con la nuova legge elettorale dei sindaci e con l’avvio di un processo di riforma che deve andare avanti coraggiosamente, noi Comuni siamo il primo volto dello Stato. E siamo il governo del Paese. In Italia non c’è solo il governo vero e proprio che sta a Palazzo Chigi, c’è anche il governo delle autonomie e delle grandi città”.
Ciò è una risorsa, ma costituisce nello stesso tempo un problema, un possibile freno sulla via dell’innovazione istituzionale. Quando si dice “federalismo delle città”, volendo così sottolineare questo tratto specifico della nostra storia, si dice in realtà una frase senza senso, perché nessuna riforma federalista sarà mai possibile sul fondamento esclusivo delle autonomie locali. Per questo, accade ora che i più tenaci assertori dello Stato centralista siano prodighi di grandi dichiarazioni a sostegno delle autonomie locali. Ed è logico: perché l’estesissima rete di Comuni, una rete quanto mai frantumata e dispersa, potrà avere certamente margini anche ampi di autonomia, ma non potrà mai costruire un’alternativa politica allo Stato centralizzato. Potrà esserci decentramento, non federalismo.
Occorre quindi stare in guardia, e non cadere in questa trappola. Se vogliamo parlare seriamente di federalismo, dobbiamo essere consapevoli che ciò passa essenzialmente per l’individuazione di enti politici intermedi capaci di un effettivo autogoverno; capaci di una propria sovranità, nel reperimento e nella destinazione delle risorse, nell’esercizio di una vera e propria azione di governo sul territorio, nella regolazione delle dinamiche economiche, imprenditoriali, sociali.
La dimensione indispensabile per realizzare questa nuova articolazione dell’azione di governo è quella delle Regioni, e probabilmente occorre favorire accorpamenti più ampi rispetto a quelli attuali, come ha suggerito la ricerca della Fondazione Agnelli. Il federalismo si può concepire come uno sviluppo del principio costituzionale delle autonomie regionali, spezzando finalmente i mille vincoli e condizionamenti che hanno fin qui rattrappito l’esperienza concreta dei Governi regionali, ridotti ad essere solo delle agenzie di spesa, delle strutture di mediazione burocratica del tutto dipendenti dalle scelte di un apparato di governo di tipo centralistico. Lombardia e Campania, quindi, anziché Milano Napoli? No, la dimensione regionale non può essere a sua volta una dimensione esclusiva, un nuovo punto di accentramento. Il federalismo passa necessariamente per il tramite delle Regioni, ma non si ferma nelle Regioni, non è e non deve essere semplicemente il trasferimento su una diversa scala territoriale della medesima logica burocratico-ministeriale.
Qui sta il nodo: il federalismo può essere, e come, la sperimentazione di una nuova forma di governo, di un nuovo modello di Stato?
Io penso alle nuove Regioni come a grandi centri di regolazione, capaci di attivare nella loro autonomia una pluralità di soggetti, istituzionali e sociali. La Regione è una rete di relazioni: ci sono i Comuni, grandi e piccoli, c’è una complessa struttura istituzionale (Province, aree metropolitane, Comunità montane ecc.) che ogni Regione dovrebbe poter organizzare in piena autonomia, senza dover obbedire ad un modello uniforme deciso centralmente, e c’è, insieme, un’articolazione sociale che entra a pieno titolo nella progettazione strategica del territorio, trovando a questo fine le forme e gli strumenti per una pratica di confronto e di concertazione.
La riforma istituzionale, dunque, non può consistere solo in un trasferimento di competenze e di risorse dal centro alla periferia, ma deve riguardare i modelli di funzionamento e di organizzazione degli apparati pubblici, il loro rapporto con la domanda sociale, e quindi è tutta la macchina dello Stato che va riorganizzata con nuovi criteri di efficienza e con nuovi meccanismi trasparenti di controllo democratico.
Regioni e Comuni sono entrambi essenziali, sono i soggetti portanti di questa azione di riforma, e la riforma si blocca se prevale, nel rapporto tra Regioni ed Enti locali, la logica di una contrapposizione e di una guerra di competenze. Occorre un’alleanza, un patto politico per un’azione coordinata capace infine di rovesciare le logiche centralistiche finora prevalenti. Questa condizione ancora non c’è, e sembra piuttosto che ciascun livello istituzionale cerchi di trovare per proprio conto le vie politiche del proprio riconoscimento e rafforzamento. In questa situazione, il gioco resta nelle mani del potere centrale, che può sfruttare queste contraddizioni e usare l’una contro l’altra le diverse istanze di autonomia.
Aggiungere alla Conferenza Stato-Regioni una parallela Conferenza Stato-Autonomie Locali fa parte di questo gioco. È un errore, perché si conferma così una diretta competenza regolatrice del governo nei confronti degli enti locali, la quale contrasta con l’ispirazione federalista. La soluzione va ricercata all’opposto in un nuovo tipo di rapporto tra Regioni ed Enti locali, ed è in proposito interessante la proposta avanzata dalla Regione Emilia Romagna per l’istituzione di un Consiglio regionale delle autonomie locali, capace appunto di dar voce e forza politica propria all’intero tessuto istituzionale dei Comuni e delle Province. È una soluzione che ripropone su scala regionale lo stesso modello che dovrebbe valere su scala nazionale con la trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni.
