SOLO LA DEMOCRAZIA SALVERÀ IL SINDACATO
di Riccardo Terzi
Ricostruire un efficiente meccanismo democratico all’interno delle organizzazioni sindacali come unica alternativa al massimalismo e alla strategia puramente istituzionale. Anche il sindacato, come le imprese, deve porsi l’obiettivo della qualità, sviluppando l’autonomia delle organizzazioni di fabbrica e delle strutture decentrate.
Nell’attuale situazione di crisi politico-istituzionale e di dissesto economico dell’Italia, il sindacato si trova in una posizione ambigua: protagonista di una grande mobilitazione sociale che ha assunto una ampiezza davvero straordinaria, deve far fronte ad un duplice attacco che viene sferrato al suo ruolo in nome degli interessi sociali rappresentati, i quali pretendono una difesa più intransigente, e in nome dell’emergenza nazionale, che esige una linea di responsabilità e che chiude tutti gli spazi tradizionali di un sindacalismo rivendicativo e contrattualista.
Stretto da questa tenaglia, il sindacato appare incerto sul proprio cammino e attraversato da forti contraddizioni interne. In discussione non sono solo questioni di tattica contingente, ma il suo ruolo istituzionale.
L’ampiezza del movimento di lotta che si è sviluppato contro la manovra economica decisa dal governo non risolve questa contraddizione, ma la porta dentro di sé, e ciò risulta ogni giorno più evidente, dando luogo ad un percorso tortuoso nel rapporto tra le confederazioni e nel rapporto tra le confederazioni e i lavoratori.
Le basi stesse del movimento hanno in sé una debolezza non risolta, e possono franare per l’urto simultaneo di quel duplice attacco che proviene da fronti diversi. Senza una chiarezza strategica, la situazione può quindi precipitare.
Non è solo l’attacco di forze nemiche, che in quanto tale è più facile da individuare e da respingere. Se si trattasse solo della provocazione estremistica e della violenza isolata di piccoli gruppi, le basi di consenso del sindacato non ne sarebbero seriamente intaccate. Ma è evidente che c’è qualcosa di più, che ci sono un malessere e una sfiducia diffusi, e che la violenza è pericolosa proprio perché è la miccia che può provocare un incendio più vasto. Larghi settori del mondo del lavoro non si sentono rappresentati e tutelati nei loro interessi e considerano il sindacato più come una controparte che come un loro strumento di difesa, come un’articolazione del sistema politico, come un apparato burocratico-istituzionale, e non come un organo di rappresentanza sociale.
Accade così che nel momento stesso in cui si realizza la più grande partecipazione di massa alle manifestazioni sindacali, questa partecipazione assume un carattere critico e talora anche di contestazione aperta. Si pensa insomma che solo una forte e continua pressione dal basso possa smuovere l’inerzia dei vertici sindacali.
In questo atteggiamento di diffidenza critica ci sono molti elementi di verità. Si coglie l’esistenza di un consociativismo istituzionale che coinvolge anche il sindacato e i suoi gruppi dirigenti. Consociativismo vuol dire sovrapposizione dei ruoli, offuscamento dell’autonomia delle diverse funzioni, e ciò si verifica anche per il sindacato ogni volta che esso sposta l’asse della propria iniziativa dalla rappresentanza degli interessi e dall’esercizio dei propri poteri contrattuali verso forme ambigue e non trasparenti di coinvolgimento nella gestione, come accade ad esempio in molti settori del pubblico impiego, o verso una sorta di corresponsabilità nell’ azione di governo.
Viene meno, in questi casi di consociativismo, sia l’autonomia della funzione imprenditoriale, condizionata e svilita da ragioni di convenienza politico-clientelare, sia l’autonomia del sindacato. Non c’è una limpida dialettica democratica tra poteri diversi, ciascuno sovrano nel suo ordine, ma una confusa compromissione reciproca che lascia ad ogni soggetto non il potere di decisione ma solo il potere di veto. Questo è stato il fondamento del regime politico democristiano, che ha pervaso il modo di essere ed il funzionamento delle diverse istituzioni, senza escludere la stessa istituzione sindacale.
