CONGRESSO REGIONALE DELLA CGIL LOMBARDIA

Intervento di Riccardo Terzi

Dalla CGIL della Lombardia si può pretendere una prova di autonomia, come è nella sua tradizione, ci si può attendere cioè quello sforzo serio di riflessione che è indispensabile per cogliere appieno la natura del processo sociale ed economico che è il motore di sconvolgenti cambiamenti, anche di carattere politico, e che ha qui, nella Lombardia e nel Nord, il suo epicentro.

Il Congresso non è un rituale statistico, con il quale si ridistribuiscono le quote azionarie dentro l’organizzazione, ma è l’occasione per una ricerca che impegna ciascuno di noi nella sua personale responsabilità. Altrimenti rischiamo anche noi di scrivere un capitolo del libro che Bruno Manghi ha dedicato al “tempo perso”.

E il contesto sociale nel quale ci troviamo contiene in sé un elemento di sfida al sindacato, e ci costringe ad una coraggiosa innovazione politica e organizzativa. In questo senso parlo di “autonomia”, non per un’autodifesa burocratica, ma perché spetta a noi un compito di ricognizione della realtà e di concreta sperimentazione che non possiamo delegare ad altri e che non può essere risolto per via gerarchica, con la trasmissione di direttive dall’alto verso il basso.

L’autonomia comporta anche la costruzione di un gruppo dirigente capace di esprimere, al livello più alto possibile, il nostro pluralismo interno, creando le condizioni perché sia valorizzato lo spirito di iniziativa e non lo spirito gregario. Agostinelli va aiutato e sostenuto in questa difficile costruzione.

Abbiamo bisogno – io credo – di un’analisi fredda ed oggettiva della realtà, di un metodo di grande realismo, per non restare invischiati in costruzioni ideologiche o in volontarismi astratti che ci portano fuori strada. E il volto della realtà è un volto aspro, duro, essendo entrati in una fase di competizione globale che mette a dura prova tutti gli elementi di coesione sociale e che rende incerti e problematici i diritti fondamentali di cittadinanza.

Le nostre attuali difficoltà, e gli arretramenti che in alcuni campi abbiamo dovuto subire, si spiegano così, con la forza di processi oggettivi che hanno spiazzato il sindacato nel suo insediamento e nei suoi tradizionali punti di forza.

Non si spiega nulla, invece, con la teoria del cedimento e dell’opportunismo dei gruppi dirigenti, la quale serve solo ad animare un’inutile guerra per bande dentro l’organizzazione.

Dobbiamo ricostruire una politica sindacale capace di rispondere alle sfide di questa epoca di cambiamento, ridefinire quindi le forme e i contenuti del nostro rapporto con i lavoratori, il che vuoi dire anzitutto ricominciare con uno studio serio dell’attuale realtà produttiva, delle sue trasformazioni tecnologiche e organizzative e degli effetti che tutto ciò produce sul sistema sociale complessivo. Quando si lamenta, come spesso facciamo, uno scarto tra le parole scritte nei documenti e la prassi reale, ciò è un segno dell’inadeguatezza della teoria, e non si mette ordine nel nostro lavoro concreto se prima non si rimette ordine nelle idee.

Nella moderna società competitiva – dove l’assillo della competitività investe tutte le sfere della vita e dove tutto viene adattato e funzionalizzato alla variabilità del mercato e delle sue domande – la contraddizione sociale non sta più soltanto, e principalmente, nel luogo di produzione, ma si diffonde e si allarga nell’organizzazione sociale complessiva. Per questo è oggi insufficiente una tradizionale posizione “di classe”, tutta concentrata nel conflitto industriale di fabbrica.

Non riusciamo oggi a rappresentare il mondo del lavoro, a dare voce politica alle sue domande, a entrare in una comunicazione reale con i lavoratori, se non prendiamo in considerazione tutti gli elementi della loro condizione, come cittadini, come membri di una comunità, come portatori di bisogni sociali complessi, se non interveniamo sui processi di esclusione sociale e sugli infiniti meccanismi di alienazione e di frustrazione, nel rapporto con lo Stato e con le strutture pubbliche, nella qualità della condizione urbana, il che significa la necessità di uno straordinario allargamento di orizzonte dell’iniziativa sindacale.

Anche per questo si spiega che, in carenza di risposte politiche forti e convincenti, molti lavoratori cerchino di risolvere nella Lega i loro problemi di identità e di cittadinanza sociale.

La Lega offre un surrogato ideologico, un mito di rigenerazione, e i miti sono forti quanto più sono deboli e frantumati i soggetti sociali.

Si può dire che questo è un problema di cui si deve incaricare la politica. Ma oggi non mi sembra proprio possibile fissare una linea di demarcazione tra la sfera del sociale e quella del politico, e pensare che la nostra autonomia consista nello stare rinchiusi dentro una nicchia protetta. La modernizzazione ci chiama in causa e ci sfida apertamente. Non c’è più spazio per tattiche difensive.

I grandi nodi strategici che dobbiamo affrontare hanno tutti una grandissima valenza politica: sono i nodi dello stato sociale, del fisco, della pubblica amministrazione, delle politiche per il lavoro.