Le città, quindi, e i grandi Comuni, che hanno assunto oggi un nuovo rilievo politico, dovrebbero concorrere a costruire questa più larga coalizione per una riforma federalista dello Stato.
Altrimenti rischiamo di avere solo un protagonismo personale dei sindaci, che però nulla cambia nei meccanismi sostanziali di distribuzione del potere politico.
Ma torniamo a parlare di Milano e di Napoli. Se il sistema istituzionale al quale tendiamo non è più centralizzato, regolato da un unico punto, ma policentrico, snodato su diversi livelli di autonomia, è molto importante lo sviluppo di relazioni dirette tra Regione e Regione, tra Comune e Comune, non mediate dal potere centrale, e ciò vale anche per le relazioni con le istituzioni locali di altri paesi della Comunità Europea. La rete dei rapporti si può sviluppare nelle più diverse direzioni, e tutto ciò che rappresenta uno sviluppo ed un arricchimento di questa rete produce un effetto positivo, perché crea quelle condizioni di integrazione, di interdipendenza sulle quali si può costruire la nuova comunità nazionale ed europea. L’asse Milano-Napoli si deve quindi integrare in un quadro più largo di collaborazioni e di intese, con Francoforte, con Lione, con Barcellona. Solo così può assumere un respiro politico sufficientemente ampio, può essere davvero l’elemento forte di una strategia, e non solo un episodio limitato di solidarietà.
Questa strategia non può essere solo istituzionale. Credo anzi che i protagonisti debbano essere in primo luogo i soggetti sociali: il sistema delle imprese, le Camere di Commercio, i sindacati, i centri culturali e di ricerca, l’associazionismo. Le istituzioni sono più lente e si muovono solo quando già la società civile si è messa in movimento ed ha aperto nuovi spazi di iniziativa. Un importante campo di lavoro può essere perciò indicato nella ricerca e nell’alimentazione culturale delle più diverse forme di scambio che i diversi soggetti possono costruire in questo dialogo tra Napoli e Milano, aperto ad altre più larghe collaborazioni su scala europea.
Forse un’istituzione come il CNEL può essere coinvolta, e può fornire un importante supporto, di analisi, di progettualità, di coinvolgimento delle forze sociali. Il CNEL sta già mettendo in atto una sua strategia di azione sul territorio, con i patti territoriali al Sud e con la promozione al Nord di una politica di coalizione dei soggetti economici nel quadro della competizione internazionale. Ma finora non si è trovato ancora il modo per mettere in relazione diretta questi due diversi approcci, e un’iniziativa che tenta di costruire questo ponte tra Milano e Napoli penso che possa aprire, anche per il CNEL, nuove e interessanti possibilità.
Si tratta, in sostanza, di una scommessa sul futuro, che ha in sé grandi implicazioni: istituzionali, politiche, sociali. Ed è una scommessa che cerca altre strade rispetto a quelle che oggi stanno monopolizzando il dibattito politico. In tutta la complessa e confusa discussione istituzionale, l’unica domanda alla quale si cerca una risposta è quella di una autorità di governo più forte e più stabile. Le vie divergono, dal presidenzialismo al cancellierato, ma c’è in fondo, pur nella contrapposizione anche aspra delle soluzioni istituzionali, un elemento comune, il fatto cioè di ragionare solo nell’ottica tradizionale dello Stato centralizzato.
Ma perché lo Stato è debole, perché sono in crisi gli assetti politici ed istituzionali del nostro paese? Ci si illude che basti un surplus di autorità e di decisionismo. Mi sembra un grave errore di prospettiva. Non ci dice nulla il caso della Francia dove il decisionismo di Chirac si infrange, e si rivela come un guscio vuoto, proprio perché non si sono costruite le forme di una più complessa e articolata regolazione sociale? Lo Stato non si riforma dall’alto. Presidenzialismi, Assemblee Costituenti, nuovi patti costituzionali, rischiano di essere solo delle linee di fuga, di evasione, delle illusioni. Il problema è la ricostruzione di un tessuto democratico forte, è la rete delle relazioni politiche e sociali, nel territorio, nella società, con il concorso attivo dei cittadini e dei soggetti sociali. Il problema è la formazione di una nuova classe dirigente, nel senso più largo del termine, non è la scelta del leader e la sua investitura popolare.
C’è una spinta pericolosa verso la “semplificazione autoritaria”, e c’è il rischio che questa spinta coaguli un’area vasta di consenso, proprio perché essa offre un’illusione, un mito, una sublimazione simbolica. Noi vorremmo seguire esattamente il percorso inverso: non la semplificazione, ma la ricerca delle soluzioni adeguate ad una società complessa; non l’intervento dall’alto, ma la costruzione di un processo sociale e politico che abbia radici nella realtà sociale concreta e nell’esperienza dei soggetti reali; non la mitologia della “Seconda Repubblica”, ma un lavoro sul campo per realizzare innovazioni reali ed effettive nel funzionamento dello Stato e della sua macchina amministrativa. È un cammino più lungo, ma è un cammino. Chi promette di arrivare in cima alla montagna senza fatica è sicuramente un venditore di fumo.
Busta: 3
Estremi cronologici: 1996, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Note: Con bozza
Pubblicazione: “Austro e Aquilone”, marzo 1996, pp. 57-62