In una società caratterizzata da questi meccanismi consociativi, tende a formarsi un ceto dirigente interscambiabile che passa in modo disinvolto da una all’altra funzione, in quanto ogni singola funzione è solo l’anello di un unico sistema.
I politici possono assumere di volta in volta le più diverse competenze e candidarsi per ruoli manageriali di primo piano nelle grandi imprese pubbliche, così come i cosiddetti rappresentanti della società civile tendono ad assumere in breve tempo i medesimi tratti del politico professionale, e in questo contesto non mancano sindacalisti che stanno sul mercato della politica, pronti a coglierne le opportunità non appena si presentino.
I casi di Marini e di Benvenuto, passati direttamente dal sindacato ad incarichi di governo, acquistano in questo senso un significato emblematico, per non parlare dei sempre più numerosi dirigenti sindacali che fanno carriera come capi del personale nelle aziende. In questi processi non c’è nessuna indegnità morale, ma c’è sicuramente un enorme problema politico, perché è l’autonomia del sindacato che viene duramente colpita nella rappresentazione e nella coscienza dei lavoratori.
Può trattarsi di una reazione primitiva ed ingiusta, perché è possibile fare l’interesse dei lavoratori in diverse collocazioni, ma questa reazione tuttavia coglie un pezzo di realtà, coglie la fragilità dell’autonomia del sindacato.
In questo capitolo rientra anche il problema dei rapporti con i partiti, problema del tutto irrisolto nonostante le norme sulla incompatibilità tra incarichi politici e incarichi sindacali. Nella CGIL si sono ufficialmente sciolte le correnti di partito. Ma per ora questa decisione è solo una parvenza, perché la struttura materiale dell’organizzazione continua a funzionare secondo le vecchie regole, con un segretario generale e un segretario generale aggiunto, a tutti i livelli, che garantiscono non il pluralismo sindacale ma l’equilibrio tra le appartenenze di partito, e con un lavoro di componente che continua ad essere attivo in forme più o meno mascherate. Tutto ciò non è estraneo alla crisi e al travaglio della CGIL, perché le logiche politiche sembrano essere tornate in primo piano e alcuni dirigenti, tra i quali in primis il segretario generale aggiunto Ottaviano Del Turco, non fanno che confermare in modo vistoso questa impressione.
Non si tratta solo della CGIL, perché nuovi collateralismi si stanno affermando in tutte le confederazioni, e l’unità sindacale non si riesce a fare proprio perché pesano questi condizionamenti di partito. Questo deficit di autonomia è del tutto visibile, e in alcuni casi appare del tutto intollerabile.
Nel momento in cui il sistema dei partiti è largamente delegittimato, se il sindacato appare come una struttura integrata in questo sistema e viene anch’esso omologato al sistema politico è la sua funzione autonoma di rappresentanza sociale che perde credibilità.
Anche sull’area del dissenso incombe la strumentalizzazione politica, e così il quadro si completa. C’è qui un’aperta e spregiudicata iniziativa politica, promossa da Rifondazione comunista, che si assume in prima persona il ruolo della critica e della contestazione del sindacalismo con· federale. L’attacco è sistematico, violento, fazioso.
È un fatto nuovo, che occorre valutare con attenzione perché può provocare guasti profondi.
C’è per la prima volta nel panorama della sinistra una forza che non agisce come una componente critica dentro le regole del sindacato confederale e che punta invece su un processo di crisi, di rovesciamento degli equilibri, facendo saltare il rapporto di rappresentanza che lega i lavoratori ai gruppi dirigenti del sindacato.