L’autonomia del sindacato non esiste se non abbiamo una nostra capacità di proposta su tutti questi terreni, se non riconosciamo esplicitamente la politicità dell’agire sindacale, la quale consiste appunto nel fatto che non deleghiamo a nessun altro la rappresentanza sociale del lavoro. Il contributo maggiore che il sindacato può dare alla vita democratica del paese, in questa fase di difficile e ancora incerta transizione, consiste nel far valere pienamente le proprie ragioni, su tutti i terreni, in un rapporto limpido e non subalterno con gli interlocutori politici ed istituzionali.

Nel momento in cui il conflitto è socialmente diffuso ed investe direttamente la sfera della politica, il territorio diventa il nuovo baricentro di una strategia sindacale, perché è appunto nella progettazione strategica di un determinato sistema territoriale che possono trovare risposta e sintesi i diversi problemi sociali di cui si compone un mondo del lavoro differenziato e spesso frantumato.

C’è un movimento in atto, verso l’affermazione di forme di autogoverno dei sistemi locali, per spezzare le rigidità burocratiche di un modello centralistico ormai impotente a governare i processi reali. Questo movimento prende il nome del federalismo, ed esprime una domanda assai impegnativa di riforma dell’ordinamento statale, di riforma dell’amministrazione per conseguire risultati sia di trasparenza democratica sia di efficienza.

Il sindacato deve essere un attore e un protagonista di tale processo e anche necessariamente, se vogliamo essere coerenti con le nostre stesse analisi, ripensare se stesso e le sue forme organizzative. Il federalismo non può essere solo un fatto istituzionale: se non è la società civile che si muove e si riorganizza, e comincia a sperimentare nuove forme di organizzazione, le riforme istituzionali rischiano di non venire mai, o di venire già compromesse per un difetto ingenito di burocratizzazione. Contrariamente ad una opinione diffusa nel sindacato, io penso che il federalismo sia in primis un fatto sociale, una conquista che dipende dall’iniziativa e dal coraggio innovativo delle forze sociali, le quali così possono sollecitare i cambiamenti istituzionali e contribuire alla loro realizzazione.

Anche per questo, penso che una struttura regionale come quella della Lombardia sia in una posizione strategica, e che la sua autonomia sia una risorsa decisiva.

Il nostro compito, qui, in uno dei punti alti della modernizzazione capitalistica, è quello, detto con una formula un po’ drastica, di inventare il nuovo sindacato: di ridefinire il nostro insediamento sociale, di fare i conti con la diffusione della piccola impresa e del lavoro autonomo, di attuare nuove forme organizzative per i soggetti sociali che attualmente nessuno organizza, e, soprattutto, di dare al sindacato un’anima, un’identità, un insieme forte di motivazioni, per non restare schiacciati nella morsa dei particolarismi e dei localismi.

Mi sembrano indispensabili, per questo, misure organizzative radicalmente nuove, per costruire una rete diffusa sul territorio, per spostare il cuore dell’organizzazione sempre più nelle trincee più difficili, più esposte, là dove si mette in gioco il nostro rapporto reale con i lavoratori.

Oggi non è così: abbiamo uno stato maggiore abnorme, di generali, di colonnelli, di tenenti, lungo una struttura che esaspera gli elementi della gerarchia, mentre non abbiamo forze e risorse sufficienti là dove si tratta di costruire e di inventare il sindacato. Proviamo a rovesciare questa piramide. Una rivoluzione organizzativa di questa natura può – io credo – rimotivare i nostri quadri, restituire loro un obiettivo, una ragione di impegno, e può soprattutto esercitare una nuova forza di attrazione verso quell’area giovanile che ci vede come un’organizzazione lontana, incapace di parlare il linguaggio della realtà. Senza ricambio generazionale non c’è organizzazione che possa mantenere la sua vitalità.

C’è una conclusione assolutamente logica e necessaria: l’unità sindacale. Un sindacato che assume le sue responsabilità politiche, e che proprio per questo vuole rafforzare le sue radici nella realtà sociale del lavoro, in un rapporto di trasparenza democratica con i lavoratori, non può che scommettere sull’unità, perché è l’unità la molla che può far scattare un nuovo rapporto di fiducia con i lavoratori.

Altrimenti, ciascuno finisce per restare prigioniero di vecchie logiche, di vecchie appartenenze ormai superate.

Quale è, allora, il senso di questo Congresso?

Dobbiamo rispondere con chiarezza e assumerci le responsabilità necessarie. Sull’unità, come progetto per l’oggi, non abbiamo fatto chiarezza, e ci siamo accontentati di formule ancora troppo ambigue. Nell’illusione, forse, che sarà il corso reale a risolvere i nostri dilemmi. Ma il corso delle cose dipende, anche, da quello che decidiamo di fare noi, e se noi restiamo fermi, in attesa di tempi migliori, è quasi certo che i tempi migliori non verranno, e che saranno altri ad imporre il loro sigillo sulla realtà.


Numero progressivo: A28
Busta: 1
Estremi cronologici: [1995?]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -