ASSEMBLEA CGIL LOMBARDIA 25-26 NOVEMBRE 1988 MILANOFIORI
Relazione di Riccardo Terzi – Segretario generale aggiunto CGIL Lombardia
1) La decisione di convocare l’Assemblea Regionale della CGIL, per discutere delle politiche regionali, venne presa qualche mese fa, nel Consiglio Generale di luglio.
Da allora molte cose sono mutate, nel panorama politico e in quello sindacale, rendendo più complessa e più impegnativa la discussione che dobbiamo fare in questa nostra assemblea.
Si è aperta la crisi della Giunta regionale, i cui sbocchi sembrano essere molto problematici ed incerti.
È una crisi che conferma, per molti aspetti, il nostro giudizio sull’esperienza regionale di questi ultimi anni, sull’offuscamento del ruolo politico della Regione, e che offre anche a noi e all’intero movimento sindacale l’occasione per intervenire nella vicenda politica, con l’autonomia di una proposta programmatica intorno alla quale sviluppare il più ampio confronto nella società e nelle istituzioni.
Vi è stata inoltre un’accelerazione del dibattito politico nella CGIL, che ha comportato anche la messa in questione degli assetti del gruppo dirigente.
Su tutto ciò, come è noto, discuterà e deciderà il Direttivo nazionale della CGIL di martedì prossimo, dopo la decisione del Segretario generale di rimettere il proprio mandato e dopo lo svolgimento di una procedura di consultazione individuale dei membri dell’organismo dirigente.
Siamo quindi a un passaggio estremamente delicato e critico nella vita della nostra organizzazione.
In relazione a questa nuova situazione che si è venuta determinando, abbiamo valutato l’opportunità di confermare o meno l’appuntamento, in questi giorni, dell’Assemblea regionale, e abbiamo ritenuto che fosse un nostro dovere mantenere gli impegni assunti. Il nostro lavoro non può e non deve essere paralizzato.
Questa Assemblea regionale può essere un momento utile e costruttivo di confronto sui contenuti della politica sindacale, in preparazione della conferenza programmatica nazionale, che deve essere confermata come prossimo impegnativo appuntamento e come punto d’arrivo del dibattito politico.
La CGIL della Lombardia a questo è interessata, a un confronto politico, a un lavoro collettivo di elaborazione e di ricerca.
Io mi auguro che in ciascuno di noi ci siano questa tensione e questo impegno, che dunque si sappia guardare con lucidità ai problemi che abbiamo di fronte, senza scadere nelle contrapposizioni personalistiche e senza immiserire la nostra discussione con spiegazioni di tipo giornalistico.
La nostra è una discussione vera, complicata e difficile, perché è profondo il travaglio dell’intero movimento sindacale, e non della sola CGIL, di fronte ai processi sociali in atto, all’offensiva dei gruppi dominanti, alla nuova e più complessa articolazione del mondo del lavoro.
2) Il senso politico di questa discussione si riassume in un interrogativo di fondo: come, su quali basi, con quale strategia, il sindacato può evitare il pericolo di essere relegato in un ruolo subalterno, corporativo, marginale, come recuperare in tutta la sua pienezza la nostra funzione di “soggetto politico”, quali contenuti dare, quindi, ad un progetto autonomo del movimento sindacale.
Le questioni del gruppo dirigente si intrecciano con questi interrogativi più di fondo.
La discussione va fatta “a tutto campo”; sulla linea politica, sul ruolo del sindacato confederale, sul funzionamento dell’organizzazione, sull’equilibrio del gruppo dirigente, che deve essere tale da poter garantire una libera dialettica pluralistica ed un’efficacia di sintesi politica e di direzione. Noi non pensiamo oggi di poter trattare un arco di questioni così vasto, ma certamente questo bisogno di discussione politica generale c’è, in tutto il corpo dell’organizzazione, e in tempi brevi, ravvicinati, a tale esigenza occorre dare degli sbocchi.
Proponiamo, perciò, che tutte le strutture della CGIL riuniscano nei prossimi giorni i propri organismi dirigenti e anche, in modo più largo, l’insieme del quadro attivo, per una discussione che potrà avere il suo momento conclusivo in una prossima e impegnativa riunione del Consiglio generale della CGIL lombarda al quale va affidato anche il compito di definire in via ultimativa, dopo il confronto di questi giorni, le proposte programmatiche della CGIL intorno alle questioni regionali.
Non è un espediente per sfuggire alla discussione, ma è una procedura che può garantire una discussione ampia, partecipata e responsabile. Ciascuno di noi, ovviamente, ha proprie personali posizioni e convincimenti, che ha tutto il diritto di far valere nelle sedi appropriate, in un confronto che presuppone il rispetto reciproco e la disponibilità di tutti a ragionare senza rigidità e senza faziosità.