La stessa scissione è un’eventualità non esclusa, che può a un certo punto rendersi inevitabile. Dovremmo occuparci di più degli effetti politici che ha avuto la scissione del Pci, che ha messo in libera uscita una componente che prima era ricompresa e mediata, e quindi neutralizzata, dentro i meccanismi del centralismo democratico. Questa componente agisce ora come un fattore di radicalizzazione e di disgregazione del tessuto unitario, il che diviene pericoloso in quanto si collega a processi sociali diffusi e può determinare un cortocircuito tra estremismo politico e corporativizzazione del corpo sociale.
Su questo intreccio può giocare le sue carte il partito di Garavini, non sull’idea del comunismo, la cui rifondazione è impresa disperata, ma sugli umori di una società inquieta dove gli interessi di parte tendono a prevalere su qualsiasi considerazione dell’interesse generale.
Il garavinismo è una sorta di leghismo di sinistra: nessun sacrificio è tollerabile, nessuna considerazione della crisi della società italiana vale a giustificare il minimo arretramento rispetto alle posizioni acquisite. E il sindacato confederale è un nemico perché non si limita alla difesa intransigente degli interessi, ma accetta il terreno imposto dall’avversario, accetta il ragionare intorno alla crisi e alle misure straordinarie che si rendono necessarie per il risanamento dell’economia nazionale.
Che si tratti della scala mobile o delle pensioni, o dei privilegi del pubblico impiego, o persino della rivolta degli autonomi contro la minimum tax, il discorso non cambia, perché tutto serve a creare un grande fronte di opposizione sociale. Mentre il vecchio Pci togliattiano, spesso ingiustamente vituperato, era, pur con le sue doppiezze, una grande forza nazionale, qui siamo all’assemblaggio di tutte le spinte corporative.
Tuttavia, questo attacco «da sinistra» non è pericoloso per se stesso, ma solo perché si inserisce in uno stato generale dello spirito pubblico che è di stanchezza, di ripiegamento, di chiusura nella cerchia ristretta delle convenienze private, essendo venuto meno qualsiasi criterio universale di valutazione.
È questo il terreno su cui crescono le Leghe.
Entrate in crisi le grandi appartenenze di natura ideologica, resta come metro di misura solo l’interesse particolare e la mediazione politica non funziona più perché non si riconosce nessun criterio in nome del quale sia possibile mediare tra gli interessi.
Il fenomeno leghista ha qui la sua forza, la sua modernità, la sua capacità di penetrazione nei punti alti dello sviluppo, in quanto esso lascia agire liberamente la società civile come società degli interessi offrendo ad essa un’identità comune ed una appartenenza solo apparenti e simboliche, un contenitore vuoto nel quale ciascuno può mettere in modo del tutto arbitrario le sue passioni, anche le più grette, senza doversi misurare con nessuna concezione dell’etica pubblica.
Mi riferisco non solo alla Lega come formazione politica, ma ad un clima diffuso che può anche assumere espressioni politiche diverse, ma che segnala in ogni caso l’emergere della dimensione corporativa, mascherata da ideologie che svolgono ormai un ruolo solo di manipolazione e di mistificazione.
È questo insieme di processi che mette a rischio il ruolo del sindacato, in quanto si pretende da esso un completo appiattimento sull’immediatezza degli interessi particolari, il che è incompatibile con un sindacato generale, che realizza la solidarietà tra interessi diversi, e quindi pratica un’azione di mediazione e di sintesi.
Su un altro versante, il sindacato è messo sotto accusa per la ragione opposta, perché incapace di incorporare nella propria azione le esigenze di carattere nazionale, incapace di misurarsi seriamente e responsabilmente con le dure necessità del risanamento economico.
Si ripresenta, in un’ottica nuova, la critica del consociativismo, che appare in questo caso come corresponsabilità del sindacato in una politica di rilassatezza, di spreco e di favoritismi, che ha portato l’Italia al collasso.
Il sindacato, insomma, è stato interno al sistema andreottiano di governo, e ora reagisce e assume una linea di opposizione perché quel sistema è saltato e perché si tenta finalmente un’inversione di rotta. Anche in questo caso, non è solo un attacco che viene da forze nemiche, non è la vecchia polemica di stampo reazionario.
