[SINDACATO E RIFORME ISTITUZIONALI]

Seminario del 29 gennaio 1997

Relazione di Riccardo Terzi

1) Sindacato e riforme istituzionali

Il tema delle riforme istituzionali è da qualche tempo in una posizione centrale nel dibattito politico. Siamo entrati in una fase acuta di crisi che ha investito l’intero sistema politico, le sue strutture portanti, i suoi supporti ideologici, e siamo nel mezzo di una transizione, aperta a diversi possibili sbocchi. La crisi è ancora tutta aperta: non c’è un assestamento, non si è ancora costruito un nuovo equilibrio. Anche la nuova esperienza di Governo, quindi, dopo il successo elettorale del centro sinistra, è esposta alle molte incognite, ed incertezze, e turbolenze, di una transizione non compiuta. C’è l’avvio di un processo tendenziale nella direzione del bipolarismo, ma è un processo ancora assai contrastato e confuso, tutt’altro che lineare e tutt’altro che irreversibile, come dimostrano ogni giorno le tortuose vicende politiche sia all’interno della maggioranza sia nell’opposizione.

E soprattutto è rimasto fin qui del tutto irrisolto il tema delle riforme istituzionali, dell’ammodernamento delle istituzioni in rapporto alle nuove domande sociali del paese. L’unica riforma attuata è quella che riguarda la legge elettorale: una riforma discutibile ed imperfetta, che si è caricata di un eccesso di significati simbolici ed ideologici, ed ha scatenato tutta un’ondata retorica e demagogica intorno al mito della “seconda repubblica”. Ma una legge elettorale, quale che sia il suo contenuto, non è che un aspetto parziale e secondario, e non può di per sé risolvere nessuno dei grandi nodi politici e istituzionali. I nodi di fondo non sono stati sciolti. Abbiamo attualmente solo una grande produzione retorica intorno alla democrazia maggioritaria, al bipolarismo, alla sovranità dei cittadini contro la partitocrazia, ma dietro a questa retorica c’è il vuoto, c’è un assetto istituzionale che non ha saputo rinnovarsi, c’è una crisi irrisolta dello stato e del suo rapporto con la società.

Una prima importante e impegnativa scelta politica è stata compiuta con la legge costituzionale che istituisce la Commissione Bicamerale, con il mandato di riformare la seconda parte della Costituzione. Si deve dare, credo, un giudizio sostanzialmente positivo su questa decisione. In primo luogo perché la scelta dello strumento (una Commissione Parlamentare che risponde al Parlamento e non un’Assemblea Costituente, un mandato limitato e non un mandato generale di riscrittura della Costituzione) evita il rischio di una rottura costituzionale, ovvero di una anticipata dichiarazione di morte della Costituzione vigente e dei suoi principi fondamentali. La Costituzione va aggiornata e modificata, ma dentro una linea di continuità con la sua ispirazione di fondo e con i suoi principi costitutivi. La scelta dell’Assemblea Costituente avrebbe rappresentato uno straordinario vantaggio strategico per la destra, perché appunto veniva rotta questa continuità E sono significative, proprio su questo punto relativo alla scelta dello strumento, le tensioni e le divisioni nel centro-destra.

In secondo luogo, la Commissione Bicamerale consente di mettere finalmente all’ordine del giorno il tema ormai urgente delle riforme, di prospettare un percorso concreto e operativo in tempi relativamente brevi, costringendo tutte le forze politiche ad un confronto di merito, ad una elaborazione puntuale, alla definizione di progetti istituzionali strutturati e circostanziati. Alla retorica può finalmente subentrare il confronto concreto di diversi possibili progetti istituzionali e la ricerca dei punti di convergenza. Si apre così una nuova fase, sicuramente difficile e complessa, nella quale è in gioco non l’interesse di parte, non la convenienza di questa o di quella parte politica, ma l’insieme delle regole e dei principi su cui si deve reggere il nostro sistema democratico.

È in questo contesto che dobbiamo valutare quale debba essere il ruolo del sindacalismo confederale, e della CGIL in particolare: se dobbiamo considerare che il tema delle istituzioni e della loro riforma ci coinvolge e ci impegna direttamente, o se all’opposto riteniamo che in questo campo ci sia una competenza esclusiva delle forze politiche, per cui il Sindacato non può che collocarsi in una posizione di neutralità, interessato esclusivamente a quei temi che hanno una diretta incidenza sulla sua azione contrattuale. Si tratta di due diverse ed opposte concezioni del ruolo e dell’autonomia dei Sindacato: un’autonomia come progettualità politica che si misura con i problemi complessivi della società, o viceversa un’autonomia intesa come definizione di una limitata sfera di competenza, fissando una rigida linea di confine tra il sociale ed il politico.

Io credo che questa seconda versione dell’autonomia sia ormai bruciata, perché non è più possibile rintracciare quella linea di confine, essendo gli aspetti sociali e quelli politici sempre più strettamente intrecciati. Non c’è più un’area protetta, al riparo dalle tempeste politiche. Il sindacalismo tradizionale, tutto contrattuale e rivendicativo, ha solo l’apparenza della concretezza e del realismo, ma è in realtà velleitario e perdente.