Sarebbe bene che a queste regole di civiltà si attenesse ogni singolo compagno del gruppo dirigente, a partire dai vertici nazionali, i quali non hanno dato in questi mesi e non stanno tuttora dando quella prova di responsabilità e di misura che sarebbe necessaria.
Per questo, per consentire una ricerca costruttiva, la CGIL regionale ha evitato di assumere posizioni di parte, non ha chiesto pronunciamenti, non ha sollecitato prese di posizione, e anzi considera che sia un errore grave cadere in questa logica.
C’è qui, in Lombardia, un gruppo dirigente che non ha nessuna intenzione di logorarsi in una guerriglia intestina, che ritiene piuttosto di doversi impegnare sul terreno dell’iniziativa e della proposta, e che perciò assegna anche a questa assemblea l’obiettivo ambizioso di portare ad un livello più alto la nostra elaborazione, la nostra capacità di rispondere agli interrogativi che ci sono imposti dalla realtà, dalle sue trasformazioni, dai processi impetuosi di cambiamento che investono sia le condizioni oggettive sia i bisogni soggettivi dei lavoratori.
Se facciamo questo, diamo un contributo serio alla discussione nella CGIL e facciamo sì che la CGIL non si richiuda in se stessa, ma svolga un ruolo attivo nel confronto unitario con le altre organizzazioni sindacali, nel confronto politico e istituzionale.
Mi pare che debba essere sottolineato il fatto che, con questa nostra iniziativa, ci proponiamo un confronto aperto, e consideriamo pertanto le nostre elaborazioni, raccolte nei documenti, come un primo materiale su cui ulteriormente lavorare, sollecitando il contributo, anche critico, dei nostri interlocutori.
In modo particolare, è per noi essenziale la ricerca unitaria con CISL e UIL. Vediamo la complessità e anche le difficoltà di questo rapporto. Per questo non basta più oggi, nelle nuove condizioni, una riaffermazione puramente retorica del valore dell’unità, ma s’impone un confronto di merito più impegnativo, più serrato, il quale non esclude differenziazioni, non esclude anche momenti di scontro politico all’interno del movimento sindacale.
Ma da questa valutazione realistica della situazione attuale non discende, per noi, nessuna tendenza all’arroccamento, all’isolamento, all’autosufficienza. Tali tendenze debbono essere con grande forza contrastate.
D’altra parte, in Lombardia le condizioni di un lavoro unitario non sono mai venute meno. Ed è del tutto evidente che nel confronto con la Regione il movimento sindacale può pesare solo sulla base di una piattaforma unitaria. È questo il senso della nostra ricerca, ed è bene averlo chiaro per evitare fraintendimenti sia nella nostra discussione interna sia nei rapporti esterni
Ma l’esigenza del confronto ha dimensioni più ampie, riguarda il rapporto del sindacato con le diverse forme di espressione e di organizzazione della società civile, con i movimenti, con le competenze tecnico-scientifiche, con la cultura. Su molti terreni mi sembra possibile e necessario un rapporto di collaborazione tra il movimento sindacale e la cultura esterna. Dipende da noi sollecitarlo, costruirlo, cogliendo tutte le disponibilità ed evitando di restare vittime di un complesso di accerchiamento, come se ormai fosse compiuta nell’intera società italiana una stabilizzazione di segno conservatore.
Ciò vale anche per il mondo imprenditoriale, che non è tutto compatto e che nel suo rapporto con il sindacato presenta contraddizioni e posizioni diverse. Particolarmente qui in Lombardia le relazioni sindacali non sono state guidate dalla logica oltranzista alla Mortillaro, ma hanno tenuto conto più realisticamente della necessità di governare il conflitto sociale, come testimonia il grande numero di accordi sottoscritti, anche nel momento in cui ufficialmente la Confindustria escludeva ogni possibilità di contrattazione articolata.
Ci proponiamo pertanto di verificare in modo aperto tutte le diverse posizioni e proposte intorno ai nodi fondamentali che riguardano lo sviluppo della nostra regione, di individuare convergenze e dissensi, e di sviluppare, su questa base, una nostra specifica e concreta azione di contrattazione a livello di azienda e a livello territoriale.
3) La crisi politica che si è aperta nella Regione Lombardia costringe tutti a misurarsi, al di là della contingenza immediata, con i grandi nodi relativi al tipo di sviluppo, e a precisare i propri obiettivi strategici di lungo periodo.