C’è invece una posizione che accomuna forze culturali diverse, anche democratiche e di sinistra, e i grandi mezzi di informazione, la quale consiste nell’idea che c’è una via obbligata per il risanamento economico dell’Italia e per il recupero del suo prestigio internazionale, e questa via comporta necessariamente un alleggerimento del sistema di protezione sociale, una riduzione dei consumi e delle retribuzioni reali, e quindi un’azione di governo che non sia frenata dai veti del sindacato e dalla ricerca ad ogni costo del consenso sociale. O il sindacato capisce questa necessità ed entra nell’ ottica di una politica di rigore, o altrimenti diventa necessario procedere senza e contro il sindacato. Non ci sono alternative praticabili, ma ci possono essere solo varianti di ordine tecnico, provvedimenti più o meno efficaci ma dentro una linea che è oggettivamente tracciata.
La pretesa del sindacato di indicare una linea alternativa, una contromanovra, è del tutto illusoria e demagogica, e tale pretesa finisce solo per scatenare tensioni sociali incontrollabili.
Con l’alibi di una possibile linea alternativa, tutti i gruppi sociali finiscono per scaricare su altri il prezzo del risanamento, e difendono in modo accanito le posizioni acquisite.
In una condizione di estrema conflittualità, di contrapposizione degli interessi -lavoro dipendente contro lavoro autonomo, settore pubblico contro settore privato, attività produttiva contro risparmio -diviene impossibile l’azione di risanamento, perché si crea uno stato di panico e di guerra di tutti contro tutti.
Come mi sono sentito dire da alcuni amici economisti, siamo in una fase nella quale non solo sono necessari i sacrifici, ma è inevitabile un certo grado di iniquità nella loro distribuzione sociale, perché non sono oggi possibili grandi riforme strutturali, che hanno necessariamente tempi lunghi, mentre occorrono scelte urgenti dettate dall’emergenza.
Questa situazione del dibattito politico e culturale mostra che la sinistra non riesce ad essere portatrice di un progetto alternativo, e il sindacato si trova così in una condizione di relativo isolamento, senza il supporto di una elaborazione culturale, e quindi senza egemonia.
Nella valutazione dei rapporti di forza, visti in tutta la loro complessità, è sempre di primaria importanza la situazione esistente sul fronte culturale, la quale appunto indica da che parte sta la capacità di egemonia ovvero la capacità di inquadrare le scelte immediate in un orizzonte strategico. In questo senso, c’è oggi un’indubbia debolezza del movimento sindacale, che stenta a tradurre la protesta sociale in una autonoma capacità di progetto.
Questo stretto rapporto che lega il mondo del lavoro ai processi culturali ha avuto la sua prova storica nell’ esperienza del Sessantotto e degli anni successivi, quando si realizza una straordinaria convergenza tra questi due elementi, una combinazione di lotta sociale e di rinnovamento culturale che dà luogo ad una rottura degli equilibri politici generali.
Negli anni Ottanta questa convergenza è stata spezzata, e il movimento operaio ha dovuto combattere una difficile lotta difensiva, spesso perdente, mentre l’asse dell’egemonia culturale si spostava decisamente a vantaggio di una cultura neoliberista: il centro della scena politica viene occupato non più dal lavoro ma dall’impresa. Oggi i vecchi equilibri sono rimessi in discussione e si è aperta una situazione di movimento.
Ma il centro dello scontro è politico e non sociale, l’attenzione si concentra sulla crisi del sistema dei partiti e sui progetti di riforma istituzionale, mentre i problemi del lavoro continuano a stare sullo sfondo, e la sinistra non fa eccezione perché non va oltre la routine di affermazioni generiche che non producono effetti politici concreti. Tutte le forze che si battono per il rinnovamento politico e che cercano di aprire nuove strade per la vita politica del paese hanno ben poco da dire e da proporre sul terreno della politica economica e sociale.
C’è una debolezza del governo, ma la debolezza di Amato è politica, perché si regge sul vecchio sistema di potere, mentre intorno alle sue scelte di politica economica ci sono solo scaramucce e giochi tattici ma non c’è nessuna battaglia politica impegnativa. Se Amato cade, lo scenario non cambia.
Anche il sindacato finisce quindi per combattere una battaglia solo tattica, emendativa, per strappare qualche correzione parziale, e una lotta più incisiva, di carattere alternativo, appare velleitaria perché sono del tutto assenti le condizioni politiche e culturali. All’orizzonte sembra esserci, dunque, solo la possibilità di scegliere tra due diverse modalità di sconfitta: condurre un’azione intransigente di difesa degli interessi che vengono colpiti, ed essere travolti perché le condizioni generali del paese non possono più consentire ad interessi pur legittimi di bloccare il necessario risanamento; oppure accettare la via obbligata di una manovra che comporta sacrifici e iniquità, e aprire così una crisi drammatica e forse non più reversibile della propria rappresentatività sociale.
Il rischio è che nel sindacato la discussione e lo scontro politico siano polarizzati intorno a due ipotesi entrambe perdenti, e che non ci sia lo sforzo necessario per una nuova elaborazione, per superare le debolezze attuali, per cercare una via di uscita da una situazione che appare bloccata.
Di fronte all’ «ambiguità» della situazione del sindacato si può prendere la scorciatoia di una decisione unilaterale, che sceglie con coerenza uno dei corni del dilemma. In questo caso, c’è sicuramente il vantaggio di indicare una linea chiara, comprensibile, ma l’esito di una tale unilateralità è sicuramente negativo.
Da un lato c’è la soluzione proposta da Bertinotti, che assegna al sindacato il compito di un puro rispecchiamento, senza mediazioni, dei bisogni e degli interessi presenti nel mondo del lavoro, i quali si devono manifestare nella loro radicalità.
Decidano i lavoratori: il sindacato è solo lo strumento che regola questo percorso di autoorganizzazione dal basso, è solo un tramite organizzativo, uno spazio che viene offerto.
Si pensa così di poter riprodurre la grande stagione del sindacato dei consigli, di un movimento che nasce dal basso e conquista forza politica.
Ma il risultato sarebbe oggi del tutto diverso, non un movimento che afferma la sua egemonia e che sa mettere in relazione fabbrica, società e Stato, ma una sommatoria disarticolata di rivendicazioni parziali incapaci di assumere dimensione politica.
Senza egemonia culturale, senza progetto, senza una strategia forte, c’è spazio solo per un movimentismo che si muove alla cieca e che va dritto alla sconfitta,
Sul versante opposto, c’è la coerenza altrettanto unilaterale di una concezione politico-istituzionale del ruolo del sindacato, che prescinde totalmente dal consenso dei lavoratori, dalla loro soggettività, dalla dinamica reale delle forze sociali.
È il disegno su cui sembra scommettere la CISL o una parte di essa, con l’obiettivo di essere riconosciuta come l’interlocutore privilegiato del governo e della Confindustria, in quanto si assume le proprie responsabilità, senza correr dietro alle varie spinte rivendicative, e prende atto con grande realismo della crisi economica del paese.
Su questa via si possono ottenere momentanei successi politici, ma la ragion d’essere del sindacato in quanto organismo di rappresentanza sociale viene snaturata, e il conflitto che già oggi oppone lavoratori e gruppi dirigenti può diventare esplosivo e irreversibile.
Il risultato è che alla fine, consumata questa rottura, ci sarà un generale sbandamento tra i lavoratori e una nuova proliferazione di corporativismi e di estremismi. Queste posizioni opposte ed estreme sono temperate dal fatto che, nella ricerca di un’intesa unitaria tra le confederazioni, nessuna di esse si afferma come tale nella sua integrità.
L’area che fa capo a Bertinotti ha un suo spazio e una sua funzione solo in quanto resta minoritaria e ci sono robusti contrappesi, e così anche nel rapporto tra CISL e CGIL c’è una interdipendenza che smussa e corregge le posizioni unilaterali. Ma questo sistema di contrappesi e di condizionamenti reciproci, se costringe a ricercare una linea mediana, non è in grado di offrire un quadro di chiarezza strategica, ma dà luogo ad equilibri sempre precari e provvisori. Se i tentativi di superare in modo unilaterale l’ambiguità dell’azione sindacale sono destinati alla sconfitta, occorre allora una ricerca che assume questa ambiguità, e occorre una linea, necessariamente complessa e flessibile, capace di rispondere alle diverse e opposte esigenze.
Non ho in proposito nessuna ricetta da offrire, e so bene che la ricerca di una «terza via» è spesso solo una fuga dalla realtà. La realtà ci presenta oggi alternative difficili e contraddizioni non facilmente superabili.
Non se ne esce se il sindacato non si dà una sua autonomia progettuale, senza la quale finisce per oscillare senza costrutto tra massimalismo rivendicativo e accettazione acritica dei vincoli e degli obiettivi che sono incorporati nell’ assetto attuale della società e nella sua struttura di potere.
Il problema principale è un problema di elaborazione, di progetto, di cultura, di una nuova saldatura tra il mondo del lavoro e il pensiero scientifico. Il tema forse centrale di questo possibile incontro è l’esplorazione di tutte le possibilità di liberazione del lavoro, di controllo sulle condizioni di lavoro e di vita, di autonomia e di realizzazione di sé, che possono aprirsi con un uso intelligente e finalizzato del progresso tecnologico. Si tratta di guidare il processo di modernizzazione, di orientarlo in modo che esso si risolva in una condizione sociale qualitativamente più alta, dove sia possibile controllare le scelte che incidono sulla propria vita. Per questo al centro stanno problemi di potere, di controllo democratico, di qualità delle relazioni sociali.
È questo il terreno possibile di una riunificazione del mondo del lavoro, il che comporta il pieno sviluppo del potere contrattuale nei luoghi di lavoro come strumento di intervento sui processi di riorganizzazione delle imprese.
L’emergenza economica può imporre sacrifici, rinunce, ma non una limitazione dei diritti democratici: al contrario una politica di rigore può ottenere il consenso sociale necessario se si accompagna ad una espansione della sfera dei diritti.
Per questo è essenziale la conquista di un sistema forte di contrattazione decentrata e per questo c’è stato un errore serio nel protocollo del 31 luglio, che ha limitato in modo non giustificato i poteri contrattuali dei lavoratori e del sindacato. Se si vuole ottenere una partecipazione responsabile, uno sforzo collettivo per uscire dalla crisi, occorre che i lavoratori non siano solo soggetto economico, chiusi in una difesa corporativa, ma soggetto politico, e quindi capaci di decisione, di responsabilità.
In sostanza, l’alternativa alla frantumazione corporativa può essere trovata in un progetto avanzato di democratizzazione delle strutture di potere, cambiando così il rapporto che si è instaurato negli anni Ottanta tra lavoro e impresa in quanto rapporto di subordinazione passiva.
Il sindacato è l’espressione della soggettività del lavoro, e in questo senso ha una sua autonomia irriducibile, ed è a partire da questa sua autonomia che si confronta con le esigenze dell’impresa e con i vincoli della situazione economica, cercando una mediazione, ma nella chiarezza dei ruoli, nella distinzione delle rispettive funzioni.
Nella rottura dei meccanismi consociativi ogni potere recupera la propria autorevolezza: ciò vale nel rapporto tra sindacato e impresa come in quello tra sindacato e potere politico. Il tema del consociativismo è già tornato più volte nella nostra analisi, ed esso mi sembra essere uno snodo essenziale, perché da qui passa necessariamente la ridefinizione di un ruolo autonomo del sindacato. Questa autonomia non è separatezza, chiusura, alterità rispetto al sistema sociale, ma è un processo continuo di confronto, di verifica, di conflitto e di cooperazione tra soggetti diversi, tra funzioni e poteri distinti, ciascuno dei quali ha una propria fonte di legittimazione.
