DI FRANCESCO GARIBALDO

Direttore Fondazione Claudio Sabattini
Intervento in occasione del convegno “Riccardo Terzi. Sindacalista e politico tra teoria e prassi” svoltosi nella Camera del Lavoro di Milano il 15 ottobre 2019, promossa dalla C.d.L.M., dalla Fondazione Di Vittorio e dal Gruppo di Lavoro Riccardo Terzi.
Pubblicato su Inchiesta.

Riflessioni sulla figura del dirigente sindacale e politico visto anche attraverso una lunga esperienza di relazioni dirette spesso intervenute nel corso delle vicende del movimento operaio dagli anni 60 agli ultimi anni della sua vita

Devo premettere che con Riccardo ci siamo conosciuti ed abbiamo iniziato a lavorare assieme nel 1964, a Roma nella direzione nazionale della Federazione Comunista Giovanile Italiana (FGCI) di Occhetto. Era la FGCI del rinnovamento culturale e politico ben sintetizzato dalla rivista “La Città Futura”. Lui ed io ci occupavamo degli studenti e delle scuole che giusto allora iniziarono ad essere l’epicentro di una progressiva presa di coscienza politica e civile di un’intera generazione.

Occhetto era potuto diventare segretario grazie ai voti determinanti dell’Emilia-Romagna che Claudio Sabattini, segretario di Bologna, era riuscito a convogliare su chi rappresentava allora una svolta.

Eravamo la generazione della guerra, Riccardo aveva 23 anni, io 20 e Claudio 26. Riccardo aveva due anni, Claudio 5 quando iniziò la guerra, ed io sono nato sotto i bombardamenti di Bologna del ‘44. La guerra, per la generazione nata al ridosso, rimase un elemento importante nel processo di maturazione di ciascuno.

Ho voluto ricordare questi dati biografici perché voglio partire dall’introduzione che Riccardo scrisse per il libro in memoria di Claudio, pubblicato non a caso dalle edizioni LiberEtà quando Riccardo era segretario nazionale dello SPI. Sosterrò che molte sue interpretazioni di Claudio e del suo agire, sono anche autobiografiche e biografiche di alcuni di noi.

 

Mi è stato chiesto maliziosamente all’inizio di questa mia riflessione di descrivere la differenza tra Riccardo e Claudio, differenza, a parere di chi me lo ha chiesto, riconducibile all’essere Riccardo un riformista e Claudio un radicale. Sosterrò, al contrario, che sono stati due dirigenti sindacali differentemente radicali e mi limito a ricordare che nella fase finale delle loro vite entrambi, nel direttivo della CGIL, si consultavano e concordavano delle iniziative.

Differentemente radicali significa che al di là delle diverse opzioni del loro impegno sindacale quotidiano, ognuno di loro aveva la consapevolezza profonda, nella ultima parte delle loro vite, di essere a un punto di svolta epocale. Entrambi ritenevano che in quelle circostanze il problema politico e analitico, per chi lotta contro il capitalismo, è un ritorno alle radici del proprio pensiero e della propria prassi per renderle atte a misurarsi con il nuovo mondo che stava nascendo. Come dice Riccardo di Claudio; «il suo tratto saliente è quello della radicalità, nel senso proprio del termine, in quanto ha sempre cercato di afferrare le questioni nella loro radice, tirandone tutte le conseguenze necessarie.» Poco dopo aggiunge quella che a me pare una notazione anche autobiografica, Sabattini, infatti, secondo Riccardo va compreso: «come il testimone di un passaggio d’epoca, che ha cercato nel groviglio delle nuove contraddizioni sociali e politiche di individuare un cammino possibile, lungo una via non sempre rettilinea ma fatta di tentativi, di svolte, anche di errori e sconfitte».

Entrambi hanno spesso scritto e dichiarato che si era in un punto di svolta epocale. Lo storico Adam Tooze parla di “una grande crisi della modernità” e aggiunge in modo ancor più specifico che: «Dal 2007 la portata della crisi finanziaria ha messo sotto un’immensa pressione questo rapporto tra la politica democratica e le esigenze della governance capitalista. Tale pressione si è manifestata soprattutto non in una crisi della partecipazione popolare, o del controllo finale della politica da parte dei leader eletti, ma in una crisi dei partiti che hanno storicamente mediato i due aspetti. Ha messo alla prova i loro programmi, la loro coerenza e la loro capacità di mobilitare il sostegno, ed essi si sono dimostrati carenti. In molti paesi questo ha spazzato via i partiti moderati della sinistra, soprattutto in Grecia e in Francia.»