Si tratta infatti di una crisi politica che è maturata intorno a questioni di fondo, che ha motivazioni sostanziali, e che difficilmente potrà essere ricomposta con un compromesso di superficie.
Sarebbe grave se alla fine tutto dovesse rientrare nell’ordinaria amministrazione con un accordo precario, di breve respiro, senza andare alla radice delle questioni politiche e senza compiere un bilancio critico dell’esperienza regionale degli ultimi anni.
Per questa via non si garantirebbe nessuna governabilità, ma si aprirebbe la strada ad un deterioramento ulteriore, a una più profonda crisi dell’istituto regionale.
Noi non intendiamo essere spettatori neutrali e non ci limitiamo a dire che si faccia comunque presto per poter avere un interlocutore.
Non entriamo ovviamente nel merito delle vicende strettamente politiche, non indichiamo formule di governo, ma sottolineiamo il fatto che è in questione non questa o quella formula politica, ma il ruolo dell’istituto regionale. In questo senso la crisi ha anche una dimensione istituzionale.
È giunto ad un punto di crisi tutto un ciclo dell’esperienza regionale. Si è progressivamente offuscato il ruolo autonomo della Regione nei suoi rapporti con lo Stato centrale, si è via via esaurita e immiserita quella concezione “alta” dell’autonomia regionale che aveva animato la discussione politica nella fase costituente.
Oggi la Regione funziona come sportello di spesa, come terminale burocratico dell’apparato centrale, in un rapporto subalterno con i vari Ministeri.
Valga come esempio il modo in cui la giunta regionale ha affrontato la vicenda della Valtellina, lasciando via libera ad una gestione tutta centralistica, e discrezionale, del Ministero della Protezione Civile, affidando ad una tecnostruttura nazionale dell’IRI il compito di riprogrammare l’assetto territoriale, rinunciando in sostanza alle proprie prerogative. E il risultato è un flusso di finanziamenti pubblici senza un disegno, senza una finalizzazione.
La Regione si deve qualificare come strumento di programmazione economica e di pianificazione territoriale. Ciò deve realizzarsi con la partecipazione democratica delle forze sociali e degli enti locali, ma la partecipazione non è confusione dei ruoli, non è permanente indeterminatezza circa le scelte, non è un alibi che possa giustificare la rinuncia ad una politica di piano e la tendenza ad una micro-contrattazione, al di fuori di ogni disegno generale.
La critica di fondo che noi rivolgiamo alla politica della Regione è di aver spostato il proprio ruolo dal terreno della programmazione a quello della gestione, dando così luogo ad un nuovo centralismo burocratico che ha distorto il rapporto tra Regione ed enti locali.
Anche il confronto con le parti sociali non si è sviluppato in misura sufficiente, ma è stato saltuario, episodico. Con il rinnovo del Protocollo tra la Giunta regionale e le segreterie regionali di CGIL-CISL-UIL abbiamo teso a definire regole e procedure impegnative. Si tratta ora di dare concretezza a questi impegni troppo spesso elusi, e anche di allargare il confronto all’intera istituzione regionale, che non si esaurisce nella Giunta, valorizzando il ruolo del Consiglio e dei gruppi consiliari.
Con la Giunta Tabacci tutti questi processi, già da tempo in atto, si sono accentuati, rendendo più visibile lo stato di crisi e di involuzione.
Per questo, la discussione e lo scontro politico che si sono aperti tra i partiti non si possono ridurre ad una delle tante competizioni di potere, ma toccano questioni essenziali, complesse, di non facile risoluzione.
La questione aperta è il ruolo della Regione il suo possibile rilancio. Per questo ci battiamo, “per un nuovo regionalismo”, come abbiamo scritto nella parola d’ordine della nostra assemblea.
Si incrociano qui tutti i problemi della riforma istituzionale. In un progetto di riforma che si muova con decisione nel senso del decentramento di poteri, vanno ridefiniti compiti, funzioni, risorse finanziane delle Regioni, e degli enti locali.
La centralizzazione provoca inefficienza, burocratizzazione, distacco degli apparati dello Stato rispetto alle esigenze reali della società. Se c’è un discredito dei servizi pubblici, e una tendenza a trovare la via d’uscita in una linea di privatizzazione, ciò dipende in primo luogo dalle disfunzioni che sono proprie di un meccanismo accentrato.
Per questo, la riforma istituzionale non può essere limitata alla revisione dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale, non può essere solo un’operazione di stabilizzazione del potere esecutivo, ma deve investire, nel suo insieme l’ordinamento politico, ponendo in modo nuovo la questione dei poteri decentrati, la cui vitalità è essenziale perché tutto l’ordinamento funzioni e sappia rispondere ai bisogni reali dei cittadini.