Sta qui l’ambiguità, o meglio l’ambivalenza, del ruolo del sindacato, che è espressione di una parte, ma che nel contempo è impegnato e costruire un terreno di incontro e di mediazione con gli altri soggetti, sociali e politici, rifiutando la sterilità sia della pratica corporativa, sia della fuga ideologica che sposta nel mito la risposta ai problemi reali. Per questo suo ruolo il sindacato ha in se stesso una tensione, una dinamica, una contraddizione permanente, che non si può risolvere in modo unilaterale se non con una perdita di ruolo.
Questa dinamica interna va regolata democraticamente e nell’assenza di regole democratiche certe sta oggi il punto di maggior debolezza e precarietà del sindacato, in quanto ogni arbitrio è possibile, sia da parte dei gruppi dirigenti che decidono sulla testa dei lavoratori, sia da parte di gruppi di lavoratori che, pur minoritari, si arrogano un diritto esclusivo di rappresentanza senza nessuna investitura democratica.
I guasti sono profondi e diffusi, e, dopo i numerosi tentativi infruttuosi di autoregolazione, mi pare che a questo punto sia necessaria una organica azione legislativa che definisca la sfera dei diritti democratici dei lavoratori e fissi le procedure con le quali si prendono decisioni legittime nell’azione contrattuale: chi decide, come si decide, come si organizza la rappresentanza. Oggi nel sindacato tutti si sentono onnipotenti, e ciascuno pensa di poter parlare e decidere a nome di tutti i lavoratori, sia i vertici confederali che si sentono i depositari dell’interesse generale, sia i quadri di base che contestano i gruppi dirigenti nazionali in nome di una loro presunta funzione rappresentativa che è altrettanto priva di legittimazione democratica.
Tutto è lasciato ai rapporti di forza e di potere e vince chi è più spregiudicato nell’uso degli strumenti di potere mentre resta senza voce la grande massa dei lavoratori, utilizzata e strumentalizzata ai fini della lotta interna. Occorre passare dal dispotismo plebiscitario alla costruzione di una democrazia rappresentativa, dotata di regole, di procedure, di chiarezza nella distribuzione dei poteri. Questo passaggio non è risolutivo, ma è solo una condizione preliminare. La democrazia non è in se stessa la soluzione, ma è lo strumento, l’unico possibile e legittimo, per affrontare i problemi, per risolvere le contraddizioni, per decidere intorno agli obiettivi, alle scelte, alle strategie. Se c’è un percorso democratico trasparente, anche il conflitto tra opzioni diverse diviene visibile ed esplicito e trova gli strumenti e le procedure per giungere ad una conclusione e ad una decisione basata sul consenso. Ciò, è ovvio, non garantisce la giustezza delle decisioni, ma solo la loro legittimità. Ma in generale io credo che il rispetto delle regole democratiche riduca i margini di errore, e consenta più facilmente di correggere per tempo decisioni che si siano dimostrate errate, perché il processo democratico è un processo di continua verifica nel quale non ci sono mai posizioni definitive e irreversibili. In questo contesto, non c’è spazio per nessuna onnipotenza, per nessun potere sacrale, per nessuna avanguardia illuminata, ma tutto e tutti sono in discussione. La democrazia, insomma, è il terreno possibile di una mediazione trasparente tra interessi diversi e tra diverse posizioni e proposte. Il movimentismo fine a se stesso fa a meno della democrazia, perché ha già scelto in partenza e assume in modo acritico qualsiasi rivendicazione, qualsiasi spinta dal basso. Analogamente, la scelta di un sindacato istituzionale, che gioca tutte le sue carte sul terreno politico, non si concilia con l’esercizio libero della democrazia, perché anche in questo caso la scelta è predeterminata, e la democrazia è solo un elemento di disturbo. Ma se c’è bisogno di una continua azione di rimando tra questi due piani, di una strategia più complessa che cerchi di individuare di volta in volta il punto possibile di incontro tra interessi immediati e parziali e interesse generale, allora questa sintesi non può che essere affidata a verifiche democratiche continue, sulla base di un dibattito esplicito e trasparente. Ciò richiede che l’articolazione degli interessi sia visibile, che possa manifestarsi con grande limpidezza. Non si combatte il corporativismo con le prediche, con le dichiarazioni solenni, o con atti di imperio. Si governano le differenze solo se esse vengono riconosciute come tali. Occorre dunque un’organizzazione articolata e flessibile, che dia voce ed espressione ai diversi interessi nella loro specificità, e che li sottoponga ad una costante verifica critica. Il modello organizzativo del sindacato deve essere, sotto questo profilo, trasformato radicalmente, sviluppando le specificità, le autonomie, sia per quanto riguarda le articolazioni sociali e professionali del mondo del lavoro, sia in rapporto alle diversità di carattere territoriale.