D’altra parte, questo intreccio di politico e sociale risulta del tutto evidente quando si tratta delle grandi opzioni di politica costituzionale, intorno alle quali è oggi aperta la discussione. Non si tratta di questioni di tecnica giuridica, socialmente neutre, ma dell’assetto fondamentale dei poteri e dei diritti, del loro equilibrio, del loro impatto con la società. Il modello costituzionale è anche, contestualmente, un modello sociale, un progetto di società. La discussione sui principi costituzionali non può che coinvolgere l’intero corpo sociale, perché appunto si tratta del patto collettivo che regola l’intera vita sociale. Sarebbe un gravissimo errore lasciare che la discussione resti confinata nell’ambito ristretto degli specialisti e del ceto politico. Una tale scelta sarebbe già, di per sé, una sconfitta, una rinuncia, un cedimento ai processi in atto di restringimento degli spazi di democrazia, nella direzione di una concezione oligarchica del potere. Se il Sindacato non c’è oggi, come protagonista attivo del dibattito politico, non ci sarà domani nel nuovo assetto di potere che si costruisce.

Ecco allora una prima scelta che dobbiamo compiere con precisa determinazione: la scelta di un impegno forte del Sindacato sui temi istituzionali, direttamente ed in prima persona. L’impegno del Sindacato può rappresentare lo strumento per una discussione di massa, per una mobilitazione sociale. Dipende in gran parte da noi far compiere questo salto a tutta la discussione istituzionale, aprendo un vero confronto di massa nel Paese, nella società reale. Dobbiamo predisporre, per questo, un preciso programma di lavoro, da concordare unitariamente con le altre Confederazioni: incontri di delegati, attivi territoriali, sulla base di una proposta, di una valutazione politica unitaria. Con CISL e UIL abbiamo avviato un lavoro comune, che può concludersi a breve con una posizione delle tre Confederazioni, che può essere la base di una iniziativa di massa e dell’interlocuzione politica con i partiti e con la Commissione Bicamerale. In ogni caso, anche se il confronto unitario non dovesse concludersi positivamente, la CGIL deve fare interamente la sua parte. Io do molta importanza a questo aspetto del nostro lavoro, all’iniziativa di base, al coinvolgimento dei lavoratori, dei delegati, dei quadri intermedi, perché la battaglia politica sui temi istituzionali si gioca a questo livello.

Nel Nord la campagna politico-propagandistica per la secessione è stata aperta dalla Lega con l’obiettivo di creare un forte movimento di popolo ed è un pericolo ancora tutt’altro che scongiurato. Il tema della secessione è entrato nel discorso quotidiano, nei sentimenti e nelle passioni comuni, e deve essere perciò fronteggiato su questo medesimo terreno, discutendo con le persone in carne ed ossa e rispondendo ai loro bisogni e alle loro inquietudini. La retorica nazionalistica non serve a nulla, perché parla di una Italia immaginaria che non c’è più nella realtà. L’unità nazionale va ricostruita, a partire dalle diverse realtà, dal riconoscimento delle loro differenze, dalla risposta alle domande sociali differenziate che si pongono nelle diverse aree del paese.

In secondo luogo c’è una campagna di massa volta a svalutare i nostri principi costituzionali, a presentare tutta la nostra storia politica come una storia di corruzione partitocratica e di consociativismo perverso. L’obiettivo è l’affermazione del mercato come unica regola, ed è il ritorno ad una democrazia di stampo esclusivamente liberale, nella quale esistono solo i cittadini come singoli, negando il ruolo essenziale di tutte le formazioni collettive (partiti, sindacati, associazionismo). La strategia referendaria di Pannella è coerentemente ispirata da questo obiettivo, antipartitico, antisindacale, antiparlamentare, contro ogni regola che non sia la regola dell’interesse individualistico e del mercato. Sulla stessa lunghezza d’onda stanno il movimento di Segni e le picconate di Cossiga, con il sostegno di una parte consistente dell’intellettualità italiana, e la risposta a tutto ciò appare ancora troppo debole e impacciata, e anche a sinistra ci sono oscillazioni e sbandamenti.

Secessionismo e rottura della solidarietà nazionale, liberismo senza principi e senza regole: in questa tenaglia rischiano di restare schiacciate le ragioni di fondo della nostra identità e coesione nazionale, e il paese si frantuma in una spirale di corporativismi e di localismi, incapaci anche solo di tematizzare il problema dell’interesse generale. Il pericolo di sfaldamento è reale: una serie di micce eversive sono state accese, e possono produrre esplosioni distruttive a breve termine. Per questo, non possiamo tirarci da parte, in una posizione di neutralità, ma dobbiamo far pesare tutta intera la nostra forza organizzativa e i nostri legami di massa per contribuire ad uno sbocco, politico e istituzionale, della crisi in atto e per impedire un esito di restaurazione autoritaria e di regressione sociale.

 

2) La Costituzione: suo valore permanente ed esigenze di riforma

Il processo di riforma non è, non deve essere, la liquidazione dei principi costituzionali. La nostra non è una Costituzione da buttare. L’attacco alla Costituzione va respinto, e va respinta quindi l’idea di una seconda Repubblica da creare sulle macerie ormai inutilizzabili della prima.

Che cosa è in gioco in questo attacco? In primo luogo, è in gioco la vocazione “sociale” della Costituzione, per cui non si tratta solo dell’astratta eguaglianza giuridica, ma dell’effettività sociale dei diritti, non si tratta solo del singolo individuo, ma del contesto sociale nel quale è inserito, delle formazioni sociali che danno un contenuto concreto alla sua esistenza. La nostra è una Costituzione democratica, ma non è una Costituzione liberale, in quanto supera il formalismo giuridico e l’universalismo astratto che prescinde dalle condizioni sociali determinate. Il tentativo, dunque, è il ripristino di una democrazia liberale: una democrazia non più fondata sul valore sociale del lavoro, ma sul mercato. Se andiamo a rileggere il progetto di nuova Costituzione approvato dalla Lega, vediamo che di questo appunto si tratta, di una pura e semplice cancellazione di ogni elemento di socialità, di quel nucleo forte di valori e di principi che era il frutto di una convergenza tra le grandi correnti popolari protagoniste della lotta antifascista.

In secondo luogo, è rimesso in discussione l’equilibrio istituzionale, che dà luogo ad un sistema bilanciato di poteri e ad una garanzia di autonomia nei rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. L’obiettivo dichiarato della destra è lo stravolgimento di questo equilibrio, per una più forte concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo. Il ruolo del Parlamento (e quindi dei partiti in quanto articolazioni del Parlamento) e l’autonomia della magistratura sono i due bersagli di questa campagna politica, che non è in senso stretto presidenzialista (il presidenzialismo infatti non esclude una efficace divisione dei poteri), ma è orientata verso una forma di autoritarismo plebiscitario, nel quale il leader designato dal popolo ha un primato assoluto rispetto a tutti gli altri organi costituzionali.

Con la scelta della Bicamerale, il cui mandato si limita alla seconda parte della Costituzione, può essere neutralizzato il primo tipo di attacco ai principi costituzionali, mentre resta intatto il secondo. Ed è inoltre evidente che tra le due parti c’è un nesso di coerenza da salvaguardare, ed eventuali stravolgimenti nell’ordinamento dei poteri finirebbero per ripercuotersi anche sui principi fondamentali.

Nell’opera di revisione, vi è quindi un nucleo di principi e di valori che mantiene intatta la sua validità, e che non può essere stravolto. Ma, una volta garantiti in modo fermo questi principi, c’è l’esigenza e l’urgenza di un’ampia revisione costituzionale, prendendo atto del punto grave di crisi in cui versa oggi il nostro sistema istituzionale. La Costituzione si difende solo con una capacità coraggiosa di innovazione, e una posizione di conservatorismo istituzionale è oggi del tutto inaccettabile e insostenibile.

Per questo, guardiamo con favore e con interesse al prossimo lavoro della Commissione Bicamerale, e crediamo necessario che questo lavoro possa concludersi con un esito positivo, con un accordo politico equilibrato che sia in grado di riformare le nostre istituzioni. Il fallimento della Bicamerale aprirebbe una crisi gravissima. Il protrarsi di una situazione di crisi istituzionale, senza nessuna capacità di riforma, determinerebbe un drammatico conflitto tra politica e società, tra istituzioni e cittadini, e in questo conflitto si potrebbero inserire le più pericolose manovre eversive. L’obiettivo, quindi, non ulteriormente rinviabile, è l’attuazione di una politica di riforme.

 

3) Istituzioni e società

Il punto di crisi è nel rapporto tra istituzioni e società, nel fatto che il sistema istituzionale, nel suo complesso, appare sempre meno capace di rispondere efficacemente alle domande sociali. Solo se indaghiamo a fondo sulle relazioni tra società e istituzioni, sugli elementi di crisi e contraddizione che in questo rapporto si sono determinati, possiamo elaborare una strategia istituzionale efficace. Sembra invece prevalere finora nel dibattito politico una concezione del sistema istituzionale come sistema chiuso e autoreferenziale, per cui l’obiettivo si riduce al rafforzamento dei meccanismi tecnico-giuridici che possono garantire la governabilità del sistema. Che si tratti del presidenzialismo o del cancellierato, la riforma è pensata essenzialmente come rafforzamento dei poteri di comando del centro, come stabilizzazione della funzione di governo.

Ma la domanda di stabilità è solo un aspetto, e non quello centrale. Il fatto fondamentale è la rottura del rapporto di funzionalità tra società e istituzioni. Ad una società in rapida evoluzione, con un dinamismo complesso e con una crescente differenziazione sociale e territoriale, si rapportano istituzioni irrigidite e burocratizzate. Al centralismo si oppone una domanda di autogoverno territoriale; alla burocratizzazione si oppone una domanda di efficienza amministrativa; alla gestione oligarchica del potere da parte del ceto politico si oppone una domanda di partecipazione delle forze sociali. L’esigenza, quindi, per rispondere ai bisogni di una società complessa, è quella di un sistema istituzionale più aperto e flessibile: non la semplificazione autoritaria, ma al contrario una struttura policentrica, una funzione di governo articolata e diffusa, non un modello verticale di trasmissione gerarchica del comando, ma un sistema orizzontale, a rete, che valorizzi le autonomie, territoriali e funzionali, e coinvolga nella responsabilità politica le rappresentanze sociali.

Tutto ciò va d’altra parte inquadrato nel processo di mondializzazione dell’economia e nel crescente spostamento di tutte le grandi decisioni strategiche a livello sovranazionale. La forma classica dello Stato-Nazione si trova così aggredita contemporaneamente su due versanti, sul lato della globalizzazione e sul lato dell’autonomia territoriale, e incapace di rispondere a questi impulsi e di costruire una rete di relazioni dal locale al globale, appare sempre più come una struttura burocratizzata, lontana dai processi reali e incapace di governarli.

Una strategia istituzionale, quindi, è inseparabile da una strategia sociale, ed è proprio questa consapevolezza che manca nel dibattito politico corrente. Il Sindacato può tentare, con la sua iniziativa, di colmare questo vuoto, di spostare il dibattito politico, di rimetterlo con i piedi per terra, partendo dalle domande concrete della società: autogoverno, riforma amministrativa, concertazione sociale, politiche di coesione, sistemi territoriali capaci di reggere la competizione, effettività dei diritti di cittadinanza. È su queste domande che si misura l’efficacia di una politica istituzionale, la quale va costruita nel particolare contesto politico e sociale dell’Italia, e non con operazioni di trapianto di modelli che si sono formati e consolidati in contesti storici del tutto diversi.

 

4) Gli obiettivi di una politica istituzionale

La discussione, quindi, deve partire dalla individuazione chiara degli obiettivi che si intendono perseguire. Le riforme sono un mezzo per raggiungere determinati risultati. Non ha senso quindi la disputa astratta tra innovatori e conservatori, indipendentemente dagli obiettivi e dal contenuto delle riforme.

Gli obiettivi fondamentali mi sembrano essere i seguenti.

  1. a) L’equilibrio dei poteri, contro i pericoli di concentrazione. Come ho già detto, questo è un principio fondamentale della cultura costituzionale, e ogni soluzione deve essere misurata con questo metro. In questo quadro si pone anche il problema delle politiche anti­trust e del pluralismo dell’informazione, problemi tuttora non risolti.
  2. b) L’efficacia delle politiche pubbliche, in rapporto alle nuove caratteristiche della domanda sociale. Il mantenimento di una struttura statale centralizzata impedisce il raggiungimento di livelli soddisfacenti di efficienza amministrativa, e quindi occorre vedere nel loro nesso riforma amministrativa e sviluppo dell’autogoverno locale.
  3. c) Lo sviluppo della democrazia e della partecipazione sociale, contro le tendenze oligarchiche e contro i processi di passivizzazione e di svuotamento della democrazia. Ciò pone il problema, oggi cruciale, delle forme della politica, degli strumenti e dei luoghi della democrazia, della rappresentanza politica e sociale, dello sviluppo delle diverse forme di associazione e di azione collettiva. In alcune ipotesi istituzionali questo problema viene completamente rimosso, perché si ipotizza un modello di democrazia che si esaurisce in una investitura plebiscitaria del leader. È il modello di una democrazia referendaria, che riduce il cittadino al ruolo di consumatore passivo di messaggi. Già abbiamo in atto molti segni allarmanti di una evoluzione di questo tipo, con una vita politica che tende tutta ad essere giocata solo sul terreno dei grandi mezzi di comunicazione, e con una struttura sempre più leaderistica dei partiti, senza radicamento sociale, senza classe dirigente diffusa, senza comunicazione reale con la società.
  4. d) La ristrutturazione del sistema politico. Il funzionamento delle istituzioni è inseparabile dal livello di solidità strutturale del sistema politico, e la crisi italiana è, prima ancora che una crisi istituzionale, una crisi del sistema dei partiti. Occorre ricostruire un sistema politico funzionante, superando sia i fenomeni di degenerazione, sia le tendenze alla frantumazione e al particolarismo. In questo senso va favorita, anche con misure istituzionali, una evoluzione del sistema politico verso una forma di bipolarismo che consenta insieme stabilità di governo e alternanza.
  5. e) La coesione sociale, che è messa a rischio dai meccanismi competitivi e che richiede perciò una strumentazione politica e istituzionale adeguata, a salvaguardia dei diritti fondamentali di cittadinanza. In Italia, siamo inoltre in presenza di iniziative secessionistiche, che rendono il problema della coesione ancora più drammatico ed urgente. In questo capitolo rientrano tutti i problemi del welfare, delle politiche di concertazione, e anche il tema della costruzione europea come costruzione non solo monetaria, ma sociale e solidale.

 

5) Il processo di riforma dello stato

La riforma dello Stato, finalizzata al raggiungimento degli obiettivi prima indicati, si configura necessariamente come un processo, come una sequenza coerente di decisioni, di atti amministrativi e legislativi, lungo un arco temporale non breve. Le modifiche costituzionali sono solo un aspetto di tale processo, necessario ma non sufficiente, e sarebbe un errore grave ridurre tutto il problema alle sole riforme di carattere costituzionale.

C’è una prima fase del processo di riforma che agisce a Costituzione invariata, e che tende a creare le condizioni di partenza, con misure di semplificazione amministrativa, di delegificazione, di trasferimento di competenze dal centro alla periferia, di riorganizzazione dell’amministrazione centrale e periferica dello Stato. Questa prima fase è stata impostata dal Governo con una serie di importanti disegni di legge e con un complesso di deleghe al Governo. Si apre così una fase molto delicata e impegnativa, nella quale dovrà essere riorganizzata su nuove basi l’intera macchina amministrativa e dovranno essere ridisegnati rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali.

Il nostro giudizio su questi disegni di legge è sostanzialmente positivo. Per la prima volta dopo molti anni si tenta un approccio organico, sistemico, e si va oltre il metodo dei provvedimenti parziali. Il Sindacato intende partecipare a questo processo, come interlocutore del Governo, con una posizione attiva e costruttiva, cercando di rimuovere gli ostacoli e le resistenze conservatrici e corporative, che già hanno cominciato a manifestarsi, soprattutto nei vertici della burocrazia statale. È essenziale che procedano insieme misure di decentramento e misure di riforma amministrativa. I due aspetti sono strettamente legati: senza un ampio trasferimento di poteri dal centro alla periferia non è possibile nessuna riforma incisiva dell’Amministrazione, e senza riforme amministrative lo stesso trasferimento rischia di riprodurre su scala allargata una condizione di inefficienza.

 

6) Il progetto di federalismo

Il punto d’approdo è una organica riforma dello Stato in senso federalista, e ciò dovrà trovare soluzioni istituzionali coerenti nel lavoro di ridefinizione dell’architettura costituzionale. Alla prima fase, a Costituzione invariata, deve necessariamente seguire la fase delle modifiche costituzionali, con le quali soltanto può prendere forma un assetto federalista dello Stato.

Il tema del federalismo rappresenta la leva fondamentale per una riforma delle nostre istituzioni, e per questa via possiamo trovare una risposta alle domande fondamentali che abbiamo prima indicato. Infatti, con la costruzione di forti livelli politici di governo a base regionale, possiamo affermare sia una più equilibrata distribuzione dei poteri decisionali, sia un più stretto ancoraggio alla concretezza dei diversi contesti territoriali, e quindi possibili condizioni di maggiore efficienza, sia l’avvio di una nuova esperienza di autogoverno che rafforza le risorse democratiche del paese, gli spazi di partecipazione, e gli elementi interni di coesione dei sistemi territoriali.

Ci sono ancora molti nodi da sciogliere, e dietro un apparente consenso unanime intorno all’idea del federalismo vi è in realtà un complesso molto forte di resistenze, di posizioni di potere minacciate e anche di ostilità culturali di vario segno, per cui non si tratta certo di un cammino agevole e garantito. Una prima difficoltà riguarda il rapporto tra Regioni e autonomie locali. Vi è attualmente un conflitto pericoloso, che rischia di inceppare tutto il processo di riforma, ed è necessario lavorare per un’intesa, per un’alleanza di tutto il sistema delle autonomie. Se l’obiettivo è il federalismo, e non semplicemente un allargamento degli spazi di autonomia per gli Enti locali, è evidente che la dimensione regionale è quella essenziale, e che si tratta appunto di costruire quello che è finora mancato, un forte livello di governo regionale, non come continuazione della deludente esperienza delle Regioni fin qui conosciuta, ma come radicale ripensamento delle forme del regionalismo e come costruzione di una struttura di governo di tipo nuovo, che non riproduca i difetti di inefficienza, di accentramento, di rigidità, che hanno caratterizzato non solo la struttura ministeriale, ma anche in larga misura le attuali amministrazioni regionali.

In questo senso, in una logica non neo-centralistica, che valorizzi nell’ambito regionale il pluralismo istituzionale e sociale, c’è spazio per un riconoscimento forte del ruolo degli Enti locali, a partire dal Comune, dando attuazione al principio di sussidiarietà, sia per quanto riguarda il rapporto tra i diversi livelli territoriali, sia anche per realizzare nuove forme di integrazione tra strutture pubbliche e iniziativa autonoma dei soggetti sociali. Le nuove Regioni si possono così configurare come grandi centri di regolazione, che agiscono in una logica di sistema, di integrazione delle fondamentali funzioni strategiche che qualificano il territorio, con funzioni legislative e di programmazione, senza sovraccarico amministrativo.

Una riforma di tipo federalista si deve necessariamente completare con un ridisegno degli organi centrali dello Stato, e in particolare con la trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni, espressione diretta degli enti territoriali, con compiti differenziati rispetto alla Camera politica, dalla quale soltanto dipende il rapporto di fiducia con il Governo. La seconda Camera realizza una diretta partecipazione delle Regioni alla funzione legislativa, secondo un modello analogo a quello sperimentato nella Repubblica Federale Tedesca, e si dà così forza e autorevolezza alla classe dirigente locale. Si può prevedere che la nomina degli organi di garanzia, non solo il Presidente della Repubblica ma anche la Corte Costituzionale, avvenga con il concorso della Camera delle Regioni. Si costruisce così davvero una nuova “forma di Stato”, con diversi livelli di governo tra loro coordinati non in linea gerarchica e dotati di funzioni primarie e non delegate. Se invece resta un Senato elettivo, viene meno una delle condizioni essenziali dell’innovazione istituzionale, e il federalismo nasce in partenza come un progetto monco e senza respiro.

Un secondo nodo, che caratterizza in modo specifico la situazione italiana, è l’esistenza di un forte divario territoriale tra il Nord e Sud del paese, e ciò rende il progetto federalista di più complicata attuazione, dovendosi ricercare un difficile equilibrio tra le ragioni dell’autonomia e del riconoscimento delle differenze e le ragioni della solidarietà e dell’universalità dei diritti. Tenendo conto dei diversi punti di partenza, del diverso grado di maturazione e di solidità dei governi locali e delle relative strutture amministrative, è necessario prevedere un processo flessibile, con modi e tempi diversificati nel trasferimento di poteri dal centro alla periferia: non una dicotomia strutturale, che sancisca in modo permanente l’esistenza di due Italie, ma la possibilità di graduare i tempi di realizzazione del progetto e di sperimentare soluzioni e forme organizzative diverse.

Sono necessarie inoltre precise garanzie per una distribuzione delle risorse improntate a criteri di solidarietà e di perequazione. A questo fine è decisivo il modello di federalismo fiscale che si decide di adottare: quale grado di autonomia impositiva, quale grado di riequilibrio tra aree forti e aree deboli. Il federalismo non deve essere il primo passo verso una secessione di fatto, verso una rottura verticale della coesione nazionale, ma deve offrire a tutte le realtà territoriali gli strumenti e le risorse per il proprio sviluppo, nella convinzione che l’autonomia sia la prima condizione per lo sviluppo, e con uno sforzo rinnovato di cooperazione nazionale.

 

7) La dimensione europea

Andrebbe sviluppato, a questo punto, tutto il tema delle istituzioni politiche europee. Mi limito a segnalarne il carattere cruciale e strategico, e la fragilità dunque di qualsiasi disegno istituzionale che prescinda dalla dimensione europea. In tutti i campi decisivi, si spostano i luoghi della decisione politica, ed è ormai impensabile un governo dell’economia nell’ambito esclusivamente nazionale.

Ma a questo oggettivo spostamento dall’ambito nazionale a quello meta-nazionale non corrisponde un processo adeguato di costruzione delle istituzioni politiche e degli strumenti democratici di controllo, per cui l’Unione Europea è in parte una tecnostruttura, in parte un luogo di concertazione intergovernativa, non è ancora un nuovo spazio di democrazia. Per l’Europa, per la sua costruzione come effettivo soggetto politico, si pone la necessità di una vera fase costituente, per fissare le regole, i principi, gli strumenti. Anche tutte le esperienze di autonomia territoriale, di federalismo, se non vogliono rinchiudersi in una anacronistica visione localistica, prendono senso solo all’interno di una più ampia visione europea, come articolazioni, come sub-sistemi territoriali che si integrano e cooperano su una scala più vasta.

 

8) L’amministrazione

Una politica istituzionale – e qui abbiamo cercato di delinearne alcuni criteri orientativi – ha alla fine il suo banco di prova e la sua verifica nel funzionamento dell’Amministrazione, nella capacità di rispondere alle trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni, espressione diretta degli enti territoriali, con compiti differenziati rispetto alla Camera politica, dalla quale soltanto dipende il rapporto di fiducia con il Governo. La seconda Camera realizza una diretta partecipazione delle Regioni alla funzione legislativa, secondo un modello analogo a quello sperimentato nella Repubblica Federale Tedesca, e si dà così forza e autorevolezza alla classe dirigente locale. Si può prevedere che la nomina degli organi di garanzia, non solo il Presidente della Repubblica ma anche la Corte Costituzionale, avvenga con il concorso della Camera delle Regioni. Si costruisce così davvero una nuova “forma di Stato”, con diversi livelli di governo tra loro coordinati non in linea gerarchica e dotati di funzioni primarie e non delegate. Se invece resta un Senato elettivo, viene meno una delle condizioni essenziali dell’innovazione istituzionale, e il federalismo nasce in partenza come un progetto monco e senza respiro.