Se esplodono i localismi, se anche nella nostra regione assistiamo al fenomeno preoccupante ed avvilente di un lombardismo grossolano e qualunquista, ciò dipende anche dalla crisi del sistema delle autonomie locali, dal peso opprimente di uno statalismo accentratore, inefficiente e troppo spesso corrotto.
Occorre dunque restituire spazi all’autonomia regionale, il che comporta una revisione dei meccanismi di carattere finanziario che regolano il rapporto tra Stato e Regioni, allentando i vincoli rigidi entro i quali sono oggi costretti i governi regionali e gli Enti locali, e affrontando, nel quadro della necessaria riforma fiscale, il problema dell’autonomia impositiva, così da assicurare una solida base materiale su cui si possa esercitare pienamente la responsabilità dei poteri decentrati.
Altre proposte possono essere prese in considerazione, come quella di una riforma elettorale con l’istituzione di un unico collegio regionale così da favorire una rappresentanza politica meno condizionata dai localismi, e quella di una riforma del bicameralismo con la trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni, con il compito di armonizzare la legislazione nazionale con quella autonoma delle Regioni.
Così come, d’altra parte, resta di grande importanza per una realtà come la nostra la definizione del livello di governo per l’area metropolitana, non come livello aggiuntivo a quelli attuali, il che aumenterebbe la confusione e sovrapposizione dei ruoli, ma con un’opportuna trasformazione dell’Ente intermedio provinciale.
Ma non entro in modo più dettagliato in questo ordine di questioni, alle quali comunque il movimento sindacale deve prestare una grande attenzione, perché è nostro interesse vitale che la riforma dello Stato avvenga in un senso democratico, allargando gli spazi di partecipazione, la possibilità di controllo sociale, invertendo quindi la tendenza in atto ad un distacco tra società politica e società civile.
4) I problemi istituzionali assumono oggi un nuovo rilievo, in rapporto ai problemi di riorganizzazione e di concentrazione del potere economico e al rischio, quindi, di uno svuotamento delle istituzioni politiche e di una crisi della democrazia.
Sta cambiando, profondamente, la dislocazione dei poteri, con i processi di internazionalizzazione, con il crescente dominio dei grandi gruppi, con l’integrazione di attività industriale e attività finanziaria.
Tutto questo dà luogo ad una struttura di tipo oligarchico e pone problemi politici di tipo nuovo; politici perché non si tratta più solo di attività imprenditoriale, ma di un intervento su scala più vasta, che investe l’organizzazione sociale, l’informazione, il territorio, di un tentativo forte di egemonia dei grandi gruppi capitalistici.
La Lombardia è al centro di questi processi. Qui si gioca una partita politica che sarà decisiva per le sorti future del paese.
Qui si pongono quindi, in tutta la loro pregnanza, tutti i nodi della democrazia economica: la legislazione anti-trust, il rapporto pubblico-privato, il ruolo del sistema delle PP.SS., gli strumenti della programmazione. In questi anni c’è stato un arretramento, con il prevalere sul piano politico e culturale di posizioni neo-liberistiche, con il ridimensionamento del ruolo delle PP.SS., che proprio in Lombardia hanno avuto un loro essenziale punto di forza, con la rinuncia ad una politica di piano, col risultato che sempre più nettamente si sono spostate le sedi decisionali a vantaggio dei grandi gruppi privati.
Nella prospettiva del ‘92 gli effetti di questa tendenza possono essere ancora più devastanti. Ciò chiama in causa le responsabilità politiche, dello Stato e della Regione. Occorre una strategia internazionale dell’Italia per guidare il processo di integrazione economica, e in questo senso noi riteniamo che l’obiettivo strategico principale delle PP.SS., una volta compiuta l’azione di ristrutturazione e di risanamento, sia quello di realizzare una presenza attiva nei processi di internazionalizzazione su scala europea e nazionale; che più in generale la sfida europea comporta, in tutti i settori dello Stato, della pubblica amministrazione, dei servizi, un deciso salto sotto il profilo dell’efficienza, del dinamismo, della competitività, della chiarezza ed efficacia degli obiettivi strategici.
Dobbiamo toglierci di dosso tutto il peso delle vecchie incrostazioni burocratiche, dello spirito di routine, di conservazione, di accomodamento. E ciò pone anche al sindacato, ai lavoratori del settore pubblico, problemi nuovi che dobbiamo saper affrontare con coraggio.
Non possiamo sottrarci all’esigenza di un processo di modernizzazione. Il nostro ruolo non può essere rafforzato con una logica di difesa corporativa, ma ponendo al centro la necessità di una riforma della pubblica amministrazione, che valorizzi la responsabilità e la professionalità dei lavoratori. Altrimenti saremmo corresponsabili del degrado delle istituzioni politiche.
Riproporre oggi, con determinazione, l’esigenza di una programmazione, di un governo democratico dello sviluppo, non significa ricadere in vecchie concezioni dirigistiche o statalistiche, o in una posizione manichea di contrapposizione del pubblico al privato. Nulla di tutto ciò.
Ma si pone, non in termini ideologici ed astratti, ma alla luce dell’esperienza concreta, l’esigenza di armonizzare lo sviluppo al raggiungimento di obiettivi sociali; si pone in Italia, come in tutti i paesi industriali sviluppati, il problema dei fini e della qualità dello sviluppo, e quindi di un controllo democratico, di un equilibrio socialmente accettabile tra dinamica spontanea del mercato e regolazione politica. È il problema di tutta la sinistra europea, della sinistra politica e della sinistra sociale, se ancora è consentito usare questi vecchi concetti.
Nel momento in cui assumiamo come necessario il processo di modernizzazione, dobbiamo però intenderlo non come un processo neutro, oggettivo, deterministico, ma come un campo aperto a diverse opzioni possibili, dove il discrimine dello scontro politico è dato da una diversa scelta dei valori. Quale sviluppo: è questo il terreno su cui oggi è necessario pronunciarsi. Se c’è nella nostra cultura e nella nostra tradizione qualcosa d’arcaico, esso sta nell’idea di un progresso lineare, ininterrotto, misurato dagli indici della crescita quantitativa, sta nel produttivismo e nell’industrialismo, che entrano oggi sempre più in contraddizione coi nuovi livelli di coscienza, con la percezione, che avviene a livello di massa, dei problemi relativi alla qualità dello sviluppo e dell’organizzazione sociale.
Per queste ragioni dobbiamo saper guardare criticamente alla situazione economica e sociale della Lombardia, vedendo le contraddizioni e le strozzature che debbono essere superate. In primo luogo resta tutta aperta, irrisolta, la contraddizione tra Nord e Sud, lo squilibrio crescente nei ritmi dello sviluppo e nella qualità complessiva dell’organizzazione sociale.
Non è solo una questione di giustizia, di solidarietà. Ma è una contraddizione che genera anche nelle regioni sviluppate gravi effetti negativi, i quali rischiano di essere ulteriormente alimentati nei prossimi anni.
Già siamo a un punto estremamente critico, dal punto di vista dell’equilibrio ambientale e territoriale, per la concentrazione dell’attività industriale, per i processi avvenuti nei grandi centri urbani, per un tipo di sviluppo i cui ritmi sono stati forzati senza armonizzarli con le esigenze sociali. La Lombardia non potrebbe sopportare un’ulteriore spinta in questa direzione, con la conseguenza di una possibile ulteriore ondata migratoria e di una definitiva e non reversibile rottura dell’equilibrio ambientale.
Ecco perché il “lombardismo”, l’efficientismo ambrosiano, l’esaltazione dello sviluppo fine a se stesso, sono posizioni cieche. La Lombardia deve definire i propri obiettivi e la propria funzione tenendo conto dell’equilibrio complessivo del paese, e guardando oltre i propri confini, ricercando rapporti più stretti di collaborazione con altre regioni per affrontare problemi che sono comuni.
Sui temi dell’ambiente, delle infrastrutture, dei trasporti, occorre un disegno coordinato fra tutte le regioni dell’area padana, per conseguire un utilizzo ottimale delle risorse, per non duplicare funzioni, per impostare in modo convergente un’azione di risanamento.
La gravissima emergenza ecologica è la prova più evidente della necessità di un controllo, di un governo dello sviluppo.
Ora finalmente, dopo anni di irresponsabile sottovalutazione, comincia a delinearsi una politica per l’ambiente e cominciano ad essere approntati i primi essenziali strumenti (la direttiva Seveso, la valutazione di impatto ambientale, una prima legislazione per i rifiuti).
Comincia ad esserci anche nel mondo imprenditoriale una più attenta sensibilità, e possiamo perciò proporci di dar vita ad una vasta iniziativa che coinvolga e responsabilizzi tutti i diversi soggetti interessati.
Ma è necessaria, al di là di questi primi parziali sintomi di un mutamento di clima, una più netta svolta negli indirizzi di fondo della politica economica, considerando l’esigenza di tutela ambientale come elemento costitutivo di una nuova strategia, come un vincolo. Il che comporta un intervento sui processi produttivi, sulle tecnologie, sulle strategie di impresa, e non solo un intervento volto a sanare gli effetti negativi di un tipo di sviluppo industriale che viene assunto come un dato non modificabile. Tutta la discussione sull’energia e sul nucleare metteva in questione questo ordine di problemi, ed è tuttora decisivo, per noi, un indirizzo fortemente innovativo della politica energetica, che metta in primo piano i problemi della sicurezza e della compatibilità ambientale.
Un altro fondamentale capitolo in cui si articola il tema della qualità dello sviluppo è quello che riguarda i diritti di cittadinanza, nel lavoro e nella società.
Anche sotto questo profilo sono evidenti le contraddizioni dello sviluppo in atto; tra un livello alto di benessere diffuso e l’esistenza di aree di emarginazione sociale: e all’interno del mondo del lavoro la diversità di tutela e di opportunità tra gli uomini e le donne, tra la grande e la piccola impresa. È evidente il rischio di una rottura del tessuto di solidarietà, di una corporativizzazione che accentua le disparità sociali.
Nuovi temi, dunque, assumono oggi un grande rilievo politico, come quello degli anziani, delle periferie urbane, della droga. Alla luce di queste nuove esigenze va reimpostata tutta la politica sociale.
5) La CGIL concordando con la posizione della confederazione europea dei sindacati, condivide l’obiettivo del mercato unico europeo, e insieme sottolinea che non ci si può fermare alla pura liberalizzazione dei mercati, ma occorre costruire uno spazio sociale comunitario, fondato su una strategia di cooperazione, che garantisca il massimo di coesione economica e sociale. Libertà di circolazione delle persone, delle merci e dei capitali, quindi; ma anche diritti di cittadinanza, tutela ed ampliamento delle conquiste, armonizzazione sia pur graduale dei sistemi di protezione sociale ai livelli più elevati.
La Lombardia si trova, al pari di altre regioni europee, nella necessità di assumere il ruolo di area leader nel contesto nazionale.
Non può presumere di andare da sola in Europa; ma difficilmente l’Italia starà dignitosamente nel contesto europeo senza il ruolo determinante della Lombardia.
Proprio per la sua specificità la Lombardia deve, nel breve e medio periodo, riattrezzarsi per far fronte ai nuovi flussi economici. Da qui la necessità in primo luogo di portare a compimento, in tempi non storici, i grandi progetti sulla mobilità: la riqualificazione degli aeroporti, le grandi opere ferroviarie, la realizzazione del tessuto connettivo delineato dal piano regionale dei trasporti, l’individuazione definitiva dell’opzione sui transiti alpini.
Da qui anche la necessità di un impegno di orientamento dello sforzo che piccole e grandi aziende stanno compiendo per la modernizzazione e la razionalizzazione degli impianti produttivi e distributivi.
Da qui infine discende la necessità di un protagonismo nel settore dell’informatizzazione e della ricerca, senza il quale l’Europa si allontana e la scadenza del ‘92 diviene occasione per pure esercitazioni verbali. Chiediamo pertanto alla Regione che predisponga un coordinamento di tutte le iniziative indispensabili per preparare al meglio l’approccio al mercato unico europeo e che in questo senso adegui il suo funzionamento operativo ed istituzionale.
6) Mi sembrano a questo punto sufficientemente delineati i nostri orientamenti generali e posso rinviare, per il resto, alle considerazioni più puntuali contenute nei documenti.
Il senso politico complessivo della scelta che intendiamo fare con questa Assemblea Regionale della CGIL è nella convinzione che il movimento sindacale debba riaffermarsi a pieno titolo come “soggetto politico”, il che comporta la necessità di riappropriarsi a tutto campo delle questioni politiche, istituzionali, economiche e sociali. Là dove il sindacato è riuscito unitariamente a compiere questo salto di qualità, come è avvenuto con la proposta di riforma del fisco, esso ha ritrovato la propria capacità di mobilitazione ed ha allargato l’area del proprio consenso.
È questo il modo per uscire dalla crisi, con una più alta ambizione progettuale e politica, con una riconquista dell’autonomia, la quale è possibile in quanto sappiamo dare risposte ai problemi della società e sappiamo indicare le linee di un programma, non in astratto, ma come frutto di una maturazione democratica, di un rapporto concreto con i lavoratori, di un consenso sociale verificato.
È così che possiamo intervenire anche nella vicenda della crisi regionale, in un confronto che riguarda sia gli orientamenti di più lunga scadenza sia gli obiettivi a breve termine, il programma di fine legislatura.
Sottolineiamo, a questo proposito, alcune questioni che ci sembrano essere indicative della svolta che è necessaria attuare negli indirizzi della politica regionale.
- a) L’assunzione del vincolo di compatibilità ambientale come fattore discriminante su cui misurare tutte le scelte di sviluppo.