I lavoratori delle piccole imprese artigiane, i quadri e i tecnici, le donne, i lavoratori stranieri, hanno bisogno, per far valere le loro esigenze specifiche, di realizzare canali organizzativi distinti e forme efficaci di rappresentanza. E così le organizzazioni regionali non possono più essere i terminali passivi di decisioni centralizzate, ma devono essere la struttura portante di un nuovo modello di direzione.
Nella critica al sindacato, al suo verticismo, alla sua burocratizzazione, c’è il rifiuto del modello di centralizzazione che oggi è prevalente e che dà luogo ad una struttura opaca, non intelligente, in quanto non c’è responsabilità creativa nei singoli punti dell’organizzazione. Insomma, la rivoluzione organizzativa che tentano di realizzare le imprese per raggiungere obiettivi di qualità, sviluppando al massimo le risorse di autonomia e di responsabilizzazione, è una necessità vitale anche per il sindacato, che altrimenti rischia di soffocare per il sovraccarico burocratico che ne ostruisce i movimenti e che ne offusca la capacità di lettura e di conoscenza della realtà. Di fronte all’iniziativa di lotta decisa autonomamente da alcuni consigli di fabbrica, molti dirigenti sindacali hanno gridato allo scandalo, denunciando in questa iniziativa il ritorno di antichi velleitarismi e settarismi.
Può essere. Credo però che fossero più preoccupati per la messa in discussione dei ruoli gerarchici, per la rottura delle regole burocratiche.
Ma può funzionare un sindacato se non ha nelle realtà dei luoghi di lavoro proprie strutture capaci di autonomia, di iniziativa, se ha solo un agglomerato informe di tessere e non gruppi dirigenti che interpretano la loro realtà e intervengono con un proprio progetto? Se nelle fabbriche qualcosa si muove, se ci sono delegati che vogliono affermare una propria funzione autonoma, non è un segno di crisi, ma di nuova vitalità.
E nel ridisegno una nuova struttura organizzativa, che valorizzi le autonomie e le specificità, dovrebbe stare in primo piano la necessità di ricostituire forti rappresentanze nei luoghi di lavoro, con poteri, con risorse, con un ruolo contrattuale riconosciuto. Se il sindacato deve fare i conti con una nuova complessità della struttura sociale e del mondo del lavoro, allora è necessario che nel suo funzionamento e nel suo modo di essere sia in grado di esprimere questa complessità.
Non ci sono, a mio giudizio, facili scorciatoie. Il sindacato è nel mezzo di una crisi sociale assai complessa, esposto a pressioni, a spinte di diverso segno, e non ha altra possibile scelta che quella di affrontare questo insieme di problemi con paziente intelligenza e con duttilità, in un rapporto democratico con le diverse realtà del mondo del lavoro, senza illusioni, senza miti, senza semplificazioni, senza ricercare qualche nuova formula ideologica salvifica o qualche mossa spettacolare. È un mestiere difficile. Si tratta solo di praticarlo con serietà professionale.
Busta: 2
Estremi cronologici: 1992
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Micromega”, n. 5, 1992, pp. 184-194