DI LIDIA CAMPAGNANO

Intervento in occasione del convegno “Riccardo Terzi. Sindacalista e politico tra teoria e prassi” svoltosi nella Camera del Lavoro di Milano il 15 ottobre 2019, promossa dalla C.d.L.M., dalla Fondazione Di Vittorio e dal Gruppo di Lavoro Riccardo Terzi.

Può essere utile chiedersi che cosa si prova a raccogliere una biografia – la biografia di Riccardo Terzi. La bio-grafia dovrebbe essere ciò che una vita lascia dietro di sé: segni, dunque anche grafie, scrittura. Segni che, legati in racconto, vogliono continuare quella ricerca di senso che una vita può rappresentare. Segni del passato che si portano nel presente perché vadano nel futuro. Nel desiderio di continuare a esserci, o di portare dal presente al futuro una persona che non c’è più e di continuare a coltivare i legami, le relazioni che pure fanno il senso di una vita.

Che cosa prova per esempio una donna, una ex militante comunista e per giunta femminista, perennemente ispirata da biografie come questa di Riccardo. E perennemente in tensione con le medesime. Ma questa sarebbe un’altra storia.

Dunque la biografia ha a che fare con desideri, passioni, speranze. Con i casi della vita e con i progetti.

Qui però si tratta della biografia di un comunista. E il comunismo come da molti e da molte è (stato?) inteso è la pretesa di restituire ai diseredati, agli sfruttati, il diritto alla propria biografia, individuale quanto relazionale (collettiva), cioè il diritto alla ricerca del senso della vita e delle vite, ricerca ininterrotta che richiede tempi, spazi, relazioni, cultura. Si può intendere così, attraverso questa aspirazione a tempi, spazio e cultura adeguata, il senso della famosa espressione che nomina “il proletariato erede della filosofia classica tedesca”.

Il comunismo è stato questo ideale, questo compito autoassegnato. Ideale tenuto in vita o forse riportato in vita nel dopoguerra, e precisamente dalla generazione di Riccardo, una generazione che ha subìto la guerra nell’infanzia riportandone dolore e terrore forse prevalentemente non detti, rimossi. Come una traversata nel deserto di qualunque possibile senso umano delle vite e del mondo, dopo gli orrori del colonialismo e di Auschwitz.

Impresa grande e difficile, rianimare quella speranza: un dopoguerra di balli e di amori, ma anche di progettazione, di costruzione: Pace, Pane, Lavoro e Libertà.

Un’impresa e una generazione da raccontare a quegli incauti parlamentari europei che recentemente hanno “deliberato”, per così dire, una sciagurata omologazione tra comunismo e nazifascismo.

Una generazione che leggeva molto (lo so, li avevo in casa, fratello e sorella maggiori): dai Quaderni di Gramsci ai molti romanzi sulla Resistenza. E forse dalle biografie dei ragazzini che avevano fatto la Resistenza la generazione comunista di Riccardo imparò soprattutto un criterio di crescita: un immediato essere adulti e adulte misurandosi con due dimensioni: la dimensione della Storia e la dimensione del Mondo. Si può dire male o sorridere di tutto, dell’internazionalismo e delle semplificazioni in nome della classe e delle diatribe tra materialismo dialettico e materialismo storico, ma crescere e giocarsi tra quelle due dimensioni non è stata (e non sarà mai) impresa di poco conto o di poco significato storico.

Ma il militante comunista non intendeva in nessun modo sciogliere il nodo che lega teoria e prassi e dunque era tenuto a pensare e fare organizzazione, a dire come si può dare seguito e concretezza all’ideale, come lo si incarna. E soprattutto, alle pratiche di trasformazione della massa (parola che può essere minacciosa) in soggetto collettivo capace di esperienza democratica, di azione efficace, di lotta, e di parola comunicativa ed educativa.

Ai problemi dell’organizzare, alle relazioni politiche, alle istituzioni che cristallizzano le relazioni sociali Riccardo ha dedicato una grande cura: non c’è traccia di retorica, di sentimentalismi, di artifici oratori nel ricco materiale del suo archivio. C’è invece la traccia di un grande lavoro culturale, profondo e accurato. Mi ha fatto pensare alla sua passione musicale, alla musica con i suoi accordi e discordi, con l’armonia e il contrappunto, gli assolo e le sinfonie (Riccardo un po’ come il Barenboim di La musica sveglia il tempo). Cura del linguaggio, cura delle relazioni politiche, delle istituzioni come tramiti e cristallizzazioni delle relazioni sociali: perché così si rende possibile e si sostanzia una “grande esperienza democratica di massa”: sono parole sue, e sono parole chiave, la sua risposta a Bertinotti che affermava di contare sulla rivolta.

Questo tipo di militanza comunista era un’attività divorante, senza riserve, molto esposta: a errori e perfino alla perdita di sé, non per caso criticata a fondo dal femminismo che ne scopriva vuoti, rimozioni e sofferenze. Ma trattandosi di una ricerca di senso per sé e per tutti (e idealmente tutte) quell’esperienza continua a interrogarci e a chiedere nuove risposte.

Che non ci saranno senza un rinnovato dialogo, nel presente, con biografie come questa. Il dialogo: un’altra parola-chiave nel ragionare di Riccardo. Che si è soffermato sul concetto stesso di dialogo, dialogando con pensatori e pensieri di grande rilievo, in particolare con François Jullien e per suo tramite col taoismo. Ed è illuminante, anche in proposito, la sua pratica sindacale nel sindacato pensionati della CGIL: convegni di altissimo livello, proposte culturali di assoluta modernità, una concezione della senectute come età di un possibile dialogo privilegiato con le persone giovani – e su che cosa, se non sul senso della vita, sulla memoria come impulso di speranza, su quel ricercare ininterrotto che permette e promette di stare nella Storia e nel Mondo – salvando, se possibile, l’una e l’altro.

Di nuovo, una “grande esperienza democratica di massa”. Pratica e teorica. Filosofica e politica.

Lidia Campagnano. Milano, 24 ottobre 2019