- b) Un impegno propositivo della Regione nelle scelte di politica economica e di politica industriale, con un’inversione netta della tendenza, praticata in questi anni, ad un assecondamento passivo delle decisioni assunte dai grandi gruppi industriali e finanziari.
Politiche settoriali, interventi territoriali e infrastrutturali per sorreggere la competitività dell’economia regionale e per recuperare un equilibrio tra le diverse aree, politiche del lavoro, con particolare attenzione alla formazione e alla riqualificazione professionale e alla protezione delle fasce deboli del mercato del lavoro: si tratta di aspetti tra loro connessi, tali quindi da richiedere una politica di tipo programmatorio e uno stretto coordinamento tra i diversi interventi.
- c) Avvio di una revisione della legislazione urbanistica e messa a punto del progetto di legge per i piani integrati di area, come primo momento di una politica territoriale di tipo nuovo, che consenta di guidare i processi di trasformazione in corso, e di finalizzare l’utilizzo delle aree disponibili.
- d) Riqualificazione del servizio sanitario con la predisposizione di un piano regionale che sia orientato allo sviluppo della prevenzione e attuazione del piano socio-assistenziale e del “progetto anziani”.
- e) Rinegoziazione con il Governo del decreto riguardante il risanamento dei bacini Lambro, Seveso e Olona, per modificarne l’impostazione centralistica, per recuperare il ruolo dell’istituzione politica regionale e per un più corretto coinvolgimento del mondo imprenditoriale nelle sue diverse articolazioni.
- f) Riesame e riorganizzazione del sistema delle società partecipate, con una più rigorosa definizione degli obiettivi e delle procedure di controllo. Particolare urgenza ha la definizione di una precisa posizione della giunta regionale circa il ruolo della Finlombarda, della FNM e della SEA, dato il ruolo strategico di queste società.
- g) Una politica di bilancio che riequilibri il rapporto tra spese correnti e spese di investimento, che è oggi di 3 a 1, e rigorosa applicazione, nella definizione delle scelte di investimento, delle procedure di consultazione con le organizzazioni sindacali previste dal Protocollo.
Possono bastare per ora questi accenni schematici. Con CISL e UIL cercheremo di definire in modo più puntuale una posizione comune, una piattaforma di fine legislatura da presentare alle forze politiche e su cui avviare il confronto con la nuova giunta regionale.
7) Può sembrare, questa, una relazione troppo “politica”, che travalica i compiti più circoscritti dell’iniziativa sindacale. Non credo che sia così, e ritengo necessario definire un impianto politico e programmatico capace di sorreggere la contrattazione sindacale decentrata, ritengo che nell’insieme della nostra organizzazione ci sia bisogno, proprio al fine di rimotivare l’azione concreta e di definire con più chiarezza la nostra identità, di analizzare lo scenario, il quadro generale entro cui operiamo, di capire le tendenze di fondo e il ruolo che, entro questo ambito più vasto, il sindacato si propone di svolgere.
Una volta che queste premesse siano chiare, sarà più agevole individuare i punti concreti di attacco, i passaggi, le forme possibili di contrattazione con tutti i diversi interlocutori, istituzionali e sociali.
Nei singoli territori dovremo costruire vertenze, con precisi obiettivi e con precise controparti. Non servono piattaforme omnicomprensive. Serve un’azione più concreta, circoscritta, che di volta in volta sceglie i risultati conseguibili e li misura, in un processo che è di lunga durata, perché riguarda una pluralità di interlocutori e chiama in causa responsabilità politiche a diversi livelli.
La contrattazione territoriale si configura così come un lavoro permanente, che richiede duttilità, capacità di sfruttare tutte le convergenze possibili e tutte le situazioni favorevoli, capacità di un continuo aggiornamento della nostra analisi. Il tutto dentro un quadro di riferimento generale, che però deve articolarsi, deve produrre movimenti reali e vertenzialità concreta.
D’altra parte la Lombardia ha un patrimonio grande di capacità contrattuale.
Dopo il rinnovo dei contratti nazionali, possiamo valutare per difetto circa 2.500 accordi aziendali, sottoscritti unitariamente, che interessano almeno mezzo milione di lavoratori dell’industria, del terziario privato e della pubblica amministrazione.
La scelta, su cui abbiamo puntato, della contrattazione articolata non è rimasta nei documenti, ma si è tradotta in realtà. Ed è una scelta che noi consideriamo strategica, perché solo scegliendo come baricentro l’impresa, il luogo di lavoro, e, per le piccole imprese, l’area territoriale, possiamo da un lato realizzare un reale rapporto democratico con i lavoratori, e possiamo d’altro lato essere un sindacato “moderno”, che si occupa dei processi di innovazione, delle nuove forme di organizzazione del lavoro, della professionalità, del rapporto tra produzione e ambiente, in un rapporto con le imprese che è certo conflittuale, perché, come ci insegnano i teorici della democrazia politica, il conflitto è l’anima della democrazia, ma che può dar luogo -così almeno noi auspichiamo -a un sistema di relazioni non di tipo distruttivo, nel quale le parti riconoscono la necessità di un “governo” del conflitto e ricercano la possibilità di un consenso o meglio di una mediazione dinamica che di volta in volta rappresenti un equilibrio accettabile per le parti in causa.
Questi risultati, significativi dal punto di vista quantitativo, segnano anche, sia pure ancora con molti limiti e difficoltà, un primo tentativo di intervento su alcuni aspetti innovativi, dai quali dipende la qualità e il valore della contrattazione: l’ambiente, l’organizzazione del lavoro, il sistema flessibile degli orari, la professionalità, mentre il limite maggiore che va registrato è la scarsissima traduzione in azione contrattata della tematica delle “pari opportunità” per le donne lavoratrici. È quindi un quadro complesso, differenziato, sul quale dovremo più ampiamente far intervenire la nostra analisi e la nostra riflessione.
Questi dati della Lombardia dimostrano anche l’esistenza, nell’imprenditoria lombarda, di un approccio più pragmatico e più realistico non solo da parte delle singole imprese, ma anche delle stesse associazioni.
Anche nel settore dell’artigianato, dove sono tradizionalmente più arretrate le relazioni sindacali, si è conseguito un importante accordo che ha consentito il varo dell’ente bilaterale regionale.
Mentre nella discussione politica l’attenzione era concentrata sui modelli contrapposti del Protocollo IRI e della Federmeccanica, la realtà, almeno qui in Lombardia, procedeva in tutt’altra direzione.
Il Protocollo IRI non è decollato, e mancano in generale intese significative per la definizione di un nuovo regime di relazioni industriali.
Ma non è passata neppure la linea del rifiuto pregiudiziale alla contrattazione articolata propugnato dalla Confindustria. C’è dunque un equilibrio ancora fragile, che ci ha consentito di utilizzare alcuni spazi, ma senza riuscire a ridefinire un quadro più saldo di relazioni.
In questo senso è per noi un terreno fondamentale di iniziativa quello riguardante il “modello contrattuale”, su cui dovremo decidere con chiarezza una posizione della CGIL, valutando le proposte fin qui maturate nel dibattito di alcuni sindacati di categoria.
Ed occorre infine dare con forza una risposta politica molto ferma alla minaccia della Confindustria di estendere la pratica degli accordi separati.
Su questo punto non consentiremo a nessuno di giocare impunemente col fuoco. La CGIL non è in Lombardia, né altrove, una realtà da cui si possa prescindere. Nessuno si illuda quindi di poter far affidamento in un nostro atteggiamento remissivo o rinunciatario, magari con il pretesto della difficile discussione politica che è aperta nella CGIL.
Questa discussione la stiamo facendo per recuperare, al più presto, forza di iniziativa, per poter giocare con determinazione tutte le nostre carte sulla scena attuale.
C’è una violenta e spregiudicata campagna politica e giornalistica, che si basa sull’assunto della CGIL come un vecchio e arrugginito treno in ritardo sui tempi della storia, appesantito dalla sua tradizione, dalla sua ideologia vetusta, dalla sua assurda pretesa di continuare ad essere un’organizzazione sindacale che non si adatta alla situazione, che vede criticamente le cose, che si interroga, che cerca le vie, certo difficili, di uno sviluppo qualitativamente superiore.
Vorrebbero tagliare le nostre radici, o spingerci in una posizione impotente e nostalgica. Noi non cadremo in queste trappole.
Discutiamo per capire il nuovo e per andare avanti, restando fedeli ai nostri valori di fondo, ma sapendo che essi vanno riplasmati, innovati, messi a contatto con la realtà che cambia. Da questa discussione, che ci appassiona, che tocca in profondità i nostri sentimenti e la nostra ragione, non usciremo indeboliti o sconfitti.
Ci sono, io credo, le condizioni per compiere un reale passo in avanti, per giungere, insieme, ad una più chiara visione degli obiettivi strategici della CGIL e del movimento sindacale
A questo lavoriamo. A questo tutti dobbiamo lavorare.
Busta: 1
Estremi cronologici: 1988, 25-26 novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nota settimanale della CGIL Lombardia”, n. 41, 5 dicembre 1988, pp. 1-8