Si può aggiungere che tra il 1980 e il 2008 è anche maturata una crisi dei movimenti sindacali nel mondo, per la stessa ragione e cioè che ci può essere solo un principio assoluto di governance nei luoghi di lavoro. Tale principio ha subìto, per così dire, un’evoluzione dalla diade efficienza e produttività sino all’odierna pretesa, espressa senza pudori nei tavoli delle crisi aziendali, che non solo ci sia un profitto ma che sia commisurato alle attese inziali degli azionisti. La crisi dei movimenti sindacali si è avvitata in un circolo vizioso: quanto meno conti tanto meno rappresenti e allora cerchi una compensazione in logiche corporative aziendali, queste riducono ulteriormente la capacità di rappresentanza, e così via.

 

Un filo rosso che lega le riflessioni e le esperienze di Riccardo e Claudio è sicuramente il tema che è stato messo al centro del seminario odierno: il rapporto tra teoria e prassi. Una riflessione, come ricorda Riccardo, che per entrambi nasce nella militanza comunista, a Bergamo per lui, a Bologna per Claudio. Ecco testualmente: «vi era comunque in entrambi l’idea di un rinnovamento necessario (..) la riscoperta e la riattualizzazione delle radici sociali, per dare un senso concreto al carattere “di classe” del partito. Il rapporto con la classe era infatti mediato dall’ideologia e finiva per essere più un’affermazione di principio che una pratica reale».

Riccardo sostiene che il loro passaggio molti anni dopo al sindacato sia «uno sviluppo logico di quella posizione» e la sua fulminante battuta «non siamo diventati sindacalisti per modestia, ma per ambizione».

Ma fare i conti con questo nodo teorico e pratico è particolarmente complesso oggi.

Non ci può essere per Riccardo, come per Claudio, una prassi emancipatrice che non sia radicata nei soggetti sociali e nei loro conflitti e quindi non si può più contare «sull’investimento emotivo sulla figura del leader» considerato come «un demiurgo cui ci si affida passivamente» e quindi è, al contrario, necessario un leader come rappresentante di un’esperienza collettiva. Di qui quindi la necessità in una situazione di crisi della politica e dei partiti che spetti «alle organizzazioni sociali nella loro autonomia, costituirsi come potenza politica e sviluppare con forza un’azione di pressione, di critica e di sfida progettuale nei confronti del sistema politico perso nel suo complesso, senza rapporti privilegiati e senza collateralismi» cioè il “sindacato come soggetto politico”. Ma l’indipendenza o l’autonomia, termine preferito da Riccardo, “non è una proprietà dell’organizzazione” perché il sindacato è autonomo «solo in quanto riesce a rappresentare senza filtri burocratici (…) l’originaria soggettività dei lavoratori».

Riccardo ricorda a questo punto, di nuovo in modo autobiografico, la riflessione di Claudio del 1972 su movimento studentesco, per chiarire un altro punto che lui considera essenziale per il sindacato è cioè che l’autonomia del soggetto sociale consiste «nella possibilità concreta di padroneggiare la propria condizione, anzitutto nel lavoro, in riferimento al complesso delle relazioni sociali.»

Perché ciò avvenga la classe operaia, dice Terzi, ha bisogno di «un fondamento teorico, un fondamento politico» di un orizzonte che dia senso a un processo di trasformazione. Ma questa coscienza non può «essere trasmessa, dall’esterno, dall’élite politica, dall’avanguardia cosciente».

La prassi sindacale per Riccardo è quindi basata, come per Claudio, sulla triade autonomia sociale, conflitto e democrazia.

Il conflitto, dice Riccardo, è in modo strutturale un aspetto delle società capitalistiche e non ha quindi alcun senso contrapporre “il sindacato conflittuale” e quello “partecipativo” perché “questi due momenti sono sempre necessariamente intrecciati”, il punto è la ricerca del loro equilibrio che un dato concreto in una situazione concreta e non una formula, e «il punto chiave nelle relazioni sindacali è se si riconosce che l’impresa è un sistema sociale complesso, nel quale convivono diversi punti di vista, diverse soggettività e se dunque si possa aprire uno spazio di negoziazione che renda possibile la definizione di un punto di equilibrio

Di qui l’importanza centrale della democrazia nel sindacato, democrazia che non può essere solo la verifica delle maggioranze, bisogna evitare la dittatura della maggioranza e quindi avere un’organizzazione che tuteli punti di vista innovativi, diversi ed anche forme di sperimentazione.