Un secondo nodo, che caratterizza in modo specifico la situazione italiana, è l’esistenza di un forte divario territoriale tra il Nord e Sud del paese, e ciò rende il progetto federalista di più complicata attuazione, dovendosi ricercare un difficile equilibrio tra le ragioni dell’autonomia e del riconoscimento delle differenze e le ragioni della solidarietà e dell’universalità dei diritti. Tenendo conto dei diversi punti di partenza, del diverso grado di maturazione e di solidità dei governi locali e delle relative strutture amministrative, è necessario prevedere un processo flessibile, con modi e tempi diversificati nel trasferimento di poteri dal centro alla periferia: non una dicotomia strutturale, che sancisca in modo permanente l’esistenza di due Italie, ma la possibilità di graduare i tempi di realizzazione del progetto e di sperimentare soluzioni e forme organizzative diverse.

Sono necessarie inoltre precise garanzie per una distribuzione delle risorse improntate a criteri di solidarietà e di perequazione. A questo fine è decisivo il modello di federalismo fiscale che si decide di adottare: quale grado di autonomia impositiva, quale grado di riequilibrio tra aree forti e aree deboli. Il federalismo non deve essere il primo passo verso una secessione di fatto, verso una rottura verticale della coesione nazionale, domande sociali. C’è qui un ritardo politico del tutto evidente. L’attenzione è solo sui rami alti dell’ordinamento, non sulla rete amministrativa che è direttamente a contatto con l’esistenza concreta dei cittadini e delle comunità.

Di quale amministrazione abbiamo bisogno, quale modello riteniamo necessario realizzare? Finora è stato inseguito illusoriamente il modello francese di una grande burocrazia statale, dotata di un’autorevolezza propria e con garanzie di autonomia dal sistema politico. Illusoriamente, perché non abbiamo in Italia nessuna delle condizioni di base per realizzare questo obiettivo, e il risultato è un’escrescenza della burocrazia ministeriale senza nessuna ricaduta in termini di efficienza e di autonomia. Inoltre, con la crisi dello Stato centralizzato e con le nuove esigenze di articolazione territoriale e di flessibilità, quel modello è ormai fuori tempo e non risponde ai bisogni attuali.

Il problema oggi è la costruzione di una amministrazione flessibile, differenziata, sviluppando i momenti di autonomia e di responsabilità. L’intera amministrazione pubblica va scongelata, liberata dai vincoli, dalla rigidità delle procedure e dei controlli, dall’eccesso di regolamentazione legislativa, e dalla sua stessa condizione giuridica che la fa essere come un corpo separato nella società, con l’obiettivo di creare una rete di autonomie funzionali, di agenzie specializzate, di strutture che operano esclusivamente in termini di efficienza, di risultati, di adeguatezza alle specifiche domande sociali.

In questo senso, è essenziale portare a pieno compimento la trasformazione del rapporto di lavoro pubblico, anche e soprattutto al livello della dirigenza, con gli stessi criteri che valgono per il settore privato, perché senza una dirigenza che risponde del risultato e che acquisisce una responsabilizzazione di tipo manageriale non usciamo dalla stagnazione attuale e continua il gioco perverso dello scarico delle responsabilità e della complicità occulta tra vertici politici e vertici amministrativi.

Il problema-chiave è la responsabilizzazione, e per questo occorre spezzare la catena delle dipendenze gerarchiche. Ciò vale anche per i diversi livelli istituzionali, che debbono gestire in piena autonomia le loro competenze e le loro risorse, abolendo tutti quegli istituti che corrispondono ad una concezione centralistica dello Stato: i Prefetti, Segretari comunali come rappresentanti del Ministero degli Interni, e l’attuale farraginoso sistema dei controlli che ha solo l’effetto di allungare a dismisura i tempi della decisione politica e di tenere in una condizione di tutela e di dipendenza le Regioni e le autonomie locali.

Tutti questi problemi hanno solo in parte un diretto rilievo costituzionale, e in ogni caso la riforma della Costituzione non garantisce di per sé nessun risultato sotto il profilo dell’efficacia amministrativa. Credo anzi che dobbiamo guardarci da un possibile eccesso di “costituzionalizzazione”, perché in questo campo si tratta piuttosto di togliere vincoli e di rendere possibile un processo di sperimentazione, di adattamento alle diverse situazioni. La principale riforma costituzionale è la delegificazione dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione, che deve essere riservata all’autonomia decisionale dell’esecutivo. Modificando in questo senso il rapporto Governo-Parlamento si dà una risposta concreta ai problemi di efficacia dell’azione di governo, con una più corretta delimitazione dei compiti di indirizzo che spettano al Parlamento. Possono essere invece essere rafforzati i principi costituzionali in materia di tutela dei diritti dei cittadini, di trasparenza, di pubblicità delle decisioni, di risarcimento.

 

9) Il sindacato e il suo ruolo istituzionale

Resta infine da valutare quale ruolo spetta alle Organizzazioni Sindacali nel nuovo sistema istituzionale che si viene costruendo. Contro il modello plebiscitario, che riduce il processo democratico al rapporto diretto tra cittadini e leadership di governo, e contro le concezioni corporative e movimentiste, per le quali il Sindacato non si assume nessuna responsabilità politica, ma è solo il portatore di interessi immediati, dobbiamo affermare la piena legittimità istituzionale del Sindacato – e più in generale delle organizzazioni sociali rappresentative di interessi rilevanti -, il suo essere un soggetto politico riconosciuto che entra a pieno titolo nel circuito delle decisioni politiche. È il modello della concertazione, che va costruito e formalizzato ai vari livelli istituzionali. Questa scelta, che di fatto è stata operante negli ultimi anni e che è nella natura stessa di un Sindacato “Confederale”, il quale appunto non è la sommatoria di interessi particolaristici ma costruisce una proposta politica di sintesi, ha una fondamentale implicazione per quanto riguarda la garanzia democratica dei processi decisionali e la legittimazione trasparente e verificata dei meccanismi della rappresentanza.

Se il Sindacato ha un rilievo istituzionale, le regole della sua vita interna non sono un affare privato, ma vanno politicamente regolate. È quindi urgente una nuova legislazione in materia, colmando i vuoti attuali e le incertezze di un sistema di carattere esclusivamente pattizio. La democrazia sindacale ha, come è evidente, un carattere complesso, e riguarda almeno tre distinti livelli: la democrazia associativa, che regola il rapporto con gli iscritti, la democrazia rappresentativa o delegata, che regola il funzionamento degli organismi eletti da tutti i lavoratori, la democrazia diretta, che riguarda l’uso di procedure di tipo referendario. Ci può essere un ventaglio di soluzioni e di combinazioni tra questi diversi aspetti. L’essenziale è il passaggio da una situazione di arbitrio e di incertezza ad un sistema di diritti riconosciuti e formalizzati, realizzando nella sostanza il dettato costituzionale secondo il quale l’esercizio del potere contrattuale è legato alla certificazione dei livelli effettivi di rappresentatività.

 

10) Sindacato e federalismo

Il Sindacato dovrà anche affrontare il problema degli effetti che inevitabilmente saranno provocati da una riforma federalista dello stato sul sistema delle relazioni sindacali e sui modelli contrattuali. Non è né credibile né accettabile la conservazione di un assetto centralizzato delle relazioni. Se il federalismo è la costruzione di “sistemi territoriali” sarà necessario che in questi sistemi entri a pieno titolo il ruolo delle forze sociali, che dunque si passi da un sistema monocentrico ad un sistema policentrico, con ampi livelli di autonomia e di responsabilità politica per le strutture territoriali. Anche per il sindacato l’autonomia, la responsabilizzazione delle strutture decentrate, la costruzione di classi dirigenti locali, può essere una risorsa importante e la condizione per una iniziativa più efficace, più aderente alla realtà.

Naturalmente, si pongono, sotto questo profilo, molti problemi, e va individuato un equilibrio tra gli elementi “generali”, di diritto universale, che debbono valere per tutti, e gli elementi di diversità, di autonomia, di libera sperimentazione territoriale. Abbiamo più volte ribadito che non può essere in discussione lo strumento dei contratti nazionali di lavoro: possiamo discuterne le modalità, ma non la funzione di base come garanzia dei diritti fondamentali di tutti i lavoratori. Così, analogamente, possiamo discutere le possibili linee di riforma dello stato sociale, distinguendo ciò che può essere gestito autonomamente a livello territoriale, e ciò che invece deve costituire un nucleo essenziale di diritti universalmente garantiti.

È una discussione da fare, che finora abbiamo eluso, e che si porrà necessariamente davanti a noi in un prossimo futuro, perché si tratta di una tendenza di fondo della società italiana, e le soluzioni istituzionali potranno essere più o meno incisive e coraggiose, ma non credo possano a lungo ignorare il pluralismo reale della società italiana e i bisogni di autogoverno e di autonomia che si sono affermati. Su tutta questa parte, che riguarda il Sindacato, il suo ruolo, la sua riforma, mi sono limitato a pochi accenni sommari, e credo che dovremmo predisporre al più presto una apposita e approfondita discussione. Questo è solo l’inizio di un lavoro, un primo confronto politico. Dovremo poi fissare in modo più preciso un programma di attività, discutendo con le nostre strutture oltre che verificando le possibili intese con CISL e UIL.

Nel momento in cui partono i lavori della Commissione Bicamerale, è importante che il Sindacato sia presente e abbia una sua autonoma iniziativa, ed è importante che il maggior numero possibile di lavoratori sia coinvolto nella discussione e sia in grado di valutare i termini della discussione politica che è aperta. È importante, come dicevo all’inizio, un lavoro di massa, anche con il contributo di specialisti e di esperti disponibili a lavorare con noi.



Numero progressivo: C14
Busta: 3
Estremi cronologici: 1997, 